Gli ultimi avvenimenti
Lunedì 29 maggio 2023 a Zvečan, nel nord del Kosovo, sono scoppiati violenti scontri tra un gruppo di manifestanti di etnia serba e le forze della Kosovo Force (KFOR), una missione di sicurezza della NATO presente in Kosovo dal 1999 su mandato delle Nazioni Unite.
I manifestanti si sono mobilitati contro l’elezione di nuovi sindaci di etnia albanese in comuni a forte maggioranza serba: i sindaci vincitori delle elezioni municipali tenutesi il 23 aprile nell’area non sono infatti riconosciuti da Belgrado e dalla comunità serba, che ha deliberatamente boicottato il processo elettorale, fermatosi ad un’affluenza del 3,4%. È stato lo stesso presidente serbo Aleksandar Vučić ad invitare i cittadini serbi – circa 120 mila e che vivono prevalentemente nei quattro comuni di Leposavić, Zvečan, Zubin Potok e Mitrovica Nord – a boicottare le elezioni.
Alcuni rappresentanti della comunità serba hanno quindi cercato di impedire l’ingresso dei sindaci nei comuni, mentre la polizia del Kosovo e il KFOR sono intervenuti utilizzando la forza quando si sono verificati disordini che hanno causato decine di feriti. Vučić ha utilizzato l’occasione per accusare il premier Albin Kurti di voler provocare un conflitto tra i serbi e le forze NATO e ha posto l’esercito in stato di massima allerta, ordinando alle unità di avvicinarsi al confine con il Kosovo. Tuttavia, secondo la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 10 giugno 1999, alla Serbia è consentito inviare solo 1000 soldati in Kosovo con il compito di garantire la pace e proteggere i siti religiosi. Questo episodio è però soltanto l’ultimo di una lunga serie, in una dinamica di conflitto che persiste dagli anni ’90.
Le radici storiche dei problemi tra Serbia e Kosovo
La storia delle tensioni tra Serbia e Kosovo ha radici profonde, che risalgono ai conflitti nei Balcani degli anni ‘90, nel contesto della dissoluzione della Jugoslavia. Un primo tentativo di indipendenza del Kosovo si tentò nel 1991, con la dichiarazione di indipendenza della Repubblica Kosova. La situazione degenerò in una guerra aperta nel febbraio 1998, tra le forze indipendentiste kosovare e l’esercito della Jugoslavia (o meglio, di ciò che ne restava, ossia le Repubbliche di Serbia e Montenegro). Dopo circa un anno di scontri, nel marzo ’99 la NATO intervenne in sostegno del Kosovo, conducendo una serie di bombardamenti contro la Jugoslavia, che portarono alla fine della guerra tramite la sigla dell’Accordo di Kumanovo, nel giugno 1999. Questo sancì il ritiro delle truppe della Jugoslavia dal Kosovo e l’istituzione di un protettorato internazionale garantito dalla Nazioni Unite (con la missione UNMIK) e dalla presenza in loco delle truppe della NATO, tramite la già citata missione KFOR.
Gli ostacoli alla normalizzazione tra Serbia e Kosovo: divisioni etniche e nazionalismo
Alla radice di molti dei problemi tra Serbia e Kosovo ci sono prima di tutto ragioni etniche. La popolazione del Kosovo è in larga parte di etnia albanese, mentre le minoranze serbe si concentrano principalmente in alcune municipalità sul territorio kosovaro e, in larga parte, nelle province del Nord al confine con la Serbia, in cui il 90% della popolazione è di etnia serba. Infatti, gli stessi kosovari di etnia serba sentono una maggiore affinità con il governo di Belgrado che con Pristina: ad esempio, il partito di maggioranza dei serbi del Kosovo (la Srpska Lista) è affiliato con il partito al governo in Serbia di cui fa parte lo stesso Vucic e, dopo l’indipendenza nel 2008, le municipalità serbe del Nord hanno istituito delle strutture burocratiche e di polizia parallele al governo centrale kosovaro – sostenute economicamente dalla Serbia. Per questo motivo, quando le relazioni tra Serbia e Kosovo peggiorano, storicamente le rivolte si concentrano in queste zone: le proteste attuali, originate dall’insediamento di sindaci di etnia albanese, sono l’ultimo esempio di una lunga lista, che vanno dalla “guerra delle targhe” nel 2022 all’omicidio politico del leader serbo Ivanovic nel 2018.
La riluttanza serba a riconoscere l’indipendenza de facto del Kosovo è dovuta, in larga parte, al nazionalismo. L’identità nazionale serba, infatti, si è cementata intorno alla mito della Battaglia di Kosovo-Polje del 1389, combattuta dalla Serbia contro l’Impero Ottomano. Nonostante si tradusse in una sconfitta, la battaglia è stata successivamente presa come “mito fondativo” dell’eroismo serbo, e ha trasformato il Kosovo – dove avvenne lo scontro – nel simbolo di una vera e propria “Gerusalemme” serba. Per questo motivo, l’indipendenza del Kosovo tocca in profondità le corde del sentimento nazionale serbo, e diventa un tema politicamente sensibile – sfruttato, all’occasione, dalle diverse fazioni politiche. La pressione dell’opinione pubblica, a sua volta, diventa un altro ostacolo verso la normalizzazione dei rapporti: in un sondaggio del 2018, l’81% della popolazione serba si è pronunciata contro il riconoscimento del Kosovo da parte della Serbia, ed il 63% vede un conflitto congelato come il miglior risultato possibile. Questo influisce sulla posizione del governo di Belgrado, che finisce per trovarsi “schiacciato” tra due fuochi: da un lato l’opinione pubblica domestica, ed il rischio di perdere consenso nel mostrarsi troppo accomodante. Dall’altro, le pressioni internazionali – soprattutto da Washington e Bruxelles – che spingono per la normalizzazione, e pongono il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo come condizione per un futuro accesso all’Unione Europea della Serbia.
Le tensioni tra Serbia e Kosovo sullo scacchiere internazionale
Infine, a complicare il quadro si inseriscono le influenze esterne. Se fino ad ora la Serbia è riuscita ad impedire la membership del Kosovo alle Nazioni Unite, è grazie al supporto della Federazione Russa che, disponendo del veto nel Consiglio di Sicurezza ONU, può bloccare l’accesso del Kosovo all’organizzazione – e quindi, la sua entrata “a pieno titolo” nella comunità internazionale. L’asse politico-diplomatico tra Russia e Serbia ha una lunga storia, che affonda le sue radici nel primo Novecento, e la Serbia è stata spesso la longa manus di Mosca nei Balcani. Negli ultimi anni si è inoltre aggiunta la Cina, con una massiccia presenza di investimenti nella regione. Nel periodo 2009-2021, Pechino ha investito 10,3 miliardi di euro in Serbia soltanto, per finanziare progetti infrastrutturali nel quadro della Belt and Road Initiative. Gli investimenti cinesi non si trasformano necessariamente in influenza politica: tuttavia, riducono la necessità della Serbia di appoggiarsi sui capitali europei per lo sviluppo – e, di conseguenza, relativizza le “carote” che Bruxelles può offrire a Belgrado per normalizzare i rapporti con Pristina.
A corollario di questo, la guerra in Ucraina ha aperto nuovi scenari: da un lato, la Russia ha un interesse nel fomentare le tensioni tra Kosovo e Serbia, perché distoglierebbe parte delle risorse europee dal conflitto in Ucraina. Dall’altro – proprio per evitare un nuovo fronte di crisi a pochi chilometri dai confini europei – ha spinto l’UE verso il re-engagement nei Balcani Occidentali, ed ha riportato sull’agenda politica l’allargamento dell’Unione Europea. In pochi mesi, è stato concesso lo status di candidato alla Bosnia Herzegovina, sono iniziate le negoziazioni di accesso per Albania e Macedonia del Nord, e si è raggiunto il già citato accordo tra Serbia e Kosovo, che subordina l’adesione all’UE di entrambi alla normalizzazione dei rapporti. Tuttavia, come testimoniato dagli scontri recenti, la situazione è tutt’altro che risolta. La strada verso la normalizzazione è lastricata di buone intenzioni – ma rimane in salita.
Testo a cura di Asia Corsano e Andrea Montanari