Quanto è ricca l’industria della carne
Storicamente, in quasi tutti i Paesi del mondo la produzione di massa della carne è andata aumentando come conseguenza della crescita della popolazione e del suo potere d’acquisto. Dagli anni ‘60 la domanda mondiale non ha mai smesso di aumentare e nel 2013 il consumo pro capite di carne in tutto il mondo aveva superato il 43 kg annui, con picchi come gli Stati Uniti e l’Australia (più di 120 kg in media) e un aumento impressionante del consumo in Cina. Per dare un’idea dell’aumento produttivo, nel 1961 venivano prodotte circa 70 milioni di tonnellate di carne, mentre nel 2018 ne stavamo producendo più di 345 milioni. Sempre nel 2018 le regioni del Nord America, dell’Asia e dell’Europa contribuivano al 76% della produzione totale, con il principale contributo di Cina, Unione Europea e Stati Uniti.
In termini economici questi livelli di produttivi si traducono in un mercato che nel 2018 valeva più di $945 miliardi e che nel 2023 si stima potrebbe raggiungere il valore di 1.142 miliardi di dollari. Tutto questo mentre nel 2019 la capitalizzazione finanziaria delle principali tre aziende produttrici di carne messe assieme (in ordine di importanza: Hormel Foods, Tyson Foods e JBS) superava i 50 miliardi di dollari.
Con questi dati a testimoniare un ottimo stato di salute dell’industria della carne sembrerebbe che non ci sia nessuna inversione di tendenza nelle abitudini di consumo e nei metodi di produzione. Questo è dato dal fatto che l’arricchimento della popolazione globale e il conseguente aumento del consumo di carne sono due fenomeni recenti, recentissimi se prendiamo in considerazione i Paesi in via di sviluppo. L’aumento del consumo mondiale è infatti trainato dalle economie emergenti come Cina e Brasile, mentre in Europa occidentale e in Nord America il consumo di carne si è stabilizzato da almeno 20 anni, e in alcuni casi come Francia e Canada sembra addirittura in diminuzione. Lo stesso ragionamento vale per la consapevolezza dei consumatori e delle opinioni pubbliche sul tema, visto che solo negli ultimi anni sono diventate evidenti le problematiche ambientali connesse alla diffusione esponenziale degli allevamenti intensivi per la produzione di carne.
Quanto inquinano gli allevamenti intensivi?
La tecnica degli allevamenti intensivi permette agli allevatori di aumentare la capacità produttiva a dei costi nettamente inferiori rispetto alle normali pratiche di allevamento. Dagli anni 60 l’utilizzo degli antibiotici su larga scala ha permesso agli allevatori di concentrare gli animali allevati in spazi molto ristretti, evitando allo stesso tempo l’elevata diffusione di malattie batteriche tra il bestiame. L’aumento della produttività derivante dall’allevamento intensivo ha perciò permesso ai Paesi industrializzati di soddisfare la domanda in costante aumento e oggi almeno il 70% della carne prodotta proviene dagli allevamenti intensivi.
Le carni bovine, di maiale e il pollame partecipano da sole al 93% del consumo di carne mondiale. Tutte e tre vengono prodotte attraverso l’allevamento intensivo, anche se vanno distinte per l’entità e per il tipo di impatto ambientale derivante dalla loro produzione. Le carni bovine sono infatti di gran lunga le più inquinanti: ogni chilo di carne di manzo prodotta corrisponde in termini di effetto serra all’emissione di 60 kg di CO2 nell’atmosfera, 9 volte in più della carne di maiale e 10 volte in più di quella di pollo. Il grosso delle emissioni inquinanti non è causato dal trasporto dei prodotti, bensì dalle emissioni di metano derivanti dal processo digestivo dei bovini e dall’impatto della deforestazione per fare spazio alle coltivazioni da cui si ricavano foraggio e mangimi.
Lo spropositato quantitativo di terra destinato al sostentamento del bestiame
Il 77% delle coltivazioni agricole nel mondo è infatti destinato alla produzione di carne e prodotti caseari, un’allocazione delle risorse decisamente inefficiente sia dal punto di vista della conversione calorica che di quella proteica, questo perché le carni e i prodotti caseari sono i cibi col tasso di conversione della terra in sostanze nutritive più basso in assoluto. Per fare un esempio in termini di quantità: in un anno bisogna tenere occupati 369 m² di terreno per produrre 1kg di carne bovina, mentre ce ne vogliono invece solo 6 m² per produrre 1kg di uova.
Per ottenere tutto questo suolo coltivabile si ricorre spesso al disboscamento: tra le aree più colpite dalla deforestazione dovuta alla produzione di carne c’è sicuramente la foresta amazzonica brasiliana, dove secondo il Guardian vengono abbattuti ogni anno tra i 280 e i 320 chilometri quadrati di foresta per fare spazio alle coltivazioni che sfamano il bestiame. Molta della carne prodotta in Brasile si trova anche nei nostri supermercati, le imprese italiane acquistano ogni anno 27.000 tonnellate di carne dal mercato brasiliano per farle poi stagionare qui in Italia. Solo in Valtellina vengono lavorate e fatte stagionare 35.000 tonnellate di carne in gran parte di provenienza sudamericana.
Un’industria ricca e sussidiata
Anche le autorità pubbliche giocano un ruolo cruciale dal punto di vista del supporto all’industria della carne e della produzione casearia. In Brasile ad esempio i ricavi del settore vengono sostenuti da ingenti sussidi pubblici, mentre la deforestazione viene permessa o poco disincentivata dalla legge. Negli Stati Uniti la produzione di carne e formaggi viene intensamente sussidiata dallo Stato: ogni anno i ricavi delle principali aziende del settore vengono sostenuti con 38 miliardi di dollari, permettendo così un calo artificiale dei prezzi e un conseguente aumento dei consumi e della produzione. La stessa cosa vale per l’Unione europea, dove è stato stimato che una cifra fra il 69% (€28,5 miliardi) e il 79% (€32 miliardi) dei fondi della Politica Agricola comune (PAC) è diretto al sostenimento diretto o indiretto della produzione di bestiame.
A inizio maggio 2021 è stata ribadita dalla Commissione europea la volontà di regolamentare ulteriormente il settore per ridurne l’impatto ambientale. Già nel 2013 la Commissione riconosceva che gli allevamenti di bovini in Europa immettono migliaia di kilotonnellate di ammoniaca e metano in atmosfera, oltre a costituire un importante fattore di inquinamento da nitrati di fiumi, laghi e falde acquifere. Nonostante ciò con la PAC l’Unione europea continua a destinare il 20% dei propri fondi pubblici al finanziamento di uno dei settori più inquinanti in assoluto.
Come i consumatori possono fare la differenza
Tutte le preoccupazioni di carattere ambientale rivolte nei confronti dell’industria della carne sono politicamente rafforzate dal fatto che in media 8 persone su 10 si dichiarano preoccupate per i possibili effetti dei cambiamenti climatici. Negli Stati Uniti molte aziende si stanno impegnando per soddisfare una crescente domanda di prodotti alternativi alla carne, che abbiano lo stesso sapore e gli stessi valori nutrizionali, ma senza essere prodotti utilizzando il bestiame (considerato poco efficiente ed altamente inquinante) come principale mezzo di produzione. Un settore che solo nel 2019 era cresciuto del 45%, e che durante la pandemia ha assistito ad un aumento delle vendite del 200%.
I singoli consumatori possono attivamente spingere verso un cambiamento delle tecnologie e dei metodi di produzione. Secondo l’Economist se tutto il mondo smettesse di mangiare carne e derivati animali le emissioni derivanti dalla produzione di cibo calerebbero di ¾ rispetto a quelle attuali. Direzionare i propri consumi verso industrie alternative e più sostenibili aiuta ad abbassare il prezzo generale dei prodotti rendendoli disponibili per una maggior fetta di popolazione, oltre a supportare i ricavi e gli investimenti in ricerca e sviluppo delle aziende innovatrici. Ridurre il consumo di prodotti animali può quindi fare la differenza, e l’emergere di nuovi prodotti alternativi non può che essere un ulteriore incentivo a direzionare i propri acquisti verso un sistema produttivo a minor impatto climatico.
Articolo da capogiro !