Attorno a ciò che rimane del Lago Ciad, oggi non prolifera altro che una gravosa instabilità. La siccità e il cambiamento climatico, da un lato, e il susseguirsi di crisi politiche ed economiche dall’altro, hanno condotto a una delle più gravi crisi umanitarie del nostro secolo, oggi sempre più esacerbata dalla presenza di diversi gruppi armati di opposizione governativa e da un crescente estremismo violento in tutta la regione. Quella che la popolazione del Lago Ciad sta vivendo è una drammatica combinazione di crisi sovrapposte e intrinsecamente concatenate che ha già costretto, a partire dal 2009, 2,5 milioni di persone a lasciare le loro abitazioni. Attualmente, le Nazioni Unite stimano che circa 10,7 milioni di persone necessitino di assistenza umanitaria immediata a causa della mancanza di acqua, cibo e servizi di sopravvivenza di base, mentre la violenza riverbera tra i confini degli Stati affacciati sul Lago Ciad.
Le ragioni della crisi: il cambiamento climatico
Il lago, un tempo noto come “Lago miracoloso” è situato nel cuore della regione africana del Sahel, una lunga fascia di territorio sabbioso che si estende tra l’Oceano Atlantico a ovest e il Mar Rosso a est, e che trova i suoi confini naturali nel deserto del Sahara a nord e la savana del Sudan a sud. Non priva di importanza è questa connotazione geografica, necessaria per comprendere a pieno il fondamentale ruolo che il Lago Ciad ricopre per gli Stati che da esso dipendono. Si tratta di Nigeria, Niger, Ciad e Camerun: nazioni a cui appartengono circa 17 milioni e mezzo di persone che vivono nei territori adiacenti alle acque del bacino e che per millenni hanno resistito alla siccità sub-sahariana grazie alle sue risorse miracolose.
Nonostante questo però, l’intero Sahel è stato duramente colpito dall’emergenza climatica che ha condotto a un aumento delle temperature nella regione circa 1,5 volte più rapido rispetto alla media globale. Secondo alcuni dati della FAO, il susseguirsi di alcune tra le più gravi secche mai avvenute nell’intera area del Sahel, l’aumento della popolazione nella zona e la cattiva amministrazione delle risorse idriche hanno portato alla scomparsa di quasi il 90% della capacità idrica del Lago Ciad, che si estendeva per circa 25.000 chilometri quadrati nel 1963, e la cui superficie si è poi ridotta a circa duemila chilometri quadrati nel 2015. La distesa nord del bacino è stata la più colpita dal prosciugamento e pescatori, agricoltori e pastori di Nigeria e Niger sono stati costretti a superare i propri confini nazionali alla ricerca delle risorse idriche per il loro sostentamento e per quello delle proprie comunità. Si stima che solo in Niger quasi 2 milioni di persone soffra di insicurezza alimentare, con fame e siccità a intensificare gli scontri tra gruppi nazionali diversi che cercano di accaparrarsi le ultime risorse rimaste.
Nonostante recenti osservazioni satellitari abbiano rivelato un incoraggiante aumento dei livelli d’acqua del lago negli ultimi anni, il cambiamento climatico continua a compromettere la stabilità della regione. Tanto le stagioni delle piogge quanto quelle aride che tradizionalmente si alternavano con cadenza periodica in questa zona, si sono intensificate. A piogge torrenziali seguono siccità ancora più acute e ogni possibilità di adattamento a questa incontrollata variabilità climatica da parte della popolazione locale risulta oggi quasi completamente vana. Un chiaro esempio della portata dei recenti eventi ambientali è l’aumento esponenziale delle precipitazioni che lo scorso anno hanno causato inondazioni improvvise di villaggi e campi coltivati, costringendo ancora una volta alla migrazione migliaia di comunità rurali.
Inoltre, la corruzione e la debolezza istituzionale dei governi di Nigeria, Niger, Ciad e Camerun hanno fatto sì che ogni tentativo nazionale di gestione della crisi idrica si traducesse in un nulla di fatto. Da decenni anche la comunità internazionale, per mezzo dell’azione congiunta di Nazioni Unite e Unione europea, ha istituito diversi programmi di attenuazione della crisi umanitaria e di sviluppo regionale che hanno però sottovalutato troppo a lungo la necessità di intervenire concretamente sulla gestione, non solo delle questioni economiche e sociali, ma anche su quelle relative al cambiamento climatico. Recentemente, l’accresciuta e sempre più diffusa sensibilità ambientale ha permesso tanto all’Onu quanto alle altre organizzazioni internazionali di riconsiderare le strategie d’azione in Sahel e quindi nel territorio del Lago Ciad, prevedendo programmi sempre più massicci di mitigazione e resilienza climatica.
Lago Ciad [crediti foto: NASA Image and Video Library/ CC0]
Le ragioni della crisi: terrorismo ed estremismo violento
All’emergenza climatica, protratta sin dalle prime siccità degli anni Settanta, si è ben presto associata una lunga serie di altri fattori di instabilità. All’inizio degli anni ottanta e poi ancora nel 2014, la crisi dei prezzi del petrolio ha scatenato una forte instabilità amministrativa in Nigeria dove un gruppo armato di ispirazione jihadista, Boko Haram, si è presentato alla popolazione come l’alternativa a quello che è stato definito un governo debole e influenzato dalle potenze occidentali. La crisi politico-economica è stata immediatamente strumentalizzata e associata al processo di secolarizzazione intrapreso dal governo nigeriano, nel tentativo di riempire il vuoto istituzionale con un nuovo assetto basato sui codici della shari’a. Il fondamentalismo islamico ha cercato di richiamare attorno a sé la popolazione locale, stanca dopo decenni di crisi ambientale e povertà diffusa, e là dove non arriva la propaganda jihadista, subentra invece la coercizione armata.
Ben presto, la violenza jihadista nigeriana si è estesa prima in Camerun e poi in tutti gli altri Stati affacciati sul Lago Ciad causando, dal 2015, centinaia di morti e migliaia di sfollati. I gruppi armati hanno assunto il controllo delle risorse idriche impedendo ai contadini e ai pastori di beneficiarne, e le comunità locali sono vessate da sequestri, minacce e abusi. Le forze governative e altri gruppi armati informali sono insorti contro l’espansione di Boko Haram ma questa rinnovata risposta militare non ha fatto altro che accelerare l’escalation della crisi.
Diversi analisti hanno definito il contesto del Lago Ciad una “trappola di conflitti”, una locuzione per descrivere la spirale di violenza che destabilizza la regione. Gli alti livelli di insicurezza militare hanno esacerbato le conseguenze del cambiamento climatico, impedendo alle comunità locali di adattarsi alle nuove condizioni ambientali e rendendole sempre più povere e in competizione tra loro per l’accesso alle risorse non ancora controllate dai gruppi armati. La chiusura di diverse porzioni di Lago, costringe infatti i civili a ritornare nelle zone prosciugate del bacino, esponendoli nuovamente al rischio di malnutrizione e carenza idrica. Ciò incrementa il malcontento e la frustrazione sociale che permette a gruppi come quello di Boko Haram di proliferare.
Allo stesso tempo, l’inefficienza governativa e la presenza di diversi gruppi di opposizione nazionale non fa che alimentare l’insicurezza e la vulnerabilità delle persone, vittime tanto della violenza fondamentalista quanto dell’incapacità istituzionale di agire alla radice del conflitto.
Quali soluzioni per il Lago Ciad?
Agire sullo sviluppo socio-economico e contrastare i gruppi terroristici esistenti è tanto importante quanto intervenire sulle conseguenze del cambiamento climatico che, come osservato, intensifica le vulnerabilità già esistenti. Sono infatti questi diversi elementi, i cui effetti hanno conseguenze simultanee, ad influire sull’instabilità del territorio attorno al Lago.
Secondo Ahmat Yacoub, politico dello stato del Ciad, “finché ci sarà fame e miseria ci sarà Boko Haram” e l’intera “trappola dei conflitti” ad esso associata non potrà che autoalimentarsi. Affinché la regione sia finalmente stabilizzata, è perciò fondamentale elaborare strategie onnicomprensive, in grado di agire sui molteplici drivers alla base della crisi, come l’ineguaglianza, la marginalizzazione, l’inesistenza di una governance nazionale forte e la crisi ambientale. Ad oggi, priorità è stata data alle operazione di antiterrorismo e soccorso umanitario ma nel 2019 il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha fatto appello alla comunità internazionale affinché si riconsiderasse l’urgenza di intervenire sulla crisi idrica trasferendo masse d’acqua dal fiume Congo al bacino del Ciad, tramite la creazione di infrastrutture come canali e dighe. Sfortunatamente, la mancanza di una convinta volontà politica d’intervento sulla crisi climatica non ha ancora permesso l’implementazione delle misure necessarie e le popolazioni del lago Ciad sono destinate, per un tempo ancora imprecisato, a restare incastrate tra il deserto di sabbia delle loro terre e quello politico delle potenze globali.
*Voci del Lago Ciad [crediti foto: Adriana Borra CC Adriana Borra/UNCHAD]