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Capitalismo o comunismo? Lo storico enigma cinese

Tempo di lettura stimato: 8 min.

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Dopo gli enormi cambiamenti sociali ed economici che hanno interessato la Cina dalla fine degli anni Settanta ad oggi, ci si chiede il Paese sia più uno stato comunista che ha abbracciato l’economia di mercato, oppure un paese capitalista governato da un partito comunista. La risposta corretta potrebbe essere “entrambe le cose, e nessuna delle due”. 

La Cina infatti definisce il suo capitalismo come “capitalismo statale”, cioè gestito e controllato dallo stato, più che dalle imprese private, e per questo inserito all’interno della cornice di governo del Partito Comunista Cinese (PCC). Per capire meglio come due elementi così antitetici come “comunismo” e “capitalismo” possano coesistere in un singolo Stato, aiuta ricordare come il pragmatismo abbia tradizionalmente caratterizzato la cultura cinese. Il popolo cinese è sempre stato estremamente pragmatico, non scandalizzandosi anche di fronte ad aperte contraddizioni, e quelli che in Occidente vengono considerati paradossi non sono percepiti come tali in Cina. Deng Xiaoping stesso, fautore del “socialismo con caratteristiche cinesi”, incarnava tale indole pragmatica: è famosa la sua massima secondo cui “non importa che il gatto sia bianco o nero, purché prenda il topo”. È in questi termini puramente pragmatici dunque che va considerato l’approccio cinese alla filosofia marxista.

La Cina è comunista?

Se quindi a prima vista può risultare estremamente difficile per un pubblico occidentale vedere la Cina come una società comunista e al tempo stesso capitalista, sapere che i due termini non risultano in un’esclusione l’uno dell’altro può sicuramente favorire il superamento di questa apparente contraddizione. In Occidente infatti pensiamo al comunismo riconducendolo a Marx e alla sua teoria di una società senza classi né proprietà privata, dove i mezzi di produzione sono posseduti collettivamente. In Cina, però, il Comunismo è l’obiettivo da raggiungere solo dopo aver attraversato una serie di fasi ad esso precedenti. La Cina non ha attraversato la prima rivoluzione industriale così come l’Occidente, e alla sua nascita nel 1921, il Partito Comunista Cinese si è fondato sul sostegno del settore agricolo piuttosto che sulla classe proletaria urbana. Per poter giungere al vero comunismo, dunque, la Cina riteneva necessario diventare prima di tutto un Paese capitalista – grazie allo sviluppo del mondo contadino insieme a quello industriale – poi socialista – stadio in cui si classifica oggi – e, infine, comunista.

Il processo di progressiva apertura e privatizzazione dell’economia cinese è esposto molto chiaramente in Capitalism, Alone, di Branko Milanovic, dove l’autore mostra come l’economia cinese si sia ‘liberalizzata’ da prima delle riforme ad oggi. Il processo di privatizzazione dell’economia cinese è particolarmente evidente nel settore industriale: mentre prima del 1978 le imprese statali producevano l’intero prodotto industriale, nel corso di 20 anni il loro contributo era sceso al 50% del totale, mentre nel 2015 si trovava attorno al 20%. Nello stesso testo, Milanovic mostra anche come la proporzione di lavoratori urbani impiegati nel pubblico sia scesa dall’80% del totale prima delle riforme del ‘78, al circa 16% nel 2016. La minor ingerenza dello Stato nell’economia è evidenziata anche dall’abolizione della determinazione centralizzata dei prezzi: nel 1978, oltre il 93% dei prezzi sui prodotti agricoli, merci al dettaglio e la totalità di quelli sui prodotti industriali erano determinati centralmente, mentre già negli anni Novanta i prezzi erano determinati centralmente solo per il 21% dei prodotti agricoli, 7% delle merci al dettaglio e il 19% dei prodotti industriali.

La Cina ha poi seguito un lungo percorso per riprodurre i modelli economici di successo in occidente all’interno della propria economia.  Il processo, lento e graduale, è stato reso possibile grazie alla  creazione di imprese sia statali che “private”, libere di operare con relativa autonomia. La maggior parte delle piccole e medie imprese, soprattutto dedite all’export, sono infatti ora private, anche se l’accezione del termine nella realtà cinese diverge da quella occidentale (le aziende in Cina sono private in quanto fondate da privati cittadini, ma mantengono sempre stretti rapporti con il governo locale). 

D’altro canto, la quasi totalità delle grandi imprese cinesi sono ancora di natura statale, e persino i colossi privati come Huawei, Lenovo o Alibaba mostrano forti legami con il governo centrale, con cui spesso collaborano. Le aziende pubbliche rimangono dominanti in molti settori, soprattutto in quelli più strategici come quello energetico (Sinopec e China National Petroleum Corporation per il petrolchimico e petrolifero e State Grid Corp. of China per la rete elettrica), bancario (Bank of China) ed edilizio (China State Construction Engineering). Seguono altre aziende in settori cruciali come quello assicurativo, automobilistico, chimico e delle telecomunicazioni. Quasi tutte le 20 principali aziende cinesi per fatturato annuale sono ancora, almeno in parte, di proprietà statale o governativa. In questo senso, l’economia cinese appare ancora fortemente socialista.

Il Paese si è però ampiamente aperto ad investimenti esteri e al commercio globale, in particolare dal 2001, quando con l’ingresso nel WTO la Cina è diventata rapidamente il principale partner commerciale di moltissimi Paesi. Anche la finanza cinese è esplosa: i suoi mercati finanziari sono oggi tra i più dinamici e profittevoli e l’indice CSI 300, che racchiude le performance dei principali titoli delle borse di Shanghai e Shenzhen, ha guadagnato il 30% nel 2019, contro il 26.6% dell’S&P americano, attestandosi come l’indice di borsa più performante dell’anno.

Nonostante le contraddizioni, la Cina si considera comunque socialista poiché il Partito Comunista detiene un ampio potere sull’economia del paese, che può guidare e influenzare in maniera centralizzata, muovendo risorse pubbliche e private per dare la precedenza ad obiettivi sociali definiti dal partito. L’idea dell’unione di dinamiche di mercato ad una parziale pianificazione economica serve a formare partnership tra attori pubblici, privati e misti, rafforzando allo stesso tempo il controllo politico del PCC e le performance economiche del Paese e delle aziende pubbliche. Il partito risulta vittorioso in entrambi gli ambiti: la leadership di Xi sembra più forte che mai, e il Pil pro capite reale del Paese è cresciuto con una media annua del 9.27% tra il 1989 al 2020.

La Cina è capitalista?

Sotto alcuni parametri la società cinese potrebbe apparire capitalista. Ad esempio, le piccole medie imprese (Pmi) producono il 60% del valore aggiunto e impiegano l’80% dei lavoratori cinesi, mentre le aziende statali – sebbene i dati disponibili siano molto parziali – contribuirebbero tra il 23 e il 28% del Pil e tra il 5 e il 16% dell’impiego totale. Tali statistiche vanno però adattate al contesto cinese, dove la distinzione tra pubblico e privato non è chiara come nelle principali economie occidentali. 

In un’analisi del “capitalismo ibrido cinese”, l’Economist cerca di spiegare queste distinzioni. Per quanto riguarda le aziende pubbliche, molte possono avere investitori privati ed essere quotate sui mercati finanziari. Ciò è fatto per permettere alle aziende statali di muoversi in regimi almeno in parte concorrenziali, costringendole ad un efficientamento dei costi. Le aziende pubbliche hanno però il vantaggio di poter accedere a sussidi e regole preferenziali, sebbene i criteri per avervi accesso siano spesso poco chiari, lasciando ampia autonomia decisionale alla burocrazia cinese e permettendo al Partito di fare un uso strategico di tali strumenti. Il Partito nomina anche manager e altre figure professionali su base spesso politica, e ogni azienda ha al suo interno commissioni di partito che da un lato ne influenzano l’operato negli interessi del PCC, dall’altro svolgono per loro attività analoghe al lobbying occidentale.

Anche le aziende private hanno al loro interno cellule di partito. Finché non sono in contrasto con gli obiettivi del governo, esse sono però più libere di operare autonomamente. Cosa sia  esattamente un’azienda privata in Cina è però più difficile da definire, e la domanda conduce a un nodo centrale dell’analisi dell’economia cinese: i diritti sulla proprietà. 

I diritti di proprietà in Cina

La numerosità, complessità e varietà delle forme di proprietà – e i diversi gradi di coinvolgimento Statale – rendono infatti difficile definire la proprietà con la chiarezza necessaria al funzionamento di un’economia capitalista. L’ambiguità che ne consegue, nell’analisi di Milanovic, non è un difetto del sistema ma una sua specifica caratteristica: il controllo politico del capitalismo cinese avviene soprattutto grazie alla applicazione arbitraria del diritto e all’ampia autonomia che questo lascia ai tribunali e alla burocrazia cinese, entrambi sotto il controllo del PCC.

Per poter operare, questo “capitalismo di stato” ha quindi bisogno di poter agire in condizioni di indipendenza da limitazioni legali o costituzionali. Da una simile autonomia deriva però un alto tasso di corruzione che è “endemico” al sistema e deve essere tenuto ciclicamente sotto controllo per evitare di “compromettere l’integrità della burocrazia e la sua capacità di condurre politiche economiche che producono un alto tasso di crescita”. Vista in quest’ottica, la campagna anti-corruzione indetta da Xi Jinping che ha punito oltre 1 milione di membri del partito sembrerebbe più un tentativo di limitare la corruzione, piuttosto che non di debellarla.

In conclusione, mentre i principali Paesi capitalisti si basano su costituzioni democratiche e limitazioni costituzionali ai poteri dello stato, il Partito Comunista ha l’indiscusso controllo del potere politico. A livello locale, questo può essere molto ampio e avere limiti non ben definiti che risiedono negli spazi di manovra concessi da Pechino e negli obiettivi stabiliti per i vari burocrati locali. L’assenza, in Cina, delle libertà politiche e della tutela dei diritti individuali necessari al funzionamento di una società democratica e di un capitalismo liberale rappresenta dunque la distinzione più netta tra due sistemi. 

Per il momento, come testimonia la sua crescita inarrestabile, l’economia cinese sembra poter continuare a fiorire anche senza le suddette libertà. Lo stesso Xi Jinping ha recentemente lodato il socialismo con caratteristiche cinesi come più efficace rispetto al semplice capitalismo, mentre He Yiting, vice presidente della scuola di Partito in Cina, ha definito Xi Jinping come emblema del “marxismo nel XXI secolo.” In futuro sarà di certo interessante capire se una volta raggiunta la frontiera tecnologica – ossia quando sarà l’innovazione a determinare la crescita economica, piuttosto che l’adattamento e l’importazione di tecnologie produttive dall’estero – l’assenza di un “libero mercato per le idee potrebbe seriamente limitare le potenzialità dell’economia cinese.

 

Articolo realizzato in collaborazione con Alessia Paolillo e Stefano Grandi.

Questo articolo è parte di una raccolta sullo sviluppo sociale, economico e politico in Cina. Articolo precedente: Il boom economico in Cina e la nascita del “Socialismo con caratteristiche cinesi”. Articolo successivo: Autarchia e hi-tech: da dove parte la nuova economia duale della Cina.

Sem Manna
Cittadino Europeo e meneghino (autocertificato), vent'anni portati malissimo e un temperamento da boomer. Studente di International Politics and Government alla Bocconi, nel tempo libero mi annoio. Mi piacciono i pistacchi tostati e i gatti.

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