Il salario minimo in Unione Europea
Con salario minimo ci si riferisce all’istituzione per legge di una soglia minima di retribuzione in uno specifico arco di tempo (all’ora, al giorno o al mese) sotto al quale nessun datore di lavoro può scendere. Questa misura è stata pensata per assicurare retribuzioni che garantiscano standard di vita dignitosi e che risolvano il problema dei working poor. Questo termine si riferisce a quella categoria di lavoratori in povertà, ossia che non hanno una retribuzione sufficientemente alta pur non essendo disoccupati (di solito, infatti, si pensa al problema della povertà solo nei casi di disoccupazione). Secondo Eurostat, rientrano in questo gruppo di persone tutti coloro i quali guadagnano meno del 60% del salario mediano del Paese. In Italia, addirittura l’11,7% dei lavoratori totali guadagnerebbero meno di questa soglia, il quarto numero più alto tra i Paesi europei. Questo potrebbe essere dovuto all’aumento di lavori a tempo determinato in Italia, posizioni che non garantirebbero paghe adeguate e stabili nel tempo. Questo trend si può vedere anche in altri Paesi europei nel grafico sottostante.
Al momento, nell’Unione europea, sono ventuno gli Stati membri con un salario minimo nazionale istituito per legge. Gli unici sei a non averlo sono Italia, Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia. Si può subito notare come nessuno dei Paesi scandinavi abbia istituito questa misura (sorprendentemente, forse, data la fama di inclusività delle loro politiche sociali). Questo non dovrebbe sorprendere, in quanto in questi Paesi i meccanismi di contrattazione collettiva tra sindacati e aziende sono molto capillari nell’economia. Come approfondiremo più avanti, ciò porta ad avere molte più protezioni per i lavoratori, per cui un salario minimo per legge non arrecherebbe particolari benefici. Per quanto riguarda i salari, nel resto del Vecchio Continente si va dai 332 euro al mese della Bulgaria ai 2.200 del Lussemburgo, come è possibile vedere nella mappa sottostante.
I salari minimi scelti sono molto diversi tra i Paesi europei e dipendono certamente anche da standard di vita diversi. In generale, comunque, gli importi variano dal 40% (Lettonia) al 53% (Slovenia) del salario medio corrispettivo di ogni Paese. Per comparazione, se l’Italia adottasse un salario minimo legale paragonabile a quello tedesco (41% circa del salario medio calcolato nel 2020), corrisponderebbe a circa 1.290 euro mensili lordi.
Prospettive europee: coordinazione e omogeneità
Il 25 Novembre 2021 il Consiglio dell’Unione europea ha concordato di iniziare le negoziazioni con gli Stati membri e il Parlamento europeo per una direttiva che porterebbe tutti ad avere un salario minimo legale o ad avere almeno l’80% dei lavoratori coperto da contrattazione collettiva, come avviene ad esempio nel nostro Paese. Le politiche per il lavoro fanno infatti parte delle competenze concorrenti tra istituzioni europee e Stati membri. Secondo l’Articolo 4 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, Bruxelles può legiferare e negoziare direttive per quanto riguarda le politiche sociali, tra cui le condizioni di lavoro, le pari opportunità e l’inclusione sociale. Con il Pilastro europeo dei diritti sociali, l’Ue si impegna a proteggere e garantire, tra gli altri diritti, anche quello di salari equi minimi (principio n. 6), che “soddisfino i bisogni del lavoratore e della sua famiglia in funzione delle condizioni economiche e sociali nazionali”. Il salario minimo deve quindi essere uno strumento per prevenire la povertà lavorativa, un fenomeno in crescita in molti Stati europei.
Non tutti i Paesi sono però d’accordo con questa misura. Infatti, anche se l’Unione europea ha teoricamente un mercato del lavoro unico (non ci dovrebbero essere barriere di alcun tipo tra uno Stato membro e l’altro), sussistono comunque nette disuguaglianze. Ad esempio, c’è molta differenza in termini di copertura delle contrattazioni salariali collettive e in quanto a presenza delle organizzazioni sindacali. I Paesi che non presentano un salario minimo risultano tutti avere una copertura superiore all’80% (in altre parole, 8 contratti su 10 sono il risultato di negoziazioni tra sindacati e aziende). Se in Italia, nel 2012, il 34% dei lavoratori era in un sindacato (decimo in Europa), in Finlandia addirittura il 74% ne faceva parte (primo Paese in Europa). Entrambi i Paesi sono comunque sopra la media dell’Ue del 23%.
Dunque, gli standard e le retribuzioni dei lavoratori in molti Paesi fortemente sindacalizzati garantiscono già tendenzialmente paghe più alte e condizioni di lavoro migliori. Da un punto di vista economico, secondo uno studio, l’impatto di un salario minimo a livello europeo sarebbe più forte proprio in questi Paesi. Per quanto riguarda l’Italia, un salario minimo europeo istituito al 60% del salario mediano nazionale (calcolato al valore del 2010) sarebbe addirittura inferiore rispetto alle paghe minime medie ottenute tramite contrattazione collettiva.
Ci sarebbe però anche un forte impatto istituzionale, perché una legiferazione sovranazionale attorno ai salari minimi andrebbe a togliere potere contrattuale alle istituzioni locali ormai radicate storicamente e culturalmente. I Paesi nordici si sono infatti sempre opposti a un più grande coinvolgimento dell’Ue in materia di retribuzione minima e solo questo mese la Svezia avrebbe accettato la nuova proposta del Consiglio, che include raccomandazioni sulle contrattazioni collettive come alternativa, proprio per andare incontro al blocco scandinavo.
Anche i sindacati sono scettici sul salario minimo in Italia
I pro e contro di un salario minimo nel nostro Paese toccano vari aspetti. Primo fra tutti all’interno della stessa Italia esistono differenze molto grandi tra stipendi medi e standard di vita. Questo ragionamento, d’altronde, potrebbe essere applicato anche in Europa, dove produttività del lavoro e costi sono estremamente eterogenei tra i vari Paesi e quindi una regolamentazione sovranazionale non considererebbe queste differenze. Per questo motivo, le contrattazioni collettive a livello sia locale che nazionale terrebbero più conto di queste peculiarità rispetto a un salario minimo legale nazionale. La Cisl stessa si è dichiarata scettica su questa misura, che a sua detta potrebbe peggiorare la qualità di vita a molti lavoratori: le aziende potrebbero uscire dai contratti collettivi se un ipotetico salario minimo nazionale fosse addirittura più conveniente per loro.
La questione piuttosto dovrebbe riguardare quelle nuove categorie di lavoratori della cosiddetta gig economy (in tutta Europa sono circa 28 milioni i lavoratori in questo settore), al momento quasi del tutto sprovvisti di copertura sindacale, anche in Italia. Sarebbe proprio per la crescita di questi nuovi settori deregolamentati che l’Ue ha ufficializzato l’inizio di negoziati con i vari Paesi, affinché venga raggiunta una copertura sindacale per tutti i lavoratori di tutti i settori o che venga istituito un salario minimo nazionale. L’Unione europea prova a dettare di più la linea in politiche sociali e di inclusione, ma spetterà agli Stati membri decidere come adottare nuove linee guida e riformare i propri sistemi.