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La competitività è un problema sempre più urgente per l’Italia

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Competitività economica: di cosa si tratta?

Secondo la definizione fornita dal World Economic Forum (WEF), la competitività economica è l’insieme di istituzioni, politiche e fattori che determinano il livello di produttività di un Paese. Stimare il livello di produttività dei singoli Stati è fondamentale, dal momento che è proprio dalla produttività che dipendono la crescita, la prosperità e i livelli di reddito, e in particolar modo questi ultimi rappresentano un chiaro indicatore di benessere della popolazione.

A misurare la competitività economica dei Paesi è lo stesso WEF, che si occupa anche di redigere una sorta di classifica: ad essere premiate come più virtuose sono le economie caratterizzate dalle maggiori probabilità di crescita sostenibile ed inclusiva. Il processo di misurazione si compone di tre fasi. Nella prima vengono selezionati i 12 ambiti essenziali che andranno valutati, cioè le vere e proprie colonne portanti della competitività (tra cui istruzione primaria, sanità, istituzioni, infrastrutture), successivamente raggruppate in 3 sottoindici. Nella seconda parte si passa ad un’analisi dei mercati (dei beni, del lavoro e finanziari), oltre che l’istruzione superiore, la formazione e la prontezza tecnologica. Terzo step, infine, è lo sguardo rivolto all’innovazione e alla business sophistication, ambiti competitivi più complessi che presuppongono una elevata modernità delle istituzioni e la partecipazione a business e progetti di ricerca di carattere globale.

Nel 2020, però, il WEF Competitiveness Report ha tenuto conto anche di aspetti inusuali, a causa della crisi provocata dalla pandemia di Covid-19. In particolare, le tradizionali classifiche sulla competitività hanno lasciato spazio a un’analisi delle priorità per la ripresa dei vari Paesi.

Un altro indicatore imprescindibile: l’attrattività

Molto spesso, la competitività va a braccetto con l’attrattività, intesa come la capacità di un Paese di attrarre investimenti esteri. Anche l’attrattività rappresenta un indicatore fondamentale della crescita e del benessere di uno Stato, in quanto i Paesi che attraggono una bassa quantità di capitali stranieri – o che registrano una fuga di questi ultimi – sono spesso Paesi caratterizzati da serie problematiche, quali alta probabilità di default, incertezza a livello politico o contesto socio-economico sfavorevole.

Per quanto concerne la misurazione dell’attrattività, nel 2016 The European House ha lanciato, con il contributo tra gli altri dell’ex presidente dell’Istat e Ministro del Lavoro Enrico Giovannini, il Global Attractiveness Index (GAI), il quale tiene conto in maniera significativa del solido legame (in grado di dar luogo ad un circolo virtuoso) con la competitività.

Il Global Attractiveness Index ogni anno si sofferma sulla capacità dei vari Stati di attrarre quattro tipi di capitale: fisico, naturale, umano e sociale, oltre che sull’abilità nel trattenere le risorse già presenti nel territorio, ed è composto da tre dimensioni (indice di posizionamento, indice di dinamicità e indice di sostenibilità). Anche in questo caso, lo studio del 2020 si è concentrato anche su alcuni elementi che prima non erano considerati priorità assolute per l’indice, quali ad esempio il grado di resilienza di un Paese o la protezione delle fasce più fragili della popolazione.

La delicata posizione italiana nello scenario della competitività globale

Esaminando il report del 2020 del WEF sulla competitività globale, si può notare come le prime posizioni nella maggior parte delle graduatorie, se si considerano i soli Stati europei, siano occupate dai Paesi scandinavi (Svezia e Finlandia su tutti), l’Olanda, la Svizzera e la Germania. Anche la Francia è fra i virtuosi, mentre il nostro Paese è fra i fanalini di coda e risulta in ritardo nella quasi totalità delle priorità analizzate, dietro anche a Spagna e Portogallo. L’Italia, fra l’altro, è ai primissimi posti in Europa per corruzione percepita e agli ultimi (in particolare considerando i Paesi più sviluppati) per fiducia nelle istituzioni, progressività del regime fiscale, formazione e investimenti in ricerca e sviluppo.

Il nostro Paese risulta indietro anche guardando alla capacità di resilienza e di ripartenza dell’economia. C’è chi fa peggio di noi, come la Grecia e, in molti ambiti, Polonia e Ungheria, ma ciò non deve essere una scusante. Se si fa riferimento a quei Paesi che hanno ottenuto i maggiori riconoscimenti, si nota infatti come essi siano estremamente orientati alla digitalizzazione, investano molto in istruzione e skills necessarie ai giovani per trovare lavoro e operino un continuo ammodernamento delle infrastrutture: tutte caratteristiche in cui l’Italia non si rispecchia. C’è, però, anche qualche nota positiva: l’Italia, ad esempio, è tra i primi posti per incentivi volti a indirizzare risorse finanziarie verso gli investimenti a lungo termine e rafforzare la stabilità, oltre che per disponibilità al quadro della concorrenza.

Altri segnali incoraggianti arrivano da quelli che il dossier “L’Italia in 10 selfie 2020” della fondazione Symbola, realizzato in collaborazione con Unioncamere e Assocamerestero, definisce i “primati dell’economia italiana”: il nostro Paese, infatti, è primo in Europa per sostenibilità dell’agricoltura (e alle prime posizioni a livello mondiale per aree agricole coltivate a biologico), così come nell’ambito dell’economia circolare (con la più alta percentuale di riciclo, pari al 79%). Dei dati senza dubbio significativi, che suggeriscono come siano in realtà presenti delle basi che possono spingere l’Italia a scalare la classifica della competitività.

L’Italia e l’attrattività: un contesto poco dinamico

Secondo il già citato Global Attractiveness Index 2020 di The European House, l’Italia si colloca al diciottesimo posto globale per attrattività, esattamente alla stessa posizione che ricopriva nel 2019. Non tutto, però, è rimasto identico, se si pensa che, ad esempio, il punteggio riportato è inferiore di quasi 0,8 punti rispetto a quello dell’anno precedente (60,36 contro 61,15), e che il divario con il Belgio (diciannovesimo, e che invece ha fatto registrare un aumento del punteggio di 0,14 punti) si sta assottigliando sempre di più. Il diciottesimo posto non è però da considerarsi un cattivo risultato: considerando il numero dei Paesi esaminati, ben 144, l’Italia viene definita un Paese dalla buona attrattività.

Al vertice della classifica si conferma la Germania, cui è stato attribuito per il secondo anno consecutivo il punteggio massimo, pari a 100. Tenuto conto di Brexit, bisogna scendere fino al decimo posto per vedere il secondo Paese Ue, e cioè l’Olanda, il cui divario con la Germania è superiore ai 40 punti; segue la Francia subito dopo, Svezia e Spagna fanno bene ma peggio dell’Italia, Grecia e Bulgaria (rispettivamente sessantatreesima e sessantaquattresima) sono le peggiori d’Europa.

Focalizzandosi sulla situazione del nostro Paese, si può notare come l’indice di dinamicità, ossia la stima della velocità di un Paese nel variare la propria posizione all’interno della classifica nell’arco di 3 anni sia, come già accennato, piuttosto basso, e come quello di sostenibilità, cioè la misura del livello di un Paese rispetto al proprio grado di sostenibilità in prospettiva, sia invece discreto.

La diminuzione degli investimenti in Italia e le conseguenze della pandemia

Riguardo gli investimenti diretti esteri in Italia, la situazione non è delle migliori: osservando le medie dei flussi negli ultimi tre anni si può notare come questi ultimi ammontino a meno della metà di quelli in Germania e siano inferiori a quelli in Francia e Spagna; una parziale inversione di tendenza rispetto al triennio 2014-2016, in cui l’Italia attraeva più investimenti rispetto a Germania e Spagna.

Ma perché l’Italia attrae, in proporzione, meno investitori? Sicuramente a causa di una scarsa digitalizzazione, di una Pubblica amministrazione poco efficiente (quella italiana nel 2017 era al ventitreesimo posto su 28 stati UE secondo l’European Quality of Government Index), e di una produttività che cala costantemente. C’è però anche chi, come Ernst & Young nel report “Infrastructure barometer – Italy”, sostiene che, anche a causa di una carenza di infrastrutture adeguate, gli investitori esteri sarebbero molto propensi a portare i propri capitali in Italia, ora (che stanno per arrivare importanti aiuti dall’UE) più che mai.

Per fortuna, arrivano buone notizie dall’export, unica voce macroeconomica ad essere cresciuta nell’ultimo periodo, di oltre il 5%, anche se la bilancia commerciale (caratterizzata da un ampio surplus) è pari soltanto a poco più del 3% del Pil.

Con riferimento invece alle conseguenze della pandemia, i dati evidenziano come il nostro Paese, uno dei più colpiti, abbia beneficiato di un significativo intervento pubblico (inteso come spesa pubblica straordinaria per cercare di reagire alla crisi), ma non è detto che ciò sarà sufficiente a tornare ai livelli pre-pandemici. Bisogna infatti considerare che la crisi del dopo-Covid non potrà far altro che peggiorare una situazione già prima piuttosto stagnante (nel 2019 il Pil era cresciuto solo dello 0,3%). La pandemia sta inoltre avendo (ed avrà) indubbi effetti sui livelli di reddito dei cittadini, con le disuguaglianze di reddito che non accennano a placarsi, e che anzi sono previste aumentare.

 

In conclusione, si può affermare che la situazione in cui si trova il nostro Paese, nell’ambito della competitività e dell’attrattività, rappresenta un campanello d’allarme, dati il continuo peggiorare di alcune voci macroeconomiche e la poca dinamicità nelle classifiche. Tuttavia, l’Italia, trainata da alcuni risultati eccellenti, dimostra di voler ripartire, e l’auspicio è che piani come il Next Generation EU possano agevolare questo difficile percorso.

Vittorio Fiaschini
Nato a Perugia 22 anni fa, dopo una triennale in Economia e finanza studio Economics of government and international organizations alla Bocconi. Amante di sport, cinema e storia, la mia passione numero uno è però la politica. Fanatico della Prima Repubblica, dico frequentemente "quando c'era lui", ma con riferimento a De Gasperi.

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