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Il boom economico in Cina e la nascita del “Socialismo con caratteristiche cinesi”

Tempo di lettura stimato: 7 min.

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Il processo che ha portato la Cina a imporsi nell’arena internazionale come una delle maggiori potenze al mondo, in grado di sfidare e mettere a dura prova il primato statunitense come nessuno mai dal termine della Guerra Fredda, affonda le proprie origini negli anni Settanta. Due anni dopo la morte di Mao Zedong avvenuta nel 1976, Deng Xiaoping assunse il potere avviando una stagione di sviluppo, crescita economica e graduale apertura all’Occidente, contraddistinta dall’introduzione del “Socialismo con caratteristiche cinesi”. L’atteggiamento cinese cominciò a modificarsi, allontanandosi da una posizione più riversa nelle questioni interne e intenta a raggiungere il riconoscimento internazionale e la legittimazione della sua natura politico-ideologica all’estero evitando un eccessivo coinvolgimento negli affari internazionali.

 

Rispetto al predecessore, l’approccio intrapreso da Deng era dunque inequivocabilmente più proteso all’esterno, ma un esterno inteso come un orizzonte di nuovi territori da esplorare per aiutare la ripresa economica della Cina, dopo anni di difficoltà dovute prima al Grande Balzo in Avanti (1956-1958), poi alla Rivoluzione culturale (1966-1976). Le condizioni di estrema povertà del Paese ereditate dall’ultima fase dell’era maoista permisero al nuovo leader di stabilire un implicito patto sociale che, sacrificando la partecipazione politica sull’altare del benessere materiale, garantì a Deng un consenso abbastanza diffuso – almeno per i primi dieci anni di mandato.

Dalle macerie lasciate in tal senso da Mao Zedong e grazie alla rivalutazione, sebbene parziale, della sua immagine, Deng Xiaoping potè trasportare il Paese ad una nuova fase di crescita, che gettava le basi del grande sviluppo economico di cui siamo testimoni oggi. Ciononostante, è bene sottolineare che l’attitudine espressa da Deng per la rappresentazione della RPC all’estero era ben distante da quella di oggi di Xi Jinping: Deng infatti auspicava una crescita “mantenendo un basso profilo” (tāoguāng-yǎnghuì), senza l’intento di intimorire le potenze globali o minacciare la stabilità globale. Più di tutto, a Deng si deve l’introduzione del “socialismo con caratteristiche cinesi”, ad oggi pilastro teorico del potere del partito.

Le origini della crescita

Così come Mao aveva intuito che dovesse portare avanti la rivoluzione comunista appoggiandosi ai contadini e puntando tutto su di loro, essendo al tempo la Cina un Paese essenzialmente dedito all’agricoltura più che all’industria, allo stesso modo uno dei primi passi di Deng fu di ripartire proprio dal settore chiave del Paese: l’agricoltura. In un periodo storico in cui le potenze occidentali avevano raggiunto un livello estremamente all’avanguardia in termini di sviluppo industriale, Deng capì che per poter risollevare la nazione e raggiungere quegli stessi livelli doveva prima sanare le ferite del settore agricolo, cuore dell’economia del Paese.

La riforma agraria infatti fu la scintilla che innescò il boom economico cinese di cui tuttora si parla. Durante il regime comunista di Mao, l’autorità centrale raccoglieva i prodotti agricoli dalle comunità rurali per poi ridistribuirli in tutto il Paese. Tramite la graduale introduzione del Household Responsibility System (HRS) – dapprima nelle regioni di Anhui e Sichuan, e poi esteso a partire dal 1979 – Deng promosse la decollettivizzazione della terra, di fatto abolendo le comuni e affidando per la prima volta l’amministrazione dei terreni agricoli ai privati cittadini. Il senso di questa novità era di fornire ai proprietari delle coltivazioni incentivi ad aumentare efficienza e produttività, permettendo loro di mantenere parte dei prodotti e venderli a prezzi di mercato anziché rimetterli interamente allo Stato. Gli effetti di tale riforma non tardarono ad arrivare: si stima che tra il 1978 e il 1984 il valore della produzione agricola cinese incrementò del 90%, permettendo non solo di soddisfare buona parte della domanda di cibo di una popolazione in forte crescita, ma anche di fornire all’industria “leggera” (tessile, alimentare) materie prime da processare: quasi il 50% dei prodotti agricoli veniva infatti impiegato per sostenere il settore secondario.

Far crescere l’agricoltura per far crescere l’industria

Lo sviluppo del settore primario favorì quello del settore secondario tramite una sorta di effetto domino. Oltre alla fornitura di materie prime, un’accresciuta efficienza implicò che fosse richiesta minore forza lavoro nell’agricoltura, lasciandone una larga parte disponibile all’impiego nell’industria. Inoltre, grazie al parziale rilassamento dell’hukou (il sistema di certificazione di residenza istituito da Mao che distingueva la popolazione cinese rurale da quella urbana ed evitava l’esodo di massa dalle campagne alle città), Deng concesse limitati spostamenti all’interno del Paese per permettere agli abitanti delle campagne di raggiungere le fabbriche. Tra il 1978 e il 1996 la produzione industriale crebbe in media del 12,1% all’anno (contro il 7,5% annuo della produzione agricola), con progressivi investimenti per potenziare i settori chimico e siderurgico, fino ad allora arretrati rispetto alle potenze globali. Le Township and Village Enterprises (o TVE, aziende pubbliche di piccole dimensioni amministrate dalle autorità locali) divennero sempre più fondamentali nel trainare la crescita, arrivando a contare oltre 106 milioni di impiegati nel 1992 rispetto ai 23 milioni del 1977, e incrementando il contributo al PIL nazionale dal 6,3% al 14,5% nei soli primi sei anni del mandato di Deng.

Il “socialismo con caratteristiche cinesi”

Tuttavia, per sostenere la crescita il leader cinese avvertì il bisogno di una riforma strutturale dell’economia, che non si limitasse alla decollettivizzazione della terra e al potenziamento dell’industria. Il raggiungimento di questa riforma però non poteva essere repentino, ma doveva essere graduale. Deng descriveva famosamente il processo come “attraversare il fiume sentendo le pietre”. Per questo motivo Deng intraprese, quasi parallelamente alle riforme agrarie e seguendone i medesimi principi, un percorso di rinnovamento delle State-Owned Enterprises (o SOE, vale a dire aziende pubbliche di medie e grandi dimensioni). Tra il 1978 e il 1981 il cosiddetto economic responsibility system fu applicato all’80% delle SOE, permettendo loro di mantenere per sé parte dei profitti anziché consegnarli allo Stato. Questo consentì alle aziende di reinvestirli in welfare aziendale o innovazione tecnologica. Grazie a questa riforma, nel 1985 si arrivò ad introdurre il contract responsibility system, che stabilì il trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato direttamente ai manager dell’azienda, in cambio di una sorta di “affitto” che veniva concordato di anno in anno dalle due parti. Tale “affitto” poteva consistere o in una percentuale fissa sui profitti (tra il 5 e il 20%), o, più comunemente, in una quota forfettaria da attribuire al governo centrale, con facoltà per la SOE di reinvestire ad libitum i guadagni residui. Infine, a partire dal 1984, con l’istituzione del Dual Track System, fu consentito alle attività produttive (tra cui le SOE) di vendere i prodotti in surplus rispetto alla quota dovuta allo Stato a prezzi di mercato, in genere il 20% più alti di quelli stabiliti nell’economia pianificata cinese dell’epoca.

Queste riforme graduali furono possibili anche, e soprattutto, grazie alla rivalutazione formale dell’esperienza maoista che permise progressivamente lo sviluppo del concetto di “socialismo con caratteristiche cinesi” (Zhōngguó tèsè shèhuìzhǔyì – 中国特色社会主义). Oggi pilastro del sistema ideologico-teorico del PCC, Deng introdusse questo concetto spiegando ideologicamente come il socialismo fosse la prima fase del comunismo, e che quindi dovesse essere debitamente sviluppato per giungere alla sua massima realizzazione. Il tutto senza però lasciare indietro lo sviluppo economico del Paese, per un benessere tangibile e condiviso. Inoltre, egli affermava l’esigenza di un’equa distribuzione della ricchezza, evitando dunque di cadere nella trappola capitalista della disuguaglianza sociale, attraverso lo sviluppo di forze produttive ancorate ai principi del socialismo.

Il risultato fu l’affiancamento di imprese private a progetti di pianificazione statale. Famosa è la metafora da lui utilizzata per spiegare e giustificare il suo pensiero: “Non importa se il gatto è bianco o nero, purché prenda i topi”. È stato così che sono nate le prime piccole/medie imprese private, lasciando i colossi energetici e bancari a conduzione statale, in concomitanza all’arrivo di investimenti esteri, seguendo un’altra politica introdotta da Deng conosciuta come “politica di apertura” (gǎigé kāifàng 改革开放). Da non confondersi con “la politica della porta aperta”, l’apertura introdotta da Deng ha rappresentato i passaggio fondamentale che ha poi  condotto la Cina alla sua posizione attuale.

L’introduzione del “socialismo con caratteristiche cinesi” è chiaramente da intendersi come momento di svolta nello sviluppo economico e politico del Paese. Se da un lato ha permesso la coesistenza teorica e formale, apparentemente antitetica, di socialismo e comunismo adattando entrambi alla realtà cinese, dall’altro ha funto da propulsore economico per lo sviluppo del Paese, permettendo a Pechino di cominciare lentamente a rapportarsi alle potenze straniere ed esterne. Nell’approcciarsi all’Occidente, Deng auspicava il mantenimento di un basso profilo, così da permettere alla Cina di svilupparsi, senza incutere però timore nei Paesi occidentali. È su queste basi che negli anni a venire la Cina assumerà il ruolo di “fabbrica del mondo”, con la produzione massiccia di prodotti di bassa qualità, da esportare nel mercato estero. Ed è proprio questa pratica che oggi Xi Jinping sta sovvertendo, con la rivalutazione del termine “made in China” non più sinonimo di bassa qualità, bensì di avanguardia.

Articolo realizzato in collaborazione con Alessia Paolillo

 

Questo articolo è parte di una raccolta sullo sviluppo sociale, economico e politico in Cina. Articolo successivo: Coesistenza tra Capitalismo e Comunismo in Cina

Stefano Grandi
Milanese classe 1997. Quando non seguo lo sport mi occupo di geopolitica. I miei studi mi hanno portato a scoprire l'Estremo Oriente, che mi sforzo tuttora di capire e analizzare con occhio critico, ma senza filtri occidentali. Frequento al momento un Master in Economia Politica presso la University of Essex. I miei articoli? "Con 30.000 lire il mio falegname li faceva meglio".

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