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Le case popolari in Italia tra opportunità e problemi

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Lo scorso novembre, a Roma, l’86enne Ennio di Lalla è tornato a casa trovandola occupata. La storia, come altre simili, ha avuto subito una vasta copertura mediatica, finendo su un gran numero di quotidiani e programmi di approfondimento televisivo. Qui si è operata una narrazione spesso ammantata di sottotesti securitari e, in alcuni casi, razzisti, ad esempio ponendo enfasi sull’etnia degli occupanti. Storie di questo tipo, con tutti i problemi che abbiamo sottolineato, sono spesso gli unici contesti in cui i mass media italiani affrontano la questione delle case popolari. 

Tuttavia, il tema della casa a prezzi accessibili nelle città risulta, mai come ora, attuale. L’aumento dei costi delle case che abbiamo osservato negli ultimi anni ha portato molte persone in condizioni di sofferenza economica, con il rischio sempre più reale di vedere una parte della popolazione esclusa dal tessuto urbano a causa dei prezzi proibitivi dell’abitare. Dalla crisi finanziaria globale del 2008, un report dell’OCSE mostra che, in 21 dei 33 Paesi OCSE di cui si hanno dati disponibili, i prezzi delle case sono cresciuti più dei redditi. In media, nei Paesi UE la popolazione spende il 20% del proprio reddito nella casa. Si tratta di una percentuale in aumento, e le fasce più vulnerabili dal punto vista economico arrivano a spendere dal 30% al 40% del reddito nella propria abitazione, sfociando spesso in situazioni di marginalità. Dalla crisi finanziaria del 2008 ad oggi, gli investimenti nell’edilizia popolare sono diminuiti in tutta Europa, a fronte di una domanda abitativa crescente. Inoltre, la pandemia ha evidenziato l’importanza che un’abitazione di qualità può avere per la salute, fisica e mentale, delle persone.

Con questo articolo andremo quindi ad analizzare la situazione delle case popolari, anche dette Edilizia Residenziale Pubblica (Erp), in Italia, evidenziando alcune delle questioni più pressanti ad esse collegate. 

Case popolari: qualche dato tra Italia ed Europa

Secondo le ultime rilevazioni di FederCasa, le case popolari in Italia sono più o meno 750mila e ospitano circa due milioni di persone. Corrisponderebbero quindi a meno del 3% del totale del patrimonio edilizio del Paese. Secondo un recente report, questo dato sarebbe molto inferiore alla media dei Paesi membri dell’Unione Europea e dei Paesi OCSE, che si porrebbe invece sul 6%. In particolare, l’Italia è molto indietro sul tema rispetto a svariati Stati europei, quali i Paesi Bassi, la Danimarca e l’Austria, ma anche Francia e Regno Unito, che vedono tutti più del 10% delle abitazioni dedicate a vario titolo ad iniziative di housing sociale. Tuttavia, è necessario notare che le comparazioni sono difficili data l’estrema varietà di iniziative a seconda del contesto locale.

I paradossi della gestione delle case popolari in Italia

Il primo problema che caratterizza la questione delle case popolari è quella delle case sfitte. Queste rappresentano il 7% del totale del patrimonio di edilizia Erp, o 55mila abitazioni. Ciò è dovuto principalmente ai tempi spesso lunghi di assegnazione degli appartamenti. Basti pensare che a Milano il tempo di attesa tra la completazione del bando di assegnazione e la consegna dell’appartamento può arrivare anche a nove mesi, durante i quali la casa rimane vuota. A questo si aggiungono gravi problemi legati alla manutenzione di questi stabili. Gli alloggi sfitti che necessitano di interventi sarebbero circa 16mila, a cui va aggiunto un numero non meglio precisato di appartamenti assegnati ma bisognosi di interventi tempestivi di manutenzione. Ad esempio, secondo alcune stime, circa 500mila alloggi pubblici sarebbero caratterizzati da alti consumi energetici, obbligando le famiglie a spendere anche il 10% del proprio reddito per garantire il riscaldamento dei locali. 

Infatti, come raccontano Jacopo Lareno e Alice Ranzini nella loro inchiesta sulla marginalità nel contesto milanese, la gestione ordinaria è una delle più grandi fragilità delle politiche che gestiscono il patrimonio edilizio pubblico. Tali fragilità sono legate in particolare alla gestione dell’Erp tramite enti di gestione, che sono chiamati a garantire la propria sostenibilità economica quasi solamente attraverso i guadagni dagli affitti delle abitazioni gestite. Ciò avviene con un contributo nullo o quasi da parte delle regioni, che avrebbero la responsabilità di gestione del servizio, e ha portato ad un problema di sostenibilità economica del servizio, che in un tentativo di efficientamento dei costi ha determinato la riduzione delle spese di manutenzione. 

Tra le conseguenze della gestione di mercato di quello che essenzialmente è un servizio di welfare c’è il fatto che l’edilizia popolare vive in una condizione cronica di eccesso di domanda. Ciò è meglio rappresentato dalle famiglie in lista d’attesa per l’assegnazione di questi alloggi che, secondo l’Unione Inquilini, sarebbero oltre 600mila. A questo si aggiungono le caratteristiche del patrimonio immobiliare pubblico, spesso antiquato e non sempre capace di rispondere alle nuove necessità, determinate da cambiamenti demografici di lungo corso. Ad esempio, delle oltre 13.000 famiglie in lista d’attesa per un alloggio comunale a Roma, il 51% sarebbe composta da una o due persone. Questo dato va a scontrarsi con gli alloggi disponibili, che essendo risalenti agli anni ‘70, sono pensati per famiglie numerose. Di conseguenza, molte di queste persone vengono scavalcate nelle graduatorie da unità familiari più adatte alla metratura dell’appartamento in questione, allungando esponenzialmente il tempo di attesa necessario per poter accedere ad un alloggio.

Il Karl Marx Hof, un complesso di case popolari a Vienna [crediti foto: Thomas Ledl, CC BY-SA 4.0]

Sono proprio i tempi d’attesa che in molti casi portano poi all’occupazione delle abitazioni. Spesso le occupazioni hanno luogo in appartamenti generalmente sfitti o il cui legittimo inquilino ha lasciato la casa per lunghi periodi. Infatti, l’occupazione di una casa è un affare complesso, gestito solitamente da racket criminali, che si finanziano distribuendo gli appartamenti vuoti a coloro che, per un motivo o per un altro, non hanno volontà o possibilità di aspettare oltre nelle liste d’attesa. Spesso la segnalazione di quale appartamento occupare arriva però dagli stessi condòmini, quando questi notano un appartamento inutilizzato. In Italia oggi si stima che siano circa 30mila le case popolari occupate, corrispondenti più o meno al 4% del totale degli appartamenti disponibili. Molti di questi casi, tuttavia, non corrispondono allo stereotipo propagato dai media, in cui un gruppo di persone armato di attrezzi da scasso forza la porta di una casa regolarmente assegnata. In quasi un terzo dei casi, le abitazioni sono considerate occupate perché la famiglia a cui la casa era stata precedentemente assegnata rifiuta di andarsene. 

Tuttavia, anche tale fenomeno alimenta il circolo vizioso dell’incuria delle case popolari. Gli enti gestori finiscono, infatti, per spendere enormi quantità di denaro nella risistemazione degli appartamenti sgomberati. Inoltre, questi appartamenti spesso non tornano immediatamente disponibili, visti i ritardi piuttosto comuni nei lavori di manutenzione di cui già avevamo parlato. Questo va quindi a contribuire ulteriormente al fenomeno degli appartamenti sfitti, oltre che alla perdita dei possibili introiti che l’ente gestore avrebbe avuto assegnando tale appartamento. 

Come si possono risolvere i problemi delle case popolari in Italia?

Jacopo Lareno e Alice Ranzini hanno definito le case popolari come un “luogo di risanamento” della città. La casa pubblica può prevenire spirali di espulsione e impoverimento materiale, creando nuove opportunità di inserimento per le persone ed evitando che queste si trovino a tutti gli effetti escluse dalla vita della città. E’ quindi necessario garantire il diritto all’abitare in quanto tale meccanismo di esclusione porterebbe invece ad una diminuzione della diversità della città, che si ritroverebbe quindi socialmente impoverita. 

Ciò rende di fondamentale importanza una risposta efficace ai problemi che abbiamo sviscerato in queste righe. Tuttavia, la narrazione mediatica è riuscita ad influenzare anche le proposte politiche, spesso focalizzate sulla risoluzione del problema attraverso tattiche securitarie e un irrigidimento delle pene. Un esempio sono i disegni di legge della Lega e di Forza Italia, presentati entrambi nel corso degli ultimi mesi, che propongono, tra le altre cose, l’equiparazione del reato di occupazione a quello di furto aggravato e l’espulsione degli stranieri trovati colpevoli di occupazione. Un altro esempio è costituito dalla circolare del Ministero degli Interni per il contrasto alle occupazioni abusive di immobili, voluta da Matteo Salvini e definitiva all’epoca “Direttiva Sgomberi”.

Tuttavia, quello che abbiamo delineato in questo articolo è un problema che affonda le radici in una mancanza cronica di posti negli alloggi popolari, molto inferiori nel loro numero alla domanda di alloggio a buon mercato. Come suggerisce Walter De Cesaris, dell’Unione Inquilini, l’unica risposta possibile ai problemi dell’Erp sarebbe l’impostazione di un grande “piano casa”.

L’Unione Inquilini non è sola in questa battaglia. Anche l’Unione Europea ha recentemente iniziato a spingere sul fronte degli investimenti nell’edilizia popolare, in particolare attraverso il Green New Deal, che mira a migliorare la qualità dello stock edilizio, in un’ottica di efficientamento e abbattimento dei costi. Anche per questo, nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), il Governo italiano ha previsto di investire 2 miliardi per l’edilizia residenziale pubblica, puntando a migliorare l’efficienza energetica, la resilienza e la sicurezza sismica delle case popolari. Si tratterebbe di un intervento fondamentale, e che rappresenterebbe un importante ammodernamento del patrimonio di edilizia popolare in Italia. Tuttavia, il Piano non arriva ad immaginare un’espansione dell’offerta di case popolari, col rischio di non risolvere ancora una volta l’annoso problema delle liste d’attesa.

A cura di Giovanni Simioni e Massimiliano Garavalli.

* Le Vele di Scampia [crediti foto: Federica Zappalà, CC BY-SA 3.0 IT]
Redazione
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