Non è una coincidenza che i Paesi caratterizzati da maggiore instabilità politica o coinvolti all’interno di conflitti siano anche quelli che presentano livelli più critici in termini di food security (sicurezza alimentare). La FAO ha evidenziato che in tali Paesi la percentuale di cittadini denutriti è tre volte maggiore rispetto ad altri Paesi in via di sviluppo; inoltre, quando la situazione post-bellica è contraddistinta da un elevato livello di insicurezza alimentare, la probabilità di ricadere in un conflitto aumenta del 40%.
Stando ai dati del World Food Program (WFP), nello scorso anno più di 180 milioni di persone si trovavano in uno stato di insicurezza alimentare. Di questi, la maggior parte – 99 milioni – vive in un Paese afflitto da guerra o conflitti.
Nell’analizzare il rapporto tra sicurezza alimentare e conflitti, a emergere è il circolo vizioso che lega questi due fattori, nonché l’utilizzo del cibo stesso come come leva geopolitica strategica. Dal Medio Oriente, al Venezuela, fino al conflitto russo-ucraino: numerosi sono gli esempi, nella storia più recente e non, in cui tali dinamiche si manifestano.
Sicurezza alimentare e conflitti: un circolo vizioso
L’interesse per il concetto di food insecurity come elemento scatenante di instabilità politica è cresciuto rapidamente a partire dal biennio 2007-08, a seguito dell’aumento dei prezzi mondiali del grano e del riso. Numerosi studi hanno evidenziato il ruolo centrale di tale apprezzamento nelle successive proteste in Africa e nelle Primavere arabe. Non mancano precedenti: dalle rivolte narrate da Cicerone, passando per le Guerre del Sale nel XVI secolo e per la Guerra delle farine antecedente alla Rivoluzione francese, il ruolo del cibo come catalizzatore di conflitti ha storicamente preso forma nelle cosiddette “food riots” (lett. rivolte per il cibo).
La spiegazione prevalente per quanto riguarda il legame tra prezzi del cibo e conflitti vede l’aumento dei primi creare o aumentare i vincoli economici e i sentimenti di privazione, attivando rimostranze nelle fasce di popolazione colpita, che a loro volta portano a proteste o veri e propri conflitti. I risentimenti non sono quindi causati da un livello di insicurezza alimentare assoluto, ma piuttosto da una povertà relativa, da rapidi cambiamenti nello stato di food security o nella distribuzione del cibo.
Inoltre, le food riots e i conflitti legati al cibo sono più propensi a scoppiare in Paesi già fragili politicamente; in questo senso, è importante sottolineare come tali conflitti non dipendano unicamente dall’aumento dei prezzi alimentari. Si tratta di dinamiche complesse, legate al contesto economico e socio-politico, che si intersecano con una molteplicità di fattori, tra cui la debolezza istituzionale e i cambiamenti climatici. Pur non costituendo un’unica e diretta causa, un livello di sicurezza alimentare critico, specialmente se combinato con altri fattori, si configura quindi come un elemento moltiplicatore di rischio per i conflitti violenti.
Il nesso vale in entrambi i sensi: l’insicurezza alimentare può emergere o venire aggravata dalla guerra, ma può anche essere essa stessa causa di nuovi conflitti o dell’inasprimento di quelli già in corso. I conflitti riducono l’accesso al cibo e la disponibilità stessa di risorse alimentari e influiscono negativamente su ogni dimensione dei sistemi agricoli: dalla produzione, lavorazione e trasporto alla fornitura e al finanziamento.
La vulnerabilità in Medio Oriente: Siria e Yemen
Un circolo vizioso che risulta drammaticamente evidente riguarda i Paesi del Medio Oriente e Nord Africa (MENA), una delle aree più vulnerabili al mondo quanto a sicurezza alimentare e a conflitti prolungati. I problemi di sicurezza alimentare nella regione non sono legati alla disponibilità di cibo, stabile dai primi anni 2000, quanto più all’accesso. In questo, la presenza di conflitti di lungo corso svolge un ruolo centrale. Nella regione, dei 52 milioni di persone cronicamente denutrite, 34 milioni vivono in paesi colpiti da guerre. In particolare, spiccano i casi di Siria e Yemen, identificati dal WFP come principali esempi di crisi alimentari nel 2019.
In Siria, le variabili che contribuiscono allo stato di insicurezza alimentare vedono l’intersecarsi delle conseguenze di un conflitto prolungato (leggi anche le nostre analisi sulle origini e gli sviluppi della guerra in Siria), della crisi economica e di eventi climatici sfavorevoli. Il valore della lira siriana è precipitato, con un conseguente calo del potere d’acquisto e un aumento dei prezzi dei generi alimentari: a marzo 2021 il prezzo del cibo ha registrato un aumento del 200% rispetto allo scorso anno. La letteratura scientifica evidenzia come conflitti, crisi economica e insicurezza alimentare, influenzandosi negativamente l’uno sull’altro, si rinforzino a vicenda.
Inoltre, il cibo può diventare esso stesso arma da guerra, attraverso blocchi, limitazioni agli aiuti e l’affamamento deliberato dei civili. Nonostante tali pratiche siano considerate dal diritto internazionale crimini contro l’umanità, riconosciuti dal Protocollo aggiuntivo della Convenzione di Ginevra, sono comunque numerose le situazioni in cui la fame viene adoperata come parte di una strategia bellica. Si tratta di dinamiche maggiormente evidenti nei conflitti radicati, e il caso dello Yemen è in questo senso particolarmente esemplificativo.
A seguito del lancio di un missile da parte degli Houthi su Riyadh, nel novembre 2017, la coalizione saudita impose blocchi navali e limitazioni aeree. Si trattava di misure volte a contrastare il contrabbando di armi da parte degli Houthi, me che, in un Paese che già prima della crisi importava il 90% del suo fabbisogno di cibo, ebbero un forte impatto negativo sull’accesso alle risorse alimentari. Allo stesso modo, anche gli Houthi sono stati accusati di avere dirottato parti degli aiuti umanitari destinati alla popolazione.
Food Riots in Venezuela
La stretta relazione tra cibo e conflitti è evidente anche in Venezuela, Paese in cui da quasi un decennio l’emergenza alimentare è esacerbata da una grave crisi economica e da una difficile situazione politica.
Le fragilità del sistema economico venezuelano sono emerse a partire dal 2013-14, a seguito del crollo dei prezzi del petrolio, sui cui si basa larga parte dell’economia nazionale. Con il deprezzamento del greggio e la contrazione di gran parte delle entrate statali, anche la disponibilità di beni di prima necessità all’interno del Paese si ridusse, dando adito a vere e proprie food riots. Tali rivolte si sono progressivamente mescolate – a hanno alimentato – l’opposizione nei confronti di Nicolás Maduro, al governo dal 2013, e il generale malcontento per il contesto socio-economico.
Nei primi undici giorni del 2018, l’Osservatorio Venezuelano per i Conflitti Sociali ha riscontrato 107 episodi di violenza causati dalla carenza di cibo e nel 2019, un venezuelano su tre si trovava in una situazione di insicurezza alimentare acuta. Nell’ultimo anno, complice la pandemia di Covid-19, la situazione è drasticamente peggiorata: in un rapporto di monitoraggio della FAO, il 70% dei cittadini venezuelani intervistati ha dichiarato di non possedere cibo a sufficienza. Ad oggi l’impasse politico, la carenza di medicinali, beni di prima necessità e la recessione economica si uniscono in quella che viene riconosciuta come una delle crisi umanitarie più critiche a livello globale.
ll cibo come leva geopolitica: il caso russo-ucraino
Il cibo può anche diventare strumento di pressione geopolitica tra Paesi, soprattutto se utilizzato come elemento di “diplomazia coercitiva”. Una dinamica che ha assunto spesso la forma di embarghi e misure sanzionatorie volte a ridurre la disponibilità di cibo in un determinato territorio. In questo senso, quello russo-ucraino costituisce un importante caso di esempio. La carestia ucraina del 1932-33 e le sanzioni e imposte dalla Russia a seguito del conflitto ucraino del 2014 sono infatti accomunati dall’utilizzo geopolitico del cibo da parte di Mosca per riequilibrare i rapporti con Kiev a proprio vantaggio.
Nel primo caso, la carestia che colpì duramente l’Unione Sovietica negli anni ‘30 ebbe un effetto particolarmente drammatico in Ucraina. All’eccessiva accelerazione con cui Stalin attuò la collettivizzazione delle terre – e alle elevate percentuali di requisizioni – si unì anche, secondo molte interpretazioni storiche, la deliberata volontà di affamare la popolazione ucraina per indebolire il Paese, che già allora mostrava spinte indipendentiste.
Quanto accaduto nel 2014, a seguito dell’inizio del conflitto ucraino, rappresenta un altro tentativo da parte della Russia di contenere le spinte nazionaliste e di avvicinamento verso l’Occidente dell’Ucraina, ma questa volta tramite pressioni economiche. Vennero attuate infatti misure sulle esportazioni dei prodotti provenienti dalla produzione agricola ucraina e un blocco delle importazioni di carne dall’Ucraina alla Russia, giustificate dal mancato raggiungimento degli standard di qualità necessari. Tali misure, a differenza di quanto accaduto nel XX secolo, non ebbero conseguenze in termini di sicurezza alimentare, ma riuscirono comunque a danneggiare le aziende agricole ucraine, e contribuirono a ridisegnare gli equilibri e le rotte commerciali del cibo.
*Una bambina trasporta dell’acqua in una zona estremamente arida del governatorato di Hodeida, in Yemen [crediti foto: Peter Biro / EU Civil Protection and Humanitarian Aid via Flickr CC BY-NC-ND 2.0]
Questo articolo è parte di una raccolta sulla sicurezza alimentare. Leggi anche gli articoli precedenti “Sicurezza alimentare: così il Covid-19 ha affamato il mondo” e “Sicurezza alimentare e migrazioni: qual è il nesso?“