Prima Parte: dall’indipendenza alla secessione del Sud Sudan
Il dominio coloniale e i primi anni d’indipendenza
Nel 1899, l’impero Britannico impose alle tribù dell’area del Nilo centrale un governo anglo-egiziano. Si definirono precisamente i confini del paese che oggi chiamiamo Sudan, che divenne lo Stato africano più esteso all’epoca.
La situazione rimase stabile per quasi cinquant’anni, durante i quali i britannici utilizzarono la zona principalmente per le sue ingenti risorse naturali e come base per controllare l’espansionismo italiano e tedesco nella zona dell’Africa Orientale e dei Grandi Laghi, limitandosi a investimenti nella zona della valle del Nilo e trascurando le aree periferiche.
Nel 1953, seguendo il principio dell’autodeterminazione dei popoli, un ulteriore accordo anglo-egiziano determinò la creazione dello Stato Indipendente del Sudan. Fu decisa la creazione di un’assemblea costituente e la creazione di un sistema federale per cercare di rappresentare tutte le etnie presenti nell’immenso territorio.
La situazione però fu subito di evidente fragilità. Le grandi differenze etniche e religiose tra il nord islamico e il sud cristiano-animista, con una predominanza di potere nelle mani delle etnie settentrionali, furono evidenti già durante la stesura della Costituzione nel 1953-58. Nel ’58 i rappresentanti meridionali abbandonarono l’Assemblea Costituente, quando fu evidente che i rappresentanti del nord intendevano costruire un governo centralizzato e basato sulle regioni settentrionali, la legge e la religione islamica, in contrasto con l’idea di federazione proposta dal governo Britannico.
La tensione esplose nella prima guerra civile tra nord e sud, che durò fino al 1978 e fu risolta grazie all’intervento Etiope, con il governo di Addis Abeba a fare da garante dell’armistizio nella regione.
Nonostante ciò, l’allora Presidente Nimeyri si dimostrò incapace di incontrare le richieste dei rappresentanti meridionali, tentando testardamente di mantenere il Sud Sudan sotto il controllo del governo centrale.
Questo causò il riprendere delle ostilità nel 1983, quando i generali meridionali si unirono nel nuovo Esercito di Liberazione del Popolo del Sudan (SPLMA).
Nel 1985 una rivolta di stampo liberale e democratico scosse la capitale Khartoum e riuscì a deporre il Presidente Nimeyri, dichiarando l’affermazione della democrazia in Sudan. L’esperimento fu però di breve durata. Nel 1989 un colpo di stato di stampo militare rovesciò il Governo Provvisorio, re instaurando dittatura e legge islamica. A guidare il movimento c’era il Generale Omar al-Bashir.
Il trentennio di Al-Bashir e il genocidio del Darfour
Al-Bashir fece eleggere come Presidente un suo uomo di fiducia, Hasan al-Turabi. I due stabilizzarono il loro potere nel nord del paese, mentre il conflitto con il sud si esacerbava, ora che le possibilità di democrazia erano state di nuovo ridotte al minimo. Il paese si frantumò in una miriade di conflitti locali di natura etnica e religiosa, e divenne un porto sicuro per molti integralisti islamici ricercati per terrorismo, tra cui lo stesso Osama Bin-Laden, che trovò riparo in Sudan tra il 1992 e il 1996 grazie all’appoggio di al-Turabi. Nel 1998 un’imponente carestia costrinse al-Turabi ad aprire il paese agli investimenti esteri nel campo dell’estrazione petrolifera, esponendo al mondo le terribili condizioni umanitarie delle zone periferiche del paese.
Questo portò ad un aumento della pressione internazionale nei confronti del duo Bashir/Turabi. A risolvere la situazione fu un ulteriore colpo di mano di al-Bashir, che spodestò facilmente il suo pupillo accusandolo di collaborazione con il SPLMA, dichiarò lo Stato di Emergenza e prese di mira il Sud del paese con ingenti bombardamenti. Solo nel 2004, grazie all’intercessione del governo dell’Uganda, al-Bashir riuscì ad incontrare il leader delle zone meridionali, John Garang, con il quale stipulò un armistizio e una promessa di referendum per aumentare il potere decisionale del Sud Sudan. La Seconda Guerra Civile era terminata, ma i problemi per la popolazione del Sudan di certo non lo erano.
Negli anni 2002-2003, infatti, l’ineguaglianza tra le regioni limitrofe alla capitale e quelle periferiche raggiunse un punto di rottura.
Emersero quindi due movimenti ribelli. Il primo localizzato nella zona orientale, guidato dal gruppo del Fronte Orientale finanziato dall’Eritrea, che metteva a rischio l’Oleodotto Nazionale nell’area. Il secondo gruppo era invece stabilizzato nella zona occidentale, tra la regione del Darfur e il Ciad.
Grazie alle loro tattiche di “hit and run”, colpisci e scappa, entrambi i gruppi ribelli ottennero inizialmente grandi successi sulle forze governative, convinte di trovarsi in territori più tranquilli rispetto al turbolento Sud, e quindi del tutto impreparate. Il governo si trovava tra due fuochi, sbilanciato verso meridione e nel mezzo dell’importante trattativa con John Garang. La risposta di al-Bashir fu tanto brillante quanto brutale. Fu deciso, infatti, di muovere l’esercito governativo verso Est, per fronteggiare i ribelli orientali e proteggere i vitali oleodotti nella zona di Port Sudan sul mar Rosso. La gestione dei ribelli in Darfur fu quindi lasciata alle tribù berbere del nord del paese, che furono massivamente armate e spostate verso ovest, lasciando carta bianca ai loro leader su come sedare la rivolta. Queste tribù a cavallo, estremamente mobili e abituate ai rigori del deserto si auto-soprannominarono JanJaWeed, i demoni a cavallo.
Le milizie vero rapidamente la situazione a loro vantaggio. Meglio armati e appoggiati dal governo, le tribù causarono oltre 400.000 morti (secondo i dati accettati dalle Nazioni Unite forniti dalla Coalition for International Justice), un numero intorno al mezzo milione di stupri e milioni di profughi nel vicino Ciad, che nel 2005 dichiarò guerra al Sudan ma è ancora oggi alle prese con la difficile gestione dei rifugiati e resta spaccato in un conflitto tra est e ovest del paese.
La comunità internazionale, che nel 1995 aveva stabilito le linee della “Responsability to Protect”, la responsabilità collettiva a prevenire e interrompere i genocidi, fu piuttosto lenta a reagire, a causa delle diverse posizioni dei membri del Consiglio di Sicurezza nei confronti di al-Bashir. Solo nel 2006, oltre tre anni dopo l’ingresso dei demoni sullo scenario del Darfur, il Segretario ONU Kofi Annan raccomandò l’intervento del Consiglio di Sicurezza, che qualche mese dopo si accordò sull’invio di 20.000 “Caschi Blu” ad affiancare i 7000 uomini dell’Unione Africana già attivi nell’area per assicurare aiuti umanitari e protezione ai civili.
Le milizie si rivelarono poi un problema anche per il governo centrale, che era nel frattempo riuscito a domare i ribelli orientali grazie ad accordi con l’Eritrea. Solo nel 2010 i JanJaWeed furono riportati all’ordine, e da allora la situazione in Darfur è più stabile e sotto il costante controllo della comunità internazionale.
Al-Bashir fu condannato per crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità, ma non fu mai catturato. All’aumentare delle pressioni internazionali, il governo sudanese decise di indire elezioni nel 2010. Queste videro al-Bashir trionfare con il 68% dei voti, nonostante i numerosi dubbi sulla regolarità delle procedure di voto. Una volta rieletto, il presidente dichiarò l’intenzione di indire un referendum per l’indipendenza del Sudan del Sud. La votazione si tenne nel 2011, e stabilì come il 99% dei Sud-Sudanesi desiderasse l’indipendenza. Questa fu prontamente riconosciuta, rendendo il Sud Sudan lo Stato più giovane del mondo, provvisto di tutti i problemi che caratterizzano la “madre” settentrionale: divisione etnica, mancanza di infrastrutture e interessi di grandi potenze regionali nell’area.
La situazione in Sud Sudan verrà affrontata da Orizzonti Politici nel prossimo articolo della Lente di Ingrandimento sull’area sudanese.