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Il futuro delle infrastrutture in Africa

Tempo di lettura stimato: 7 min.

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Negli ultimi decenni, l’Africa ha visto le proprie economie svilupparsi, diventando sempre più integrate nel mercato mondiale. Questa crescita, benché si sia mantenuta positiva anche in seguito alla crisi del coronavirus, impallidisce rispetto ai livelli di altri territori che presentano simili livelli di sviluppo, come l’Asia meridionale.

Uno dei fattori che ha portato a questo distacco è il deficit infrastrutturale che tuttora sussiste tra i Paesi africani e il resto del mondo. Stando ad uno studio della Banca Mondiale, l’Africa rappresenta il fanalino di coda in tutti gli indici di sviluppo infrastrutturale. Ad esempio, solo il 43% della popolazione africana ha accesso all’elettricità, un dato che corrisponde alla metà del dato globale, pari all’87%. Questo fattore, oltre a comportare gravi disagi nella vita delle persone, ha un peso non indifferente sulle possibilità di crescita del continente: secondo uno studio del 2018, la presenza di interruzioni nella provvisione di elettricità può causare una diminuzione delle possibilità di lavoro fino al 35%.

Avendo già affrontato le questioni relative al deficit infrastrutturale e agli sviluppi correnti in un precedente articolo, analizzeremo le prospettive di crescita future e le problematiche relative ai due temi più caldi degli ultimi anni: il cambiamento climatico e l’urbanizzazione.

Quali prospettive di crescita?

Come già anticipato, il deficit infrastrutturale causa ogni anno all’Africa enormi perdite in termini di produttività e capacità di crescita. Risulta quindi evidente che c’è bisogno di chiudere questo gap per poter permettere un ulteriore salto di qualità alla vita dei cittadini africani.

I problemi emergono quando si guarda alla differenza tra la capacità finanziaria dei Paesi africani rispetto alla mole di investimenti necessari a colmare il divario: molti Stati dell’Africa sono poveri di risorse e sempre più attanagliati dai limiti del debito, a loro volta causa di ulteriori restrizioni sulle condizioni di finanziamento. Secondo un sondaggio condotto dal Fondo monetario internazionale su 46 esperti di Paesi a basso reddito, la quasi totalità del campione ha indicato quello del debito come uno dei problemi che inibisce la capacità d’investimento pubblica nelle infrastrutture.

Una possibile soluzione che in molti suggeriscono è quindi una maggiore inclusione del settore privato nella costruzione di queste infrastrutture. In particolare, la strada che viene indicata per raggiungere questo obiettivo è l’utilizzo del partenariato pubblico-privato (Ppp), una forma di collaborazione tra settore pubblico e privato dedito a finanziamento, costruzione e gestione di infrastrutture.

Un’altra strada spesso indicata consiste nel coinvolgere investitori istituzionali, quali i fondi pensione, sovrani o assicurativi. Secondo McKinsey, questi fondi avrebbero a disposizione 120 trilioni di dollari che potrebbero essere destinati almeno in parte per la costruzione di infrastrutture: essendo operazioni intrinsecamente stabili e a lungo periodo, rappresenterebbero un investimento ideale per tali attori.

Il parco fotovoltaico di Rwamanaga, in Ruanda, costruito e mantenuto da un’impresa olandese. [crediti foto: Sameer Halai, BY CC 2.0]

Ci sono però vari problemi con l’inclusione di privati in questo settore. Le Ppp sono ancora un mercato piccolo e concentrato in pochi Paesi più sviluppati, come il Sudafrica. Per riuscire a gestire progetti in accordo con privati è infatti necessario avere un impianto legale ed un framework istituzionale robusti, date le implicazioni fiscali che queste partnership spesso comportano. Inoltre, sebbene gli investimenti in infrastrutture possano risultare interessanti, essi sono spesso esposti a grandi rischi di mercato e non, come l’instabilità politica in alcune delle regioni che ne necessitano.

Per questo motivo, sarà fondamentale il ruolo della Banca mondiale e delle altre banche multilaterali di sviluppo minori, che potranno usare la loro forza finanziaria per mettere garanzie sugli investimenti e diminuire in questo modo il loro livello di rischio potenziale.

Da non sottovalutare anche il ruolo della comunità internazionale, fondamentale nello sviluppo di infrastrutture basiche (come strade e reti idriche): queste, come argomentato da Gyude Moore, ex ministro delle infrastrutture della Liberia, non attraggono gli investimenti in virtù dei bassi margini di rendimento. Emblematico il fatto che solo 24 dei 56 Paesi più poveri hanno visto anche solo un progetto infrastrutturale finanziato da privati tra il 2011 e il 2015.

Questo, insieme ad un aumento dell’efficienza della spesa pubblica e ad un maggiore ricorso a vie di credito agevolato dalla comunità internazionale, può portare ad una chiusura del gap infrastrutturale

Infrastrutture sostenibili in Africa

Le problematiche legate al gap infrastrutturale non sono però le uniche che i Paesi africani si trovano ad affrontare. Un tema fondamentale è quello delle infrastrutture in relazione al cambiamento climatico.

Il nono obiettivo di sviluppo sostenibile ideato dalle Nazioni Unite riconosce come essenziale per il miglioramento degli standard di vita delle persone l’investimento in infrastrutture sostenibili. Queste sono inoltre indispensabili per la lotta al cambiamento climatico: stando a Stefano Gatti, professore di finanza degli investimenti presso l’Università Bocconi, le infrastrutture possono contribuire fino al 75% dell’obiettivo di riduzione dell’impatto del cambiamento climatico nell’economia.

Non tutti però credono nella necessità di concentrare tanti sforzi nella costruzione di infrastrutture sostenibili. Secondo Mike Muller, dell’università di Witwatersrand, esistono interessi diversi tra il mondo sviluppato e quello in via di sviluppo, e non è necessariamente un bene che i primi stiano usando strumenti come gli aiuti allo sviluppo per imporre i propri standard sui secondi. In particolare, l’autore fa riferimento al Consolidated Appropriations Act discusso dal Congresso americano nel 2014, che si schierava apertamente contro ogni aiuto alla costruzione di dighe in Paesi in via di sviluppo, a causa del loro grande impatto ambientale.

Muller ha inoltre argomentato che le infrastrutture “verdi” potrebbero non essere in grado di soddisfare i sempre maggiori bisogni dei Paesi in via di sviluppo, e che sarebbe necessario lasciare ogni Paese libero di trovare la propria soluzione per creare una società sostenibile, sia dal punto di vista ambientale sia sociale.

Un altro fattore da tenere in considerazione, soprattutto in un continente come quello africano, è la resilienza ambientale delle infrastrutture. L’Africa sarà infatti uno dei territori più colpiti dai problemi del cambiamento climatico, in particolare nella regione del Sahel, dove il settore agricolo già soffre dell’aumento di fenomeni climatici estremi, come allagamenti e siccità. Per questo motivo la resilienza viene inclusa tra le priorità di molte istituzioni che si occupano di sviluppo, come l’Mcc e la Banca mondiale.

La questione della resilienza è particolarmente collegata al tema dell’urbanizzazione, un altro dei punti focali dello sviluppo infrastrutturale in Africa.

L’Africa delle metropoli

Secondo il rapporto dell’Oecd sullo stato dell’urbanizzazione in Africa uscito nel 2020, il continente è tra i meno urbanizzati al mondo, ma anche tra quelli in cui l’urbanizzazione cresce a maggiore velocità . Mentre attualmente la popolazione urbana nel continente si attesta a 567 milioni, secondo la Banca mondiale questa raggiungerà il miliardo già nel 2040, con tassi di crescita annuali compresi tra il 2,5% e il 3,5%.

Questa crescita rapida e spesso non programmata porta con sé grandi rischi di instabilità sociale e ambientale, e mette particolare pressione sulle infrastrutture. Sebbene la concentrazione di persone e asset in contesti urbani possa portare a un miglioramento delle condizioni di vita di milioni di persone, se gestita male, rischia di andare ad esacerbare le disparità socio-economiche e creare condizioni di vita insalubri.

Secondo alcune stime della società assicurativa Zurich, il 40% dell’espansione urbana nel mondo avviene in baraccopoli. In particolare, nell’Africa Sub-Sahariana il 62% della popolazione urbana vivrebbe in condizioni di grave disagio abitativo, con conseguenze per la salute dei cittadini e un aumento delle tensioni sociali.

Il Cairo, Egitto. [crediti foto: Luc Legay, CC BY-SA 2.0)
A questi fattori si associano altri problemi specifici dell’urbanizzazione in Africa. In particolare, la Banca mondiale ha individuato tre caratteristiche tipiche delle città africane che ne limitano il potenziale di crescita: l’affollamento, la disconnessione e il costo, decisamente maggiori rispetto a quelli di altri contesti con simili livelli di sviluppo. Rispetto alle città in Asia e in America Latina, le città africane hanno il 40% in meno di vicini con cui interagire e il costo della vita è il 29% più alto.

Infine, l’urbanizzazione in Africa presenta dei grandi problemi ambientali. Sempre secondo la Banca mondiale, la crescita delle città africane ne sta degradando il capitale naturale in maniera definitiva. Questo avviene in particolare a causa del basso livello di reddito pro capite, della presenza di grandi insediamenti informali con pochi servizi, e della dipendenza dai carburanti da biomassa, che causano alti livelli di inquinamento atmosferico nonostante la scarsa industrializzazione e motorizzazione. Inoltre, circa il 90% dell’espansione urbana nei Paesi in via di sviluppo continua ad avvenire in aree ad alto rischio di degradazione ambientale, come le fonti d’acqua. Per esempio, quattro delle cinque maggiori città africane sorge nei pressi di un fiume o di un mare.

Tutti questi problemi possono essere risolti solo da un grande focus sulla costruzione di infrastrutture di buon livello, che possano adattarsi alle sempre più serie sfide ambientali e rendere le città meno disorganizzate. Per questo la Banca mondiale suggerisce una riforma dei mercati fondiari e una coordinazione maggiore degli investimenti infrastrutturali.

*Uomini al lavoro sulla diga GERD, Etiopia [crediti foto: Jacey Fortin , CC BY-SA 4.0]
Giovanni Simioni
Nato nel 1999 a Milano e da sempre interessato alla politica, studio Scienze Politiche all’Università Bocconi. Sono entrato in OriPo per avere una scusa per studiare in maniera approfondita ciò che prima era solo una passione da perseguire nel tempo libero.

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