L’altalena dei consumi spinta dal Covid
Il 2020 prospettava una lenta ma sostenuta crescita del Pil mondiale rispetto all’anno precedente, stimata al +3,4% dal Fondo monetario internazionale. Ma è bastato un solo mese per contraddire il lungo lavoro degli analisti: marzo 2020. La crisi pandemica da Coronavirus ha forzato l’arresto delle attività industriali, ridotto al necessario il commercio transnazionale e lasciato dietro di sé un crollo dei consumi senza precedenti. Proprio in marzo 2020 quasi tutti i Paesi del globo sperimentano il lockdown, i governi chiudono le frontiere così come i cittadini le porte di casa. Di conseguenza, la produzione e lavorazione delle materie prime si è adattata al nuovo scenario economico, comprese le filiere dedicate ai beni alimentari più indispensabili, come i prodotti cerealicoli, che oggi vivono un’impennata dei prezzi.
Nel 2021 infatti si assiste a un preoccupante aumento dei prezzi di grano e altri cereali come avena e frumento in due mesi in particolare: marzo e ottobre. In questo periodo in Italia, ad esempio, l’Osservatorio Federconsumatori rileva un aumento del prezzo della farina del 38%, mentre ammonta a +22% il costo del frumento e ben +79% per l’avena. Su questi aumenti influiscono certo i rincari dell’energia elettrica e del metano, che rendono più costosi per le aziende i processi di lavorazione dei beni alimentari, nonché l’aumento dei carburanti e quindi del costo dei trasporti. Ma non sono questi i soli colpevoli. Nel rapporto pubblicato in novembre, la Food and Agriculture Organization (FAO) sottolinea come la filiera alimentare stia arrancando nel soddisfare l’aumento della domanda stimata per il 2021-2022. Prendendo ad esempio il frumento, la FAO stima che la domanda di questa materia prima essenziale crescerà del 2.2% nel prossimo anno, di cui +1,5% a scopo alimentare umano e il restante per altri usi, come l’alimentazione animale o i biocombustibili. Tuttavia, la produzione diminuirà dello 0.8% a causa di numerosi problemi affrontati dai principali produttori, con serie conseguenze per i consumatori, soprattutto nelle aree più fragili.
La geopolitica del grano
Secondo le stime del FAO, i principali produttori ed esportatori di cerealicoli sono Cina, India, Stati Uniti, e Russia, tutti Paesi extra-europei da cui l’Unione è fortemente dipendente. Sebbene Francia e Germania rientrino tra i primi dieci produttori, i due Paesi non riescono da soli a soddisfare il fabbisogno dei 27 membri dell’Ue. Così, ad esempio, l’Ue tra il 2020 e il 2021 ha importato circa il 39,3% della farina di grano comune dall’India, l’11,4% del frumento dalla Russia, il 67,5% dell’avena dal Canada e il 67,4% del mais dal Brasile.
Pur essendo l’Ue un mercato appetitoso per i produttori esteri, essa risente facilmente delle dinamiche in continua evoluzione dai Paesi terzi. Proprio tra il 2020 e il 2021, il mercato europeo è frustrato dagli accordi privilegiati tra Russia e Cina nello scambio di materie prime. Di fatto, nella fase di ripresa dalla crisi pandemica, la domanda di materie prime (comprese quelle alimentari) da parte della Cina è aumentata, nonostante il Paese abbia incrementato la produzione di colture del 44% tra il 2000 e il 2018. Anche la Russia sta incontrando difficoltà nel soddisfare la propria domanda interna, pertanto il Cremlino ha deciso di imporre dazi sulle esportazioni, potendo così tenere a freno l’aumento dei prezzi nel Paese. Dal proprio canto, l’amministrazione Biden ha contribuito al clima di incertezza, annunciando di voler potenziare gli investimenti nei biocarburanti, che necessitano basi cerealicole. Questa mossa ha dato spazio a una speculazione internazionale tradotta nell’aumento dei prezzi di questi beni, come già accaduto nel 2007.
Un ulteriore fattore che colpisce la produzione globale sono i cambiamenti climatici. Proprio nel corso del 2020, grandi produttori come la stessa Russia e il Canada hanno vissuto intensi periodi di siccità a causa dell’aumento record delle temperature estive: +30°C nel Circolo Artico e +45°C nel Canada Centrale. Questi profondi sconvolgimenti naturali hanno ridotto i raccolti, e il prezzo dei cereali è cresciuto dal 30 al 50% sui mercati internazionali tra il 2020 e il 2021.
(In)sicurezza alimentare nell’UE
Guardando all’Unione europea, il gigante economico a 27 braccia soffre quanto a sicurezza alimentare, o food security. Il World Food Summit del 1996 ha definito la condizione di sicurezza alimentare “quando tutte le persone in ogni momento hanno accesso a cibo sufficiente, sicuro e nutriente per mantenere una vita sana e attiva”. Come suggerito a più riprese dagli esperti e dalla stessa FAO, tale formula deve essere integrata con la necessità di un accesso fisico, sociale ed economico ad alimenti sufficienti per sfamarsi, ma anche sani, e tale accesso deve essere stabile nel tempo.
In questo senso, la discesa della produzione e l’inflazione galoppante mettono a repentaglio la sicurezza alimentare di un Paese, o di un’intera regione come l’Europa. Per l’Ue, la dipendenza dall’estero implica una certa vulnerabilità sul piano politico, con esposizione a possibili ritorsioni dai partner internazionali. Ad esempio, nel primo semestre del 2021 l’import agro-alimentare dal Regno Unito è calato del 30% rispetto all’anno precedente, segno di come un evento politico come la Brexit possa influire sulla sicurezza alimentare dell’Ue. Non è da sottovalutare la vulnerabilità sul piano economico: il mercato interno subisce lo sbalzo dei prezzi e del gap domanda-offerta a livello globale. Queste dinamiche affliggono tanto le aziende europee nel settore dell’alimentazione quanto le famiglie, in un ciclo economico deleterio. Le imprese, così come le catene di ristorazione, incontrano costi maggiori nella lavorazione dei beni alimentari e sono costrette a vendere i prodotti finali a prezzi più elevati, con il rischio di perdere l’attenzione degli acquirenti, che potrebbero rivolgersi a soluzioni più economiche, talvolta rinunciando alla qualità. Le famiglie avrebbero un potere d’acquisto inferiore, e pertanto sarebbero chiamate a delle rinunce nella spesa, a scapito delle aziende produttrici.
Ridurre la dipendenza alimentare dall’estero: quali prospettive?
La popolazione europea potrebbe aumentare di 3 milioni di individui entro il 2026, pertanto l’Ue si sta preparando a sfamare i suoi cittadini. Ad occuparsi del settore agroalimentare nell’Ue è la Politica agricola comune (Pac), varata per la prima volta nel 1962 e che ricopre da sempre un ruolo fondamentale per l’Unione, andando a regolare un settore, quello primario, di vitale interesse per stati come Francia, Regno Unito, Germania e Italia. Non a caso, la Pac assorbe ben ⅓ del bilancio europeo, e da alcuni anni è oggetto di ampie discussioni in merito alle misure di sostegno dei produttori. La Pac si occupa infatti di sostenere e tutelare gli agricoltori, tramite sussidi, sgravi fiscali e misure per agevolare l’industria agroalimentare e migliorare la produttività agricola. In questo modo, garantisce un approvvigionamento stabile di alimenti a prezzi accessibili. In ultimo, non per importanza, la Pac elabora azioni volte a preservare le risorse naturali dell’Unione nonché ad affrontare i cambiamenti climatici.
Tenendo conto delle nuove necessità, il 1° giugno 2018 la Commissione europea ha presentato le proposte legislative sul futuro della Pac, la cui riforma dovrebbe essere attuata a partire dal 1º gennaio 2023, previo accordo definitivo tra il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Ue. Il piano conta 387 miliardi di euro stanziati in sette anni, che includono nuovi sussidi per gli agricoltori che si adegueranno a nuovi standard climate-friendly. Il fine è di supportare la transizione verso forme di agricoltura e allevamento sostenibili, ma anche sostegno alla ricerca, all’innovazione e al digitale per aumentare la produzione, migliorarne la qualità e combattere i cambiamenti climatici, che com’è noto sono esacerbati da pratiche sbagliate e dai consumi eccessivi del settore. La riforma della Pac dovrebbe così rendere eco-bio il 25% dell’agricoltura europea entro il 2030 e mettere i produttori nella condizione di preservare l’ambiente e garantire la bio-sicurezza dei beni alimentari senza rinunciare a livelli di produzione che garantiscano eque entrate e una spesa adeguata ai consumatori.
La sicurezza alimentare nell’Ue è dunque una questione di vitale importanza, che ha un forte impatto tanto nella vita politica ed economica della regione quanto nella quotidianità dei cittadini. Le istituzioni europee mostrano di aver colto il problema e di star elaborando soluzioni attente non solo alle esigenze dell’uomo ma anche a quelle dell’ambiente. La sfida è sfamare i cittadini di oggi e di domani tagliando i costi per produttori, consumatori ed ecosistema.
*foto di Raul Gonzales Escobar / Unsplash.com