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Perché la guerra della Russia fa sperare il Venezuela

Tempo di lettura stimato: 7 min.

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L’invasione russa in Ucraina non sta solo causando morte e sofferenza, ma anche pesanti danni all’economia mondiale. La Russia è, infatti, uno dei principali esportatori di gas naturale e petrolio, in Europa e al di fuori. Se la Russia non può più fornire petrolio e gas, poiché sanzionata dalla comunità internazionale, quest’ultima dovrà rivolgersi ad altri Paesi esportatori. Secondo l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC), che detiene il 79% delle riserve di petrolio del mondo, il più grande giacimento di petrolio, ovvero 25,5%, si trova in Venezuela. 

 

A fronte di ciò, il 5 marzo, un ufficiale dell’amministrazione Biden è atterrato a Caracas per incontrare la controparte del governo di Nicolás Maduro, nonostante nel 2019 gli statunitensi abbiano rotto le relazioni diplomatiche con quest’ultimo e abbiano riconosciuto il leader dell’opposizione, Juan Guaidó, come legittimo presidente della Repubblica Bolivariana. Secondo l’ AFPM (American Fuel and Petrochemical Manufacturers), nel 2021 gli Stati Uniti hanno importato una media di 209.000 barili al giorno (bpd) di petrolio greggio e 500.000 bpd di altri prodotti petroliferi dalla Russia. Il Venezuela produce meno di 800 mila barili al giorno (bpd) e ha poco potenziale di produzione rimanente, quindi, non riuscirebbe ad alleviare i danni della crisi russa nel lungo periodo. Tuttavia, nel breve periodo potrebbe comunque aiutare le raffinerie statunitensi. 

Durante l’incontro, durato due ore e descritto da Maduro come “cordiale, rispettoso e diplomatico”, si è parlato di alleviare le sanzioni statunitensi sul petrolio venezuelano e il rilascio di alcuni cittadini statunitensi detenuti nelle carceri venezuelane. Il sollevamento delle sanzioni statunitensi è un tema fondamentale per la sopravvivenza del governo di Maduro e per la crisi umanitaria che sta piegando il Paese dal 2014. 

La situazione in Venezuela

Il Venezuela era uno dei Paesi dell’America Latina più ricchi e prosperi grazie alle enormi risorse di petrolio che risiedono nel suo sottosuolo. I governi socialisti di Hugo Chavez e del suo successore e attuale presidente, Nicolás Maduro, hanno utilizzato il petrolio come unica fonte di guadagno senza diversificare l’economia, e condannando il Paese ad una crisi economica e umanitaria senza precedenti.

Secondo l’ultimo rapporto dell’OPEC, nel settembre 2021 il Venezuela ha prodotto solo 527 mila barili di petrolio al giorno a causa della corruzione, della mancanza di investimenti e delle sanzioni internazionali. Ciò equivale a un calo di 2,49 milioni di barili al giorno, pari a un abbassamento dell’ 82,9% della capacità di produzione rispetto ai livelli del 2013. Senza le entrate petrolifere, il Paese è caduto in una profonda crisi economica che ha portato alla seconda iperinflazione più grande della storia, al deprezzamento della moneta nazionale – il Bolívar – che nel 2019 ha perso il 100% del suo valore nei confronti del dollaro USA, ed una contrazione del 74% del PIL tra il 2015-2019

La reazione del governo è stata, e lo è tutt’oggi, la violenza: gli oppositori politici vengono arrestati con intransigenza, le proteste e manifestazioni della popolazione vengono represse violentemente così come la libertà di espressione dei media. A tutto ciò si devono sommare le innumerevoli sanzioni imposte al governo e all’economia da parte degli Stati Uniti, dell’Europa e della comunità internazionale. 

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Membri della polizia nazionale arrestano uno studente durante le manifestazione anti-governative, Caracas, 12 febbraio 2014 [crediti foto: Diariocritico de Venezuela, via Flickr, CC BY 2.0]

I rapporti tra Venezuela e Stati Uniti: le sanzioni

Gli Stati Uniti fin dal 2006 hanno imposto sanzioni di vario tipo al Paese sudamericano. L’amministrazione Obama nel 2015, di fronte alle violenze del governo di Maduro, ha imposto sanzioni mirate contro i responsabili di violazioni dei diritti umani, corruzione e azioni antidemocratiche. L‘amministrazione Trump, in risposta al crescente autoritarismo del presidente Maduro, ha notevolmente ampliato tali sanzioni In particolare, le sanzioni di agosto 2017 hanno vietato al governo venezuelano di contrarre prestiti sui mercati finanziari statunitensi. Ciò non solo ha impedito al governo di ristrutturare il suo debito estero, ma anche aggravato la crisi di produzione del petrolio. Gli Stati Uniti erano il primo mercato d’esportazione del petrolio venezuelano: nel 2018 avevano acquistato il 35,6 % delle esportazioni o circa 586.000 barili al giorno in media. Con il pacchetto di sanzioni del gennaio 2019, gli USA non solo hanno chiuso il loro mercato, ma hanno anche fatto pressione su altri Paesi affinché non comprassero il petrolio dalla Repubblica Bolivariana. Inoltre, questo pacchetto ha congelato beni venezuelani dal valore di miliardi di dollari che avrebbero potuto essere venduti per mantenere le importazioni essenziali e salvavita, o per stabilizzare l’economia. 

Le sanzioni statunitensi hanno fatto perdere allo stato venezuelano tra i 17 e i 31 miliardi di guadagni, contribuendo ad un forte calo delle importazioni. Secondo il report dell’ufficio di Washington per l’America Latina (WOLAWashington office on Latin America), il valore delle importazioni pubbliche medie mensili è sceso del 46 % (a 500 milioni di dollari) nel 2019 e di un altro 50 % (a 250 milioni di dollari) nel 2020. 

Secondo diversi studiosi, le sanzioni unilaterali imposte dall’amministrazione Trump sono illegali ai sensi degli Articoli 19 e 20 della Carta dell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS), che vietano l’intervento di uno Stato estero negli affari interni di un altro e l’uso di misure economiche o politiche coercitive contro un altro Stato, e ai sensi del diritto internazionale. 

La crisi umanitaria in Venezuela: l’investigazione della CPI

Ma la crisi del petrolio e le sanzioni statunitensi non sono le uniche cause della crisi umanitaria persistente. Fin dalle elezioni del 2013 il governo ha esercitato il potere in modo autoritario, senza adottare riforme che potessero aiutare i cittadini ad affrontare la crisi economica ma, anzi, riducendo l’indipendenza delle istituzioni democratiche e reprimendo qualsiasi forma di dissenso.

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Presa di possessione del Presidente Nicolás Maduro, 10 gennaio 2019 [crediti foto: Presidencia El Salvador, via Flickr, CC0 1.0]
Nel 2018 la Corte Penale Internazionale (CPI) ha deciso di iniziare le indagini preliminari riguardo le violenze commesse nella Repubblica Bolivariana dalle proteste del 2017. Questa istituzione internazionale, creata nel 1998, si rige sullo Statuto di Roma e ha il compito di investigare crimini di guerra, crimini contro l’umanità, casi di genocidio e di aggressione. Il Venezuela ha ratificato lo Statuto nel 2000 e quindi è soggetto alla giurisdizione della corte. Pochi mesi dopo l’ufficio del Procuratore (OTP) ha ricevuto un referral da parte di 6 stati membri in cui il governo venezualeno viene accusato di crimini contro l’umanità a partire dal 2014. Dopo tre anni di indagini e diversi report che comprovano i presunti crimini (eccesso della forza della polizia per reprimere le manifestazioni, atti violenti delle forze di sicurezza contro gli oppositori, collaborazione con gruppi civili violenti “colectivos”, privazione delle libertà, maltratti e torture, crimini sessuali o per motivi di genere e atti di persecuzione), a novembre 2021, la CPI ha deciso di aprire un’ investigazione formale

 

Fin dall’inizio degli esami preliminari, il governo di Maduro ha sempre dichiarato che la causa principale della crisi umanitaria sono le misure coercitive unilaterali imposte dagli Stati Uniti e da altri Stati, ma che, nonostante il disaccordo sulle conclusioni dell’OTP, si sarebbe impegnato a collaborare alle indagini. Il 3 novembre 2021, infatti, a Caracas viene firmato un Memorandum d’ Intesa tra il Procuratore e il Venezuela. Secondo il principio di complementarietà, la Corte interviene quando il sistema giudiziario nazionale non ha la volontà o la capacità di indagare in maniera genuina e autonoma i responsabili dei crimini. Quindi l’ufficio del Procuratore, ancor prima di capire chi sono i responsabili dovrà investigare il sistema giudiziario nazionale, che, secondo il report della missione della Commissione dei diritti Umani delle Nazioni Unite del 2021, manca di indipendenza e imparzialità e, anzi, è infiltrato dalle forze politiche del governo. 

Il Venezuela è il primo Paese della regione ad essere sotto indagine dalla CPI, ma ciò non dovrebbe sorprendere vista la gravità della situazione. In questi nove anni la crisi umanitaria è continuamente peggiorata, trasformandosi in una delle più grandi crisi di rifugiati al mondo, seconda solo alla Siria. Sono ormai 6 milioni i rifugiati e migranti venezuelani. I cittadini continuano a lasciare il Venezuela per sfuggire alla violenza, all’insicurezza e alle minacce, nonché alla mancanza di cibo, medicine e servizi essenziali. Chi può scappa in Spagna o negli Stati Uniti, ma la maggioranza è costretta ad attraversare a piedi i confini di Colombia, Ecuador, Perù, Brasile e Cile.

Crisi russa: un’opportunità per il Venezuela di risollevarsi

Questa crisi potrebbe subire un cambiamento positivo a seguito della crisi che si sta verificando in Ucraina. Infatti, se le sanzioni avranno un impatto sulle esportazioni di petrolio della Russia per un periodo prolungato, il Venezuela potrebbe diventare un’importante fonte di diversificazione di approvvigionamento. Alle giuste condizioni, il Venezuela potrebbe aggiungere circa 2 milioni di bpd (o circa il 2% dell’offerta mondiale) in circa 5 anni, e l’economia del Paese potrebbe quindi risollevarsi. Ma tra queste condizioni c’è la necessità di un cambio nelle istituzioni e nella politica nazionale. Un cambiamento politico risulterebbe un ulteriore vantaggio per il blocco occidentale, poiché vedrebbe ridursi la sfera di influenza russa nella regione.

L’opposizione venezuelana, guidata da Juan Guaidò, a gennaio di quest’anno ha vinto un’importante battaglia assicurandosi lo Stato de las Barinas, luogo di nascita di Chavez. Tuttavia secondo numerosi analisti, non riuscirà ad aggiudicarsi le elezioni presidenziali previste nel 2024. Aldilà dell’inefficacia del sistema elettorale venezuelano, l’opposizione è divisa e si sta spostando sempre più a destra. Juan Guaidó si considera il legittimo presidente ad interim del Paese ed è riconosciuto come tale da Stati Uniti, Canada, Colombia e più di 50 altri Paesi, ma il palazzo presidenziale, così come i militari e la burocrazia rimangono ancora sotto il controllo di Maduro. Gli Stati Uniti, se davvero vogliono riaprire il mercato del petrolio venezuelano, saranno costretti a trattare con un governo che ritengono illegittimo e sollevare le sanzioni che da anni piegano il Paese. 

*Pompa petrolifera [crediti foto: via Pxhere, CC0 1.0]

 

Maddalena Fabbi
Nata a Genova nel ’98. Laureata in triennale alla statale di Milano, oggi sono studentessa double degree presso l’Università di Belgrano a Buenos Aires, Argentina. La mia ricerca di nuove esperienze mi ha portato più volte in America Latina di cui mi sono appassionata.

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