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Cina, diplomazia e propaganda: cos’è la Wolf Warrior Diplomacy

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È la realtà che imita l’arte, o l’arte che mistifica la realtà? Nel caso di “Wolf Warrior II”, un action movie propagandistico promosso dagli apparati della Repubblica Popolare Cinese, entrambe le risposte sono plausibili. Il film narra le gesta dell’eroe cinese Leng Feng, in missione per salvare i suoi connazionali rimasti intrappolati in un paese africano fittizio. Per riuscire, dovrà prima sconfiggere il cattivo della storia –un americano crudele con la passione per uccidere a sangue freddo civili disarmati e far esplodere ospedali– facendosi strada tra i gruppi di rivoluzionari che stanno devastando il paese. Il successo straordinario della pellicola –è uno dei film con più incassi nella storia dell’Asia– ha fatto sì che ben presto, il termine “Wolf Warrior” uscisse dalle sale cinematografiche, finendo per indicare l’atteggiamento della diplomazia nella Cina di Xi Jinping verso il resto del mondo.

Il film rappresenta l’immagine che la Cina vuole proiettare di sé, dentro e fuori dai suoi confini. Nel finale, i rivoluzionari africani gettano le armi per inseguire la bandiera cinese, e compare un enorme passaporto della Repubblica Popolare con il messaggio: “Non arrendetevi se vi trovate in pericolo all’estero. Ricordatevi che la madrepatria vi coprirà sempre le spalle!”. Diverse fonti riportano di spettatori che, sull’onda del patriottismo, iniziarono a cantare l’inno nazionale nelle sale. La realtà, però, è più complessa di come viene presentata nella finzione cinematografica.

Le premesse storiche della Wolf Warrior Diplomacy

Di certo, il sentimento di rivalsa nazionalista che si respira nel film e nella narrazione di Pechino è reale. Poco prima di morire, il cattivo americano esclama: «Le persone come te saranno sempre inferiori a quelli come me». «Quella è storia passata» gli risponde Leng Feng prima di ucciderlo a mani nude, tra gli applausi del pubblico.

Le radici storiche del senso di rivalsa cinese risalgono alla sconfitta contro il Regno Unito nella Prima Guerra dell’Oppio (1839-1842), con la firma del Trattato di Nanchino: con questo, veniva siglata la subordinazione del vasto Impero Cinese alle Potenze europee, ed iniziava quello che la storiografia cinese ha ribattezzato “il Secolo delle Umiliazioni”. Da quel momento, ciò che secoli prima era stato il centro millenario della cultura mondiale, divenne preda degli appetiti delle Potenze straniere: la Cina perse guerre contro inglesi, francesi, russi, statunitensi, giapponesi; venne costretta ad aprirsi al commercio estero e a firmare accordi lesivi dei propri interessi (i Trattati Ineguali); divenne teatro di ripetuti disordini interni –solo per citarne alcuni: le Ribellioni dei Taiping, dei Dungani, dei Boxer, la rivoluzione del 1911 o la guerra civile tra il Kuomintang e i comunisti– che terminarono soltanto nel 1949, con la presa del potere di Mao Zedong e la fondazione dell’attuale Repubblica Popolare Cinese.

Capire come viene rielaborata la memoria storica è essenziale per comprendere come la diplomazia della Cina si rapporta al resto del mondo. Il nazionalismo cinese –alimentato dalla propaganda statale– ha costruito la sua narrazione  facendo leva sulle ingiustizie perpetrate dagli occidentali durante quel periodo, elaborando un racconto in cui le Potenze straniere cercarono – e cercano, tutt’ora – di umiliare la Cina ed impedirle di riprendersi “il posto che le spetta nel mondo”. Non è un caso che lo stesso Xi Jinping, nel discorso pronunciato a luglio 2021 per il centenario del Partito Comunista, abbia citato le Guerre dell’Oppio e l’Umiliazione Nazionale fin dalle prime battute. «Il popolo cinese non permetterà mai a nessuna forza esterna di intimidirci, opprimerci o schiavizzarci. Chiunque cerchi di farlo sarà schiacciato a morte davanti alla Grande Muraglia d’acciaio costruita con la carne e il sangue di oltre 1,4 miliardi di cinesi» continuava Xi, vestito simbolicamente come Mao Zedong. Il messaggio alle Potenze straniere è chiaro.

Che cos’è la Wolf Warrior Diplomacy

Nel concreto, la Wolf Warrior Diplomacy è un “modo” di fare la diplomazia in maniera più assertiva rispetto a quanto fatto in passato. Lo scopo è incutere timore e deferenza, dimostrando agli altri attori internazionali che la Cina è diventata una Grande Potenza, e andarle contro ha un prezzo, che sia in danni economici o relazionali, fino agli insulti e alle campagne denigratorie sui social media.

Il caso paradigmatico è quello dell’Australia. Nell’aprile 2020, il Primo Ministro australiano Scott Morrison si posizionò apertamente contro la Cina, dichiarando che un’indagine internazionale sulle origini del Coronavirus sarebbe stata “ragionevole e sensata”. La risposta di Pechino non tardò ad arrivare: dopo la minaccia di “danni irreparabili” alle relazioni tra i due Paesi nel caso il Primo Ministro avesse continuato in quella direzione, si passò alle sanzioni economiche. Bisogna considerare che l’Australia era pesantemente dipendente dalla Cina sul fronte commerciale: sul totale degli export australiani, circa il 33% era destinato al mercato cinese: a maggio 2020, la Cina impose una tariffa dell’ 80,5% sull’orzo importato dall’Australia, e sospese le importazioni da quattro dei suoi maggiori produttori di carne; ad agosto lanciò un’indagine antidumping sulle esportazioni di vino australiano; a novembre, vennero bandite le importazioni di aragoste. Formalmente, ogni restrizione aveva una giustificazione diversa: ad esempio, i produttori di carne australiani sapevano di non rispettare alcuni standard, ma la tolleranza di Pechino spesso «aveva alti e bassi, e in quel momento era bassa», affermava uno di essi. Tuttavia, la correlazione tra gli eventi resta evidente, tanto quanto il danno economico subito dall’Australia.

Un altro esempio di Wolf Warrior Diplomacy è quanto accaduto, un anno dopo, alla Lituania. Nell’agosto 2021 il piccolo Stato Baltico prese una posizione decisa nei confronti di Taiwan, permettendo all’isola –che la Repubblica Popolare considera parte del suo territorio– di aprire un ufficio di rappresentanza, riconoscendo di fatto la piccola repubblica democratica come entità separata dalla Cina continentale. Pechino, in risposta, ritirò l’ambasciatore a Vilnius, e declassò lo status della rappresentanza lituana; non sapendo se ciò avrebbe comportato la perdita dell’immunità diplomatica, e quindi un potenziale rischio per i funzionari, anche Vilnius decise, a dicembre 2021, di evacuare l’ambasciata a Pechino, in una scena che il The Economist ha definito “degna di un thriller da Guerra Fredda”. Zhao Lijian, portavoce del Ministero degli Esteri Cinese, si riferì all’accaduto dicendo che la Lituania aveva deviato «da ciò che è corretto e giusto», e che «se forze straniere insistono nel colludere con i separatisti di Taiwan, finiranno nel cestino della Storia».  Per alcune settimane, agli importatori cinesi è stato impossibile dichiarare la Lituania come Paese di origine delle merci –rendendo quindi impossibile lo sdoganamento delle spedizioni– ed imprese tedesche e francesi sono state avvertite di non poter spedire in Cina merci con componenti lituani. Di fronte alle richieste di chiarimenti delle istituzioni europee, le autorità cinesi risposero che non era accaduto nulla di tutto ciò, e che la Lituania stava mentendo.

Il costo di fare il bullo

Nel film, la Cina viene rispettata ed ammirata perché è caritatevole. In una scena clou, l’ambasciatore cinese riesce a fermare dei ribelli africani che stanno massacrando civili mettendosi in mezzo alla sparatoria ed urlando: «Noi siamo Cinesi! Ricordate la lunga amicizia che lega Cina ed Africa!». Basta questo a far cessare la carneficina, e a mettere al sicuro la popolazione indifesa dietro le mura dell’ambasciata.

La Cina della realtà, al contrario, vuole farsi rispettare costringendo gli altri all’obbedienza. Così facendo, però, finisce spesso per ottenere l’effetto opposto, generando insofferenza e diffidenza negli attori con cui si relaziona. Un sondaggio del Lowi Institute, un think-tank, ha raccolto nel tempo le opinioni degli australiani verso la Repubblica Popolare Cinese, chiedendo se venisse percepita più come un partner economico o una minaccia alla sicurezza. I risultati sono sorprendenti: nel giro di pochi anni, le percentuali si sono capovolte –anche a causa dei fatti esposti sopra– rivelando una generalizzata insofferenza degli australiani verso la Cina.

Fonte: Lowi Institute, Poll 2021, “China: economic partner or security threat

La percezione negativa non è limitata soltanto all’Australia. Il Pew Research Centre, un altro think-tank, ha svolto un sondaggio simile tra le maggiori economie avanzate, osservando dal 2002 una chiara tendenza verso un peggioramento dell’immagine della Cina e della sua diplomazia. Ciò è avvenuto, in misura diversa, in tutti i Paesi presi in esame: a mostrare un rapido deteriorarsi negli anni più recenti, oltre all’Australia, sono stati anche Regno Unito, Olanda, Svezia e Canada (quest’ultimo bersaglio di un’altra vicenda di Wolf Warrior Diplomacy, legata ad uno scambio di “ostaggi”).

Fonte: Pew Research Center, October, 2020, “Unfavorable Views of China Reach Historic Highs in Many Countries

Si dice che la diplomazia sia il guanto di velluto che nasconde il pugno di ferro dei rapporti di forza. Per la Repubblica Popolare Cinese, sfilare questo guanto potrebbe rivelarsi una scelta sbagliata, perché alle preoccupazioni sul rispetto dei diritti umani –come nel caso degli Uiguri– e all’apprensione per il soffocamento della democrazia –come successo a Hong Kong–, si andrebbe ad aggiungere la diffidenza verso una Potenza in ascesa che vuole ricondurre gli altri attori all’obbedienza con la forza. Nella strada per l’egemonia, un ruolo cruciale è svolto dalla capacità di un attore di proiettare soft power, perché attrarre gli altri verso la propria volontà è meno costoso che costringerli impiegando risorse economiche e militari. Se la Cina coltiva ambizioni globali, dovrà presto capire che non si può ottenere un’amicizia sincera se con un braccio si tende la mano, mentre con l’altro si punta una pistola alla tempia.

*fotogramma catturato dall’autore
Andrea Montanari
Classe ‘00. Nato nella città di Leopardi, cresciuto in quella di Fabri Fibra, finito a scrivere di politica internazionale su OriPo per ironia della sorte. Attualmente studio relazioni internazionali in triennale alla Cattolica di Milano, nel futuro chissà. Da grande -perché a vent’anni si può ancora dire- sogno le istituzioni internazionali, per lasciare il mondo, almeno nel mio piccolo, migliore di come l’ho trovato. Inguaribile idealista, se non si fosse capito.

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