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Guerra in Siria: dal 2015 ad oggi

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Il fallimento dei negoziati di pace di Ginevra

Continua l’analisi delle tappe della guerra  in Siria descritte in questo articolo.

Nessuno degli attori coinvolti nel conflitto siriano ha finora dimostrato un reale interesse per una pace duratura e sostenibile nel Paese. Il tentativo di mediazione più recente, rappresentato dall’iniziativa del processo di pace di Astana, nasce in seguito ai fallimenti della piattaforma di Ginevra sponsorizzata dalle Nazioni Unite.

Dall’inizio della guerra sono stati convocati numerosi colloqui intra-siriani, che hanno visto la successione di più di un inviato speciale del Segretariato Generale dell’Onu: Kofi Annan (febbraio-agosto 2012), Lakhdar Brahimi (2012-2014) e Staffan De Mistura (2014-2018). 

Nel 2018 viene nominato Geir Otto Pedersen e la sua missione si conferma in linea con quella dei  predecessori: contribuire alla risoluzione del conflitto, garantendo la pace e la stabilità nel Paese. La formula di mediazione, auspicata nei diversi negoziati, era fondata fino ad allora sul principio contrapposto di un governo e di un’opposizione, come se questi due elementi avessero costituito gli unici attori coinvolti nel conflitto.
Eppure, il governo siriano non è mai stato rappresentato da un’entità monolitica, come non lo è mai stata l’opposizione, composta da un mosaico di alleanze. 

I negoziati sono falliti per via dell’incapacità di includere da una parte la galassia di attori legati alle formazioni  jihadiste, e dall’altra la società civile siriana. Solamente Staffan De Mistura ha  proposto l’inclusione di professionisti civili, delle donne, dei difensori dei diritti umani e del mondo costituzionalista siriano all’interno dei tavoli negoziali. Seguendo questo esempio Pedersen ha cercato, durante i colloqui di Astana, di muoversi nella stessa direzione, puntando ad un maggiore allargamento e inclusione degli attori coinvolti.

Il processo di Astana

Iniziato nel dicembre 2016 nella capitale kazaka, il processo si instaura in seguito all’entrata nel conflitto delle forze armate russe nel 2015I principali attori coinvolti diventano quindi Russia, Turchia e Iran. Quanto emerge dai primi colloqui, è un netto cambio di direzione nell’approccio alla risoluzione conflittuale, che passa da una gestione nazionale ad una su scala locale, più adatta a controllare le escalation di violenza tra i vari attori coinvolti. 

Il 3 maggio 2017, durante il quarto incontro, le delegazioni arrivano quindi ad un accordo che prevede la creazione di quattro zone di de-escalation militare: il governatorato di Idlib, il sobborgo damasceno di Ghūṭa, i governatorati a nord di Homs e Ḥamā e la parte a sud delle regioni di Quneitra e Daraʿâ

Chi controlla le varie zone della Siria?
Fonte: Institute for the Study of War, LiveUAMap, Southfront

L’accordo raggiunto ad Astana su scala locale si sarebbe dovuto estendere su scala nazionale nella conferenza di Sochi nel gennaio 2018, mediante la creazione di un comitato costituzionale che avrebbe riportato la gestione del processo di pace nelle mani delle Nazioni Unite, includendo anche una delegazione rappresentativa del regime e dell’opposizione. 

Sebbene le tregue derivanti dall’accordo sulle zone di de-escalation abbiano inizialmente funzionato, le iniziative confermate a Sochi sono tutte sostanzialmente falliteI differenti interessi geopolitici degli stati sponsor del processo di Astana hanno infatti minato sin dal principio le potenzialità dell’accordo. La scarsa rappresentanza delle forze di opposizione e il rifiuto da parte di Assad di partecipare al comitato costituzionale ideato nella piattaforma di Astana, hanno  creato le condizioni per la riconquista di tre delle quattro zone di de-escalation da parte del regime. 

Le trattative diplomatiche non hanno dunque arrestato il progredire del conflitto. Nel 2018, vengono avviate due operazioni militari parallele. Il regime, con il sostegno russo, lancia un’offensiva aerea su  Ghūṭa, ancora controllata dai ribelli. Al contempo, la Turchia annuncia l’operazione “Ramoscello d’ulivo”, contro i curdi nella città di Afrin

La caduta del Califfato e la questione dei “returnees” 

A marzo 2019, dopo numerose campagne militari, le Forze Democratiche siriane (Fds) composte da combattenti curdi e ribelli antigovernativi, annunciano ufficialmente la riconquista di Baghouz a Deir ez-Zor nella Siria nord-orientale, l’ultima città formalmente controllata dallo Stato islamicoPer contrastare l’avanzamento dei curdi in Siria, inoltre, nel mese di aprile Damasco dispone numerosi contingenti lungo il confine nord-occidentale del paese, compresa l’area del governatorato di Idlib, l’ultima sacca di resistenza ancora in mano alle forze antigovernative. 

In seguito alla riconquista degli ultimi territori in mano allo Stato islamico (Is), le Fds hanno imprigionato negli anni decine di migliaia combattenti. Le forze curdo-siriane tuttavia, non potendo processare un numero così elevato di prigionieri, hanno provveduto a costruire numerose prigioni e vasti campi profughi nelle città di al-Hol, al-Roj e Ain Issa. Secondo le stime pubblicate dal New York Times, queste prigioni avrebbero ospitato circa 11.000 detenuti, di cui 2000 sono originari di oltre 40 Paesi stranieri, con 800 prigionieri provenienti dall’Europa 

Dal giorno in cui il sedicente Stato islamico è stato territorialmente sconfitto, i governi occidentali hanno iniziato a temere il rimpatrio dei propri ex-combattenti. Tuttavia, a livello comunitario, è sempre mancata una strategia condivisa su come affrontare la questione. Di fatto, il rimpatrio costituisce un processo complesso per ragioni legali, securitarie ed economiche

A livello legale, non tutti i Paesi europei hanno strumenti normativi adatti per gestire procedimenti penali nei confronti di questi individui. In termini securitari invece, numerose ricerche hanno evidenziato il rischio che i foreign fighters di ritorno possano organizzare una nuova stagione di attacchi terroristici, come quella che ha interessato l’Europa dal 2014 al 2016. Inoltre, la presa in carico degli ex-combattenti comporterebbe un impegno economico significativo, in termini di supporto psicologico, de-radicalizzazione e reintegrazione nella società, che non tutti i governi sono disposti a sostenere. 

Il disimpegno americano e l’ invasione turca

Ad ottobre 2019, il Presidente statunitense Donald Trump annuncia un parziale disimpegno e il ritiro di 2000 unità del contingente americano presenti nella Siria orientale, fin dal primo intervento Usa nella regione, sotto la Presidenza Obama nel 2011. 

Lungo la frontiera rimangono solamente le Fds, da oltre quattro anni il principale alleato degli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato islamico. La decisione assunta da Washington priva i curdi di quella solida copertura politica e militare che, dal 2014, li aveva tenuti al riparo dalle minacce turche. 

La mossa americana viene invece interpretata da Ankara come una luce verde per lanciare un nuovo intervento militare denominato “Primavera di Pace con l’obiettivo di creare una zona cuscinetto nel nordest della Siria volta ad allontanare dal confine turco le fazioni curdo-siriane. 

Per far fronte all’offensiva militare di Ankara, nella notte tra il 13 e il 14 ottobre 2019, le forze curdo-siriane siglano un accordo di importanza storica con Damasco, rimodulando i fronti di guerra e la partita geopolitica in Siria. L’intesa prevede che l’esercito regolare siriano venga dispiegato nei territori curdi e lungo il confine siro-turco. Il disimpegno americano costringe le forze curdo-siriane a cercare un nuovo alleato nel loro storico avversario: il regime di Assad, e conseguentemente, il governo di Mosca. 

Ad ottobre 2019, sempre all’interno del governatorato di Idlib, le forze speciali statunitensi conducono una complessa operazione militare, grazie alla quale neutralizzano  il califfo dello Stato Islamico, Abū Bakr al-Baghdādī. L’eliminazione di al-Baghdādī rappresenta un successo di notevole importanza per l’Amministrazione americana. Benché il disimpegno militare abbia creato le condizioni per una più stretta cooperazione tra Mosca e Ankara, infatti, non significa che Washington intenda allontanarsi del tutto dal tavolo della partita siriana

Oggi, gli interessi Usa sono orientati alla frontiera siro-irachena più che ad assumere il controllo del territorio siriano e quindi a contrastare direttamente il regime di Assad. D’altronde, il principale obiettivo della campagna americana di Donald Trump in Siria verteva sull’annientamento dello Stato islamico e non sul rovesciamento del regime di Assad, come invece auspicato dall’Amministrazione Obama. 

La Presidenza Obama conferì infatti pieno sostegno alle “Primavere arabe” del 2011, ritenendo che l’avvio di un processo democratico in quei Paesi avrebbe contribuito a mitigare il sostegno popolare alle forze politiche più estremiste, nonché ad alleviare le tensioni tra il blocco sunnita e sciitaLa speranza di Obama di arrivare ad una fase di distensione con il blocco sciita, a guida iraniana, si concretizzò nella stipula dell’accordo sul nucleare del 2015, il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA).  

Tuttavia,  dopo cinque anni di guerra civile, all’interno del Paese non si è verificato alcun cambio di regimeL’iniziale riluttanza di Obama nell’inviare i propri contingenti sul territorio e nell’ampliare la campagna militare contro il regime di Assad, permise allo Stato Islamico di espandersi tra la Siria e l’Iraq. Le formazioni jihadiste si sono così consolidate rendendo necessario l’intervento di altre potenze straniere, come Russia e Turchia, che sono finora risultate le più avvantaggiate dal conflitto. 

L’offensiva di Idlib

L’avanzata turca nel nord della Siria in seguito all’operazione “Primavera di pace” e il concomitante ritiro delle truppe americane, spingono l’esercito regolare di Assad a intraprendere a dicembre 2019 una seconda offensiva contro i ribelli nel governatorato di Idlib.  L’obiettivo del regime è duplice: conquistare il territorio a sud di Ma’arrat al-Nu’man (fondamentale roccaforte ribelle strategicamente localizzata sull’autostrada M5 e importante centro economico) ed evitare un ulteriore consolidamento del controllo turco

Gli sviluppi recenti del conflitto …

Ankara dal canto suo, a causa delle crescenti preoccupazioni per un nuovo flusso di profughi verso i suoi confini, reagisce con durezza alla nuova offensiva. L’uccisione di oltre 30 soldati turchi avvenuta durante un raid dell’aviazione siriana il 27 febbraio 2020, ha repentinamente riportato all’attenzione dei media internazionali la guerra siriana. 

Le contromisure da parte del Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, anche a causa di un consenso interno sempre più flebile, non si sono fatte di certo attendere. In tale contesto il 1º marzo, il ministro della Difesa turco Hulusi Akar annuncia l’avvio dell’operazione Scudo di primaveraLa risposta turca all’offensiva siriana, quindi, si sviluppa su due direttrici: un primo contrattacco militare contro Assad e la convocazione di una riunione di emergenza della NATO. 

In un primo momento, la Turchia paventa l’idea di invocare l’articolo 5 dell’alleanza, riguardante la difesa collettiva al fine di porre ulteriore pressione sugli alleati occidentali affinché prendessero posizioni a sostegno della Turchia, salvo poi abbandonare questa ipotesi. Erdoğan decide inoltre di aprire i confini al passaggio dei profughi siriani, riportando alla ribalta una delle peggiori crisi umanitarie della storia recente

In questi nove anni, il paese si è ritrovato completamente stravolto da un conflitto che, secondo le stime dell’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria riferite al 2020, ha provocato lo sfollamento di 6,2 milioni di persone e circa 384 mila morti.  Secondo le ultime stime Onu riferite al 2020, all’interno del governatorato di Idlib si sono radunati oltre tre milioni di rifugiati. Tra loro si sono nascosti anche diverse centinaia di miliziani affiliati al gruppo di Al–Qāʿida, Hayat Tahrir al-Sham (Hts), acerrimo rivale dello Stato Islamico.  

Le tensioni innescate dall’ultima offensiva siriana contro la Turchia hanno messo in mostra le crescenti difficoltà della Russia a contenere le ostilità tra i due paesi e hanno reso necessario un intervento russo di mediazione tra Ankara e Damasco.

In tale contesto il 5 marzo, Ankara e Mosca raggiungono un accordo nello spirito di collaborazione nato al processo di Astana sul cessate il fuoco su Idlib. L‘agreement prevede la messa a punto anche di un corridoio di sicurezza di 12km su un tratto dell’autostrada M4, arteria fondamentale che collega Aleppo alla costa, e che sarà pattugliata congiuntamente da militari turchi  e russi. 

Lo schema di Astana, basato sulla de-escalation del conflitto a livello locale e rinforzato da quest’ultimo accordo, ha contribuito a dare una soluzione prettamente “militare” al conflitto: la Russia ha infatti ottenuto le zone di de-escalation che hanno permesso al regime di Assad di riconquistare le ultime aree in mano alle forze anti-governative, mentre la Turchia ha ottenuto il via libera per chiudere i conti con la “questione curda”.
Il grande nodo riguardante la crisi umanitaria che vive Idlib e i  suoi milioni di sfollati interni è stato invece puntualmente posticipato.

… e le sue prospettive future 

In questo periodo diverse regioni del Paese sono scosse da ulteriori proteste anti-governative contro il carovita e la mancanza di servizi essenziali. L’economia siriana è stata lasciata sull’orlo del baratro da nove anni di guerra e sanzioni imposte dall’Occidente, ma oggi si trova ad affrontare una nuova crisi a causa della pandemia di Coronavirus e dell’entrata in vigore, il prossimo 17 giugno, del Caesar Syria Civilian Protection Act degli Stati Uniti, che impone severe sanzioni ai Paesi che sostengono il regime di Assad.

Le manifestazioni si sono concentrate nella regione meridionale di Suwayda, nelle regioni a est del Paese sotto il controllo curdo e americano e nelle città costiere di Tartus e Latakia, da decenni considerate roccaforti del regime. Le proteste pacifiche nelle aree sotto il diretto controllo del governo costituiscono oramai una rarità: le ultime manifestazioni indette esplicitamente contro Assad risalgono infatti al 2011. Ad oggi, non ci sono stati scontri in nessuna delle aree coinvolte e le forze di sicurezza continuano a monitorare attentamente la situazione. 

Anche all’interno del Governatorato di Idlib, la tregua militare fra Ankara e Mosca non ha impedito agli attivisti di scendere in strada e protestare contro il deterioramento delle condizioni economiche e contro l’ ingerenza militare dei contingenti iraniani e russi

In un’economia già martoriata dagli embarghi e dal conflitto, l’arrivo della pandemia ha al contempo limitato le interferenze e le offensive degli attori internazionali. I principali alleati del regime, Iran e Russia, sono stati gravemente colpiti dal virus, e ciò rende poco probabile una ripresa delle ostilità nel futuro prossimo. L’accordo del 5 marzo continua ad essere in gran parte rispettato, ad eccezione di sporadiche violazioni da parte delle forze del regime di Assad e di alcune infiltrazioni israeliane. 

Tuttavia, la situazione potrebbe mutare radicalmente. Il 5 giugno le Sdf hanno annunciato l’inizio di una nuova campagna contro lo Stato Islamico, notizia riportata da diversi quotidiani arabi tra cui al-Arabiya.  La minaccia posta dall’Is non è infatti mai stata del tutto annientata. Negli ultimi mesi, nel territorio siriano, sono state prese d’assalto le aree dell’Eufrate occidentale e tra i principali obiettivi dello Stato Islamico vi sono state anche le Sdf.

Al contempo, a livello diplomatico, nessuno degli attori coinvolti nel conflitto ha di fatto elaborato alcun piano per il futuro sviluppo del paese. Le uniche strategie sembrano essere finalizzate a mantenere le rispettive influenze politiche ed economiche, ostacolando così qualsiasi intervento locale della società civile siriana nella ricostruzione del Paese.  

Articolo scritto in collaborazione con Anthea Favoriti

Riccardo Gascohttps://orizzontipolitici.it
Nato a Torino e cresciuto ad Alba con una vena polemica e critica nel sangue. Ho studiato Scienze Diplomatiche ed Internazionali a Genova. La mia passione per il Paese della Mezzaluna (Turchia), mi ha portato nella Porta d'Oriente per scrivere la tesi. Al momento frequento un Master in International Relations and Diplomacy alla SOAS di Londra.

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