La Cina nell’Onu: dall’esordio ad oggi
Sebbene al termine della Seconda Guerra Mondiale la Cina fosse tra i membri fondatori delle Nazioni Unite, fu solo nel 1971 che il governo di Pechino venne riconosciuto come unico legittimo rappresentante del Paese, sostituendo il governo taiwanese guidato da Chiang Kai-shek. Da allora, il ruolo della Repubblica Popolare Cinese all’interno dell’Onu è cambiato gradualmente, passando da un approccio passivo a uno di maggiore coinvolgimento, tanto che la Cina risulta essere, ad oggi, il secondo finanziatore dell’Organizzazione dopo gli Stati Uniti.
Nel corso degli anni ’70, Pechino ha attuato una strategia di osservazione (watching), evitando di proporre un’agenda propria e astenendosi in sede di Consiglio di Sicurezza, senza manifestare disappunti ideologici. In questa fase, la Cina ha posto il veto in sole due occasioni, ma in entrambi i casi ha rivalutato la sua posizione, in modo da evitare scontri.
L’approccio passivo ha lasciato spazio a una linea più attiva e partecipe solo negli anni ’80, quando il lancio della “politica estera indipendente” (duli zizhu waijiao zhengce), annunciata durante il XII Congresso del Partito Comunista, segnò l’inizio della strategia di engagement (trad. coinvolgimento). Fu quindi parallelamente alle riforme di apertura varate da Deng Xiaoping che la Cina iniziò a lavorare costruttivamente nell’Onu, abbandonando l’atteggiamento astensionista.
Dopo la Guerra Fredda, la partecipazione cinese all’interno dell’Organizzazione si fece ancora più dinamica, concretizzandosi in un contributo massiccio alle operazioni di peacekeeping dell’Onu. Al 1992, infatti, risale il primo maggiore contributo di truppe per la missione in Cambogia.
Parallelamente, Pechino ha assunto una posizione sempre più ferma in seno al Consiglio di Sicurezza, opponendosi (grazie al potere di veto) a operazioni che prevedevano l’intervento dei caschi blu, in nome di quel “principio di non interferenza” che costituisce uno dei pilastri della dottrina cinese in materia di politica estera. Il veto posto al processo di pace in Guatemala nel 1997 fu la prima di una serie di azioni che avrebbero segnato la postura della Cina all’interno delle Nazioni Unite negli anni a venire.
Nel corso del XXI secolo, la partecipazione cinese si è quindi fatta sempre più attiva, talvolta assertiva, e Pechino, trovandosi vis-à-vis con gli Stati Uniti e gli altri partner, ha fatto del Consiglio di Sicurezza un luogo per far valere i propri interessi e, nella sua visione, per rafforzare l’immagine di attore responsabile (lett. responsible stakeholder) all’interno dell’arena internazionale.
La Cina nelle missioni di peacekeeping
La strategia di engagement cinese è supportata da un notevole finanziamento al budget regolare delle Nazioni Unite e da un crescente contributo di truppe dispiegate in molteplici missioni di peacekeeping.
Il contributo degli Stati Membri al fondo per il supporto logistico e tecnologico delle operazioni è obbligatorio e calcolato in base alla dimensione economica di uno Stato. Alla crescita economica cinese, quindi, anche il tributo al budget è aumentato, raggiungendo oggi il 15,21% del totale. Ciò rende la Cina il secondo più grande finanziatore delle Nazioni Unite dopo gli Stati Uniti, che forniscono il 27,89% dei fondi.
A 30 anni dal primo contributo alle missioni di peacekeeping, il supporto della Repubblica Popolare (Rpc) alle operazioni Onu è passato da sole 5 truppe coinvolte nel 1990 alle oltre duemila del 2021, superando quello di tutti gli altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
Dal 1990 ad oggi, la Cina ha contribuito in molteplici operazioni, principalmente in Paesi africani, ma anche in Medio Oriente, in Sudamerica e nei Balcani. Tra il 2003 e il 2005 il numero di peacekeeper inviati è passato da meno di 300 a quasi 1000, rendendo Pechino il principale fornitore di forze tra i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
In particolare, l’impegno negli ultimi dieci anni si è fatto sempre più rilevante: nel 2013 Pechino ha aderito alla missione MINUSMA, inviando truppe in Mali; due anni dopo ha inviato un battaglione di fanteria in supporto alla missione UNMISS in Sudan del Sud. Lo stabilimento nel 2017 di una base militare in Gibuti, da utilizzare come supporto logistico alle missioni, dimostra ulteriormente il coinvolgimento cinese nel continente africano.
Tutt’oggi, tra le 2469 truppe cinesi impegnate in missioni Onu, l’82% è inviato in Africa, principalmente in Sudan del Sud, in Mali e in Darfur.
Che cosa motiva l’impegno cinese: il caso del Sudan del Sud
Il cambio repentino dall’isolazionismo cinese alla politica di engagement non sembra essere solamente legato alla volontà di Pechino di contribuire alla cooperazione multilaterale e agire da potenza internazionalmente responsabile, ma è anche volto alla salvaguardia di interessi economici.
Sin dal 2000, con l’elaborazione della Going Global Strategy, Pechino ha investito ingenti capitali all’estero, finanziato progetti allo sviluppo tramite erogazione di prestiti, ed espanso la propria presenza commerciale all’interno di svariati Paesi stranieri, molti dei quali africani. L’impegno cinese nelle economie più arretrate è stato poi ribadito da Xi Jinping nel 2020, durante il discorso pronunciato in occasione del settantacinquesimo anniversario dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in cui ha proposto la Cina come campione del Sud Globale e alleato speciale dell’Africa. Risulta chiaro che il mantenimento della stabilità nei Paesi partner sia divenuta un’esigenza per proteggere gli stessi interessi cinesi.
La politica di peacekeeping, quindi, è parte di una più ampia strategia volta a preservare la stabilità dei mercati esteri, dove la presenza cinese è cospicua. Infatti, intervenire attraverso le missioni Onu permette alla Cina di agire legittimamente in Paesi terzi, laddove i caschi blu sono integrati da tempo e la presenza di Pechino non è percepita con sospetto.
Il caso del Sudan del Sud, dove la Cina ha inviato migliaia di truppe come parte della missione UNMISS, è emblematico.
Pechino è il principale partner commerciale del Paese, nonché la prima destinazione dell’export di petrolio sudsudanese, e la Chinese National Petroleum Company è il più grande produttore di greggio dello Stato africano. Inoltre, nel 2014 la Cina ha finanziato la costruzione dell’aeroporto di Juba con un prestito dal valore di 158 milioni di dollari americani e nel 2018 ha sovvenzionato lo sviluppo del sistema di gestione del traffico aereo. Il valore degli investimenti diretti esteri cinesi nel Paese tra il 2005 e il 2018 ammonta a 4,9 miliardi di dollari. Pechino rappresenta l’attore extra-continentale più influente in Sudan del Sud.
Gli investimenti sembrano quindi motivare il contributo di truppe in Paesi terzi. Il Council on Foreign Relations evidenzia un’alta correlazione tra investimenti e presenza di caschi blu. Tra il 2012 e il 2018, la Cina ha fornito personale per missioni in tredici Paesi, nove dei quali sono destinatari di investimenti o partner commerciali. Tuttavia, sono pochi i casi in cui a un cambiamento dei flussi di investimento è corrisposto, a seconda, un aumento o una diminuzione del personale impiegato, a indicare che l’interesse finanziario non è il solo a muovere le truppe cinesi. Tra le diverse ragioni che spiegano l’impegno di Pechino nelle missioni Onu, vi sono infatti anche l’esperienza acquisita sul campo, la possibilità di stabilire relazioni post-belliche stabili e acquisire influenza.
Il governo cinese, a tal proposito, ha ribadito più volte la volontà di collaborare al mantenimento della sicurezza globale e l’esigenza di proteggere attività e cittadini cinesi all’estero. I contributi di peacekeeping sono diventati una parte significativa della strategia di soft power cinese, nonché un’opportunità di migliorare relazioni bilaterali e multilaterali, proiettando un’immagine positiva della Cina sia a livello domestico che internazionale.