Dopo più di tre mesi, finalmente, gli aiuti umanitari di diverse organizzazioni internazionali sono arrivati nella regione dell’Etiopia più colpita dal conflitto interno, il Tigré, dove circa 5 milioni di persone soffrono la fame. Il primo aprile di quest’anno il World Food Programme (WFP) è riuscito a portare cibo, medicinali e carburante attraverso il corridoio umanitario nella regione confinante al Tigray, Afar, dove si trovano almeno due campi profughi. Il giorno dopo anche il Comitato Internazionale della Croce Rossa è entrato nella regione con ulteriori aiuti umanitari.
L’arrivo di questi aiuti umanitari è stato permesso dal “cessate al fuoco” proposto dal primo ministro etiope Abiy Ahmed e accettato il 25 marzo dal Fronte popolare di Liberazione del Tigray (Tplf), le due forze in conflitto ormai da più di 17 mesi.
Il conflitto nella regione del Tigray
Prima dello scoppio del conflitto, l’Etiopia stava vivendo una delle crescite economiche più prosperose del continente e aveva ridotto notevolmente il tasso di povertà. La guerra nella regione più settentrionale del Paese, il Tigré, è iniziata nei primi giorni di novembre 2020 con “un’operazione militare” lanciata dal primo ministro Abiy Ahmed, dopo i presunti attacchi del Tplf contro le Forze nazionali di sicurezza etiopi (Ethiopian National Defence Force, Endf) a Macallé, capitale della regione.
Il Tigré conta circa 7 milioni di persone di etnia tigrina e confina a nord con l’Eritrea, a ovest con il Sudan, a est con la regione Afar e a sud con quella degli Amara. Questa regione è sempre stata rappresentata dalla forza politica e militare del Tplf, ma tra il 2015 e il 2018 si sono create delle tensioni con l’amministrazione della capitale, Addis Abeba. Il 4 novembre, dopo aver violato il divieto, di svolgere le elezioni federali nella regione, indetto da Abiy Ahmed a causa del Covid-19, le tensioni hanno raggiunto il culmine. Dopo l’iniziale sconfitta delle forze del Tplf da parte delle forze governative (Endf), a giugno 2021 le forze ribelli del Tigray hanno ripreso il controllo sia della loro regione, che di alcuni territori delle regioni vicine, Amhara e Afar.
A diciassette mesi dall’inizio del conflitto, il Paese è spaccato a metà: nella capitale Addis Abeba folle di persone sostengono il governo e inneggiano allo scontro e all’uccisione dei ribelli, mentre nelle altre regioni sono nati gruppi ribelli, come l’Oromo Liberation Front, che sta accerchiando le truppe regolari da sud mentre le armate tigrine avanzano da nord. Negli ultimi mesi si è creata un’ alleanza anti-governativa di circa nove gruppi ribelli, compresi quello dei tigrini e dell’Oromo, hanno creato il Fronte Unito delle Forze Federaliste e Confederaliste Etiopi.
Se vuoi sapere di più sulle origini del conflitto leggi anche il nostro articolo: “Il conflitto in Etiopia rischia di vedere tutti sconfitti”.
Etiopia e Ucraina: un confronto tra conflitti.
Il fatto che questo conflitto sia iniziato come “un’operazione militare” da parte di un governo potrebbe richiamare un altro conflitto che l’Europa sta vivendo in prima persona: la guerra tra Russia e Ucraina. Sono molte le differenze tra questi due eventi. Una delle principali è il fatto che conflitto russo-ucraino è stato “una sorpresa” per la comunità internazionale e coinvolge due Stati-Nazione, due eserciti nazionali, di cui uno dotato di armamento nucleare, mentre quello etiope è la conseguenza dell’escalation di tensioni tra due forze politiche ed avviene all’interno dei confini statali.
Lo shock che sta vivendo una regione come l’Europa, che non vede conflitti armati tra potenze o il pericolo di uno scontro nucleare da ormai 80 anni, ha un impatto diverso sulla comunità internazionale rispetto ad una “guerra intestina” in Africa. La comunità internazionale, i governi occidentali, la Corte Internazionale di Giustizia e la Corte Internazionale Penale, infatti, dal primo giorno sono intervenuti condannando l’aggressore russo, imponendo sanzioni e inviando ingenti quantità di aiuti umanitari in Ucraina. Nel caso etiope è tutto più difficile: l’interesse mostrato dalla comunità internazionale si è limitato alla condanna degli orrori commessi da entrambi gli eserciti e alla richiesta di dialoghi di pace, soprattutto da parte di Stati Uniti e Unione Europea. Sono pochi i Paesi, più o meno vicini, che vendono armi e/o supportano apertamente le forze in campo. L’esercito federale di Addis Abeba, ad esempio, è supportato dall’Eritrea, che da sempre ha problemi con il Tigré, e riceve armi, seppur silenziosamente, dagli alleati del Golfo, quali Turchia, Emirati Arabi e Iran. Dall’altro lato, le forze tigrine trovano appoggio nell’Egitto e nel Sudan, e indirettamente negli Stati Uniti, visto l’appoggio dell’l’Iran nei confronti del governo di Ahmed.
Un’ultima ma fondamentale differenza è l’attenzione mediatica dedicata ai due conflitti. La guerra in Ucraina sembra avvenire in “diretta”: giornalisti e istituzioni internazionali raccontano minuto per minuto ciò che succede sul campo, analisti geopolitici studiano possibili risvolti e nelle televisioni nazionali scorrono le immagini delle atrocità commesse dagli eserciti. Questo permette anche maggiori aiuti umanitari, grande solidarietà per la popolazione ucraina che scappa dalle bombe, e quindi una maggiore accoglienza nei Paesi confinanti. Il conflitto etiope, invece, risulta essere “a porte chiuse”, poichè, a causa delle violenze contro giornalisti, soccorritori e figure esterne, risulta difficile reperire numeri ed informazioni certe su cosa sta succedendo nella regione del Tigray, e le sue vittime per mesi non hanno ricevuto aiuti umanitari, rischiando di morire di fame.
I Paesi africani e il principio di Non-indifferenza
A novembre 2021, a un anno dal conflitto, l’Alto rappresentante dell’Unione Africana (UA) per la regione del Corno d’Africa, Olusegun Obasanjo, ha detto che la situazione di crisi nel nord dell’Etiopia continua a deteriorarsi drasticamente e questo mette in pericolo la sicurezza dell’intera regione. L’Etiopia, infatti, è stata un simbolo dell’indipendenza africana durante il periodo coloniale, la base africana di molte organizzazioni internazionali, e Addis Abeba costituisce anche la sede dell’Unione Africana. Inoltre, il primo ministro Abiy Ahmed, che ha ricevuto il Premio Nobel 2019 per l’accordo di pace con l’Eritrea che ha messo fine a quasi 20 anni di stallo, è stato per anni il principale alleato degli statunitensi e dell’ONU nel continente. Oggi, però, Abiy Ahmed ha rotto i rapporti con l’Occidente. Dopo aver rifiutato la mediazione dell’UA, ordinato l’espulsione di sette alti funzionari delle Nazioni Unite, accusandoli di “ingerenza” negli affari interni del Paese e dichiarandoli “persona non grata”, il Governo ha anche respinto le indagini della missione indipendente per sospetti crimini di guerra della Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite.
La crisi umanitaria in Etiopia
Nel frattempo, mentre vengono scartate possibili soluzioni pacifiche, organizzazioni per i diritti umani, come Amnesty International e Human Rights Watch, denunciano i presunti abusi perpetrati contro i civili nella regione del Tigray dall’inizio del conflitto come crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il rapporto, scritto congiuntamente da questi enti, documenta come i nuovi funzionari del Tigray occidentale e le forze di sicurezza della vicina regione di Amhara, con l’acquiescenza e la possibile partecipazione delle forze federali etiopi, hanno sistematicamente espulso diverse centinaia di migliaia di civili tigrini dalle loro case usando minacce, uccisioni illegali, violenza sessuale, detenzione arbitraria di massa, saccheggi, trasferimenti forzati, e la negazione dell’assistenza umanitaria.
L’Etiopia storicamente è uno snodo centrale per le migrazioni nella regione del Corno d’Africa. Secondo l’UNHCR, il Paese ospita oltre 823.000 rifugiati e richiedenti asilo provenienti prevalentemente dal Sud Sudan, dalla Somalia e dall’Eritrea, la maggior parte dei quali vive in 24 campi profughi situati in cinque stati regionali. Dall’Etiopia partono tre rotte principali, quella verso Nord, in direzione Libia, quella verso sud, in direzione Sud Africa, e quella verso est in direzione Arabia Saudita.
Così come quello russo-ucraino, anche questo conflitto sta causando una crisi migratoria di grandi dimensioni. A causa delle violenze, infatti, ora l’Etiopia ha anche 4,2 milioni di sfollati interni (IDP) e oltre 1,5 milioni di IDP rimpatriati, e più di 60.000 rifugiati tigrini sono scappati in Sudan.
La tregua per l’arrivo degli aiuti umanitari e le ultime notizie di una ritirata da parte del Tplf dalla regione di Afar, fanno sperare l’inizio di dialoghi di pace tra il Addis Abeba e i gruppi ribelli. Un primo passo da parte del governo potrebbe essere la rimozione del Tplf dalla lista di gruppi terroristici e iniziare a includerlo attivamente nei negoziati per una soluzione di co-esistenza a lungo termine.
*Una ragazza cammina in un campo di rifugiati interni [crediti foto: The African Union Mission in Somalia, via rawpixel, CC0 1.0]