La scelta di questa data è stata fortemente voluta dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, poiché costituisce l’ultima finestra utile per poter ottenere un’approvazione prima del 3 novembre 2020, giorno delle elezioni presidenziali americane. Joe Biden, lo sfidante in carica di Donald Trump, ha infatti dichiarato di non approvare e condividere quanto esposto nel “Deal of the century” dello stesso Trump, reso pubblico il 28 gennaio scorso.
Ad oggi tuttavia, persistono ancora alcuni dubbi sul definitivo via libera da parte americana che deve fare i conti con un Congresso polarizzato (i Repubblicani sono a favore, i Democratici no). Oltretutto secondo alcuni circoli Repubblicani, il via libera all’annessione non porterebbe significativi vantaggi in termini di consenso politico.
Le implicazioni dell’ “Accordo del secolo” di Trump
Nel 1967, in seguito alla guerra dei Sei giorni, successivamente rinominata come “la guerra che cambiò le sorti del Medio Oriente”, si determinò una riconfigurazione dei confini che è ancora oggi alla base delle dispute che vedono coinvolti Israele e Palestina. Da quel momento in poi, gli Stati Uniti sono rientrati prepotentemente nello scacchiere politico mediorientale, affidando ad Israele la gestione dei loro interessi.
La comprensione dell’ “Accordo del secolo” di Donald Trump, va inserita in un contesto storico più ampio che ha origini proprio nel 1967 e che vede gli Stati Uniti impegnati a rendere Israele una potenza in grado di influenzare e condurre un ruolo di assoluta preminenza nel contesto geopolitico del Vicino Oriente.
Fino ad oggi, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non ha indicato se intende adottare un approccio massimalista, che implicherebbe quindi l’annessione dell’intera Valle del Giordano e di tutti gli insediamenti israeliani ivi presenti (circa 130), o se invece intende optare per l’annessione di un’area più piccola, concentrandosi sui grandi insediamenti adiacenti ai confini pre-1967 del Paese.
Le ultime indiscrezioni hanno fatto trapelare la possibilità che l’annessione escluda la Valle del Giordano. Netanyahu e i suoi temono per la solidità dei confini dello Stato ebraico e intendono preservare il ruolo ricoperto dalla Giordania nel pattugliamento e nella gestione della sicurezza dei confini.
Secondo gli scenari ipotizzati dal Washington Institute, la prima fase prevederebbe l’annessione dei grandi insediamenti vicini a Gerusalemme e Tel Aviv, come Ma’ale Adumim e Gush Etzion dell’area E1 e Ariel, nel nord della Cisgiordania. L’obiettivo è quello di annettere l’intera Valle del Giordano, territorio solcato dalle acque del Giordano, regione geografica che costituisce un luogo particolarmente strategico per le risorse idriche.
In base agli Accordi di Oslo (1993) il territorio della Cisgiordania è diviso in tre aree amministrative, rispettivamente A, B e C. All’interno delle aree B e C, l’amministrazione civile e la gestione della sicurezza sono sotto l’autorità israeliana a differenza dell’area A che è invece amministrata dalle autorità palestinesi. La Valle del Giordano si colloca per il 90% in area C ed è soggetta alla Convenzione di Ginevra del 1949.
La prevista annessione israeliana priverebbe da un lato i palestinesi delle principali risorse agricole, mentre, dall’altro lato, eliminerebbe del tutto l’idea di una soluzione basata sulla divisione in due Stati autonomi e indipendenti, auspicata in seguito alla firma degli Accordi di Oslo.
L’accordo finale, contenuto in un documento di 181 pagine intitolato “Peace to prosperity”, proposto da Trump e portato avanti dal suo genero Jared Kushner, è solo l’ultimo di una lunga serie di tentativi statunitensi di porsi come mediatore per un accordo di pace tra Israele e Palestina, nel tentativo di una risoluzione definitiva del conflitto.
I principali punti del piano prevedono la normalizzazione ufficiale degli insediamenti israeliani in Cisgiordania; il mantenimento da parte di Israele di gran parte di Gerusalemme come sua capitale, lasciando ai palestinesi i sobborghi della periferia come loro capitale; il mancato rispetto del diritto alla garanzia del ritorno ai profughi palestinesi e la creazione di uno Stato palestinese, che non avrebbe però il controllo dei propri confini e su cui si impone la smilitarizzazione.
In realtà, ciò che è stato presentato come un piano rivoluzionario e senza precedenti, non è altro che la normalizzazione di una situazione geografia e politica che già da molti anni è stata realizzata dai diversi governi israeliani che si sono succeduti. L’unica differenza che contraddistingue l’amministrazione Trump dalle precedenti risiede nel riconoscimento ufficiale della sempre crescente presenza israeliana in Cisgiordania, dove negli ultimi anni si sono insediate circa 500mila persone.
Il contesto interno israeliano: fra impasse politica e contestazione
Per quasi un anno Israele ha conosciuto una fase di forte instabilità politica. Ben tre tornate elettorali si sono succedute negli ultimi due anni, nessuna delle quali è riuscita nell’intento di sbloccare la situazione di stallo, principalmente a causa della comparsa sulla scena politica di nuove figure che avevano messo in forte difficoltà la figura dell’ indiscusso leader della destra israeliana Benjamin Netanyahu.
Ad ottobre 2019 infatti, Benny Gantz, ex Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane (Idf) è divenuto leader del partito centrista “Blu e Bianco” rimettendo in discussione i paradigmi della politica israeliana mediante la creazione dell’immagine di un uomo “nuovo” e incorruttibile.
Ad esacerbare un quadro politico già di per sé instabile, si è successivamente aggiunta l’incriminazione per truffa e corruzione ai danni di Netanyahu, il quale ha sempre negato le accuse, affermando di essere stato sottoposto ad un processo politico più che giudiziario.
Netanyahu è oggi premier di un governo d’emergenza, istituito in seguito ad un accordo siglato lo scorso 17 maggio con l’ex-rivale Benny Gantz, volto essenzialmente a fronteggiare la situazione emergenziale dovuta alla pandemia da Covid-19. L’esecutivo che ha preso vita avrà una durata di tre anni e i due leader si alterneranno nel ruolo di premier ogni diciotto mesi.
Rispetto alla questione della Cisgiordania, seppur in maniera più moderata, anche Gantz si è espresso a favore del progetto di annessione. Il leader del partito centrista considera però necessario il via libera preliminare da parte di Washington e della Comunità internazionale. Tuttavia, il governo israeliano si trova ad affrontare una perdurante fase di crisi politica e di contestazione da parte dei partiti sia di sinistra che di destra.
Di fatto, una netta opposizione contro “l’Accordo del Secolo” proviene dai coloni israeliani, i quali ritengono che la Palestina storica non sia altro che la biblica Eretz Israel (la Terra di Israele) e che appartenga solo agli ebrei. Ciò implica conseguentemente che i palestinesi non possano vantare alcun diritto su di essa. Per queste ragioni, centinaia di coloni e attivisti israeliani di estrema destra hanno lanciato una campagna contro il piano di Trump per impedire che sia costituito uno Stato palestinese.
Al contempo i maggiori partiti di sinistra, fra cui Meretz, hanno organizzato il 6 giugno a Piazza Rabin a Tel Aviv una grandissima manifestazione per protestare contro l’annessione e per commemorare la morte di George Floyd negli Stati Uniti e quella di un giovane palestinese disabile, Eyad al Hallaq a Gerusalemme, per mano della polizia israeliana. Il sit-in ha visto la partecipazione anche alcuni partiti di sinistra facenti parte della coalizione della Lista Unita a maggioranza araba, insieme a molti altri gruppi di attivisti della sinistra israeliana.
Sull’onda del dissenso manifestato durante le proteste, la Corte Suprema di Israele il 9 giugno ha annullato una legge del 2017 che legalizzava retroattivamente i 4000 insediamenti presenti in Cisgiordania.
La risposta arabo-palestinese
Una delle poche certezze è l’opposizione palestinese a qualsiasi forma di annessione, sebbene la capacità dei palestinesi di impedire un simile risultato sia molto limitata. La popolazione, e i sostenitori del partito di Abu Mazen e Fatah, (organizzazione politica e paramilitare palestinese, facente parte dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) hanno infatti chiesto con determinazione la fine del coordinamento di sicurezza con Israele, considerato una forma di collaborazione attiva con l’occupazione militare.
Dallo scorso mese, i 30.000 agenti di polizia e di intelligence dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), l’organismo politico di auto-governo palestinese ad interim, hanno interrotto le comunicazioni con le loro controparti israeliane e americane. Il ruolo del servizio di intelligence dell’Anp, guidata da Majd Faraj è stato fondamentale sin dalla firma degli Accordi di Oslo per tenere sotto controllo gli oppositori e i militanti del movimento islamico Hamas.
In generale, la strategia di risposta palestinese nei confronti di Israele risulta ormai essere del tutto inefficace. Basata solamente su annunci e proclami che mai hanno trovato concreta attuazione, i leader palestinesi, a causa degli stretti legami economici che indirettamente li legano ad Israele e USA, non sono riusciti a bloccare né le annessioni né lo sfruttamento delle risorse.
L’11 febbraio 2020, durante un discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas non è riuscito nell’intento di affermare le priorità nazionali palestinesi. La posizione tenuta da Abbas non colpisce di certo, se si considera che il leader dell’Anp è da sempre ritenuto dalla comunità internazionale come un moderato della causa palestinese. Assumere posizioni nette avrebbe significato perdere quel poco di legittimazione internazionale. D’altra parte tuttavia, continuare ad insistere su una politica mediana potrebbe concorrere a non ribaltare mai le sorti della Palestina.
Probabilmente il problema di fondo dell’ ”Accordo del secolo”, dal punto di vista di chi auspica una totale indipendenza palestinese non sono tanto i punti descritti, che violano apertamente il diritto internazionale, ma il prono atteggiamento della Palestina che troverà sicuramente un modo per coesistere con l’accordo.
La motivazione è di natura principalmente economica: assumere posizioni radicali nei confronti dei principali investitori significherebbe perdere un flusso di finanziamenti, provenienti in larga misura dagli stati del Golfo, che al momento risultano essere vitali.
In tale quadro il 19 maggio, Abbas aveva risposto all’annuncio di annessione di Netanyahu dichiarando cessati tutti gli accordi e le intese raggiunti con Israele e gli USA e ha di conseguenza definito decaduti tutti gli obblighi e gli impegni da essi derivanti. Secondo Abbas, l’annessione dei territori da parte di Israele vanificherebbe ogni possibilità di pace e di istituire la soluzione a due Stati.
Pochi giorni dopo, il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha invece annunciato che contestualmente all’annessione sarà proclamato lo Stato di Palestina sui confini del 1967 con Gerusalemme Est come capitale. Numerosi appelli all’unità dei palestinesi e alla resistenza sono stati reclamati anche dalla Striscia di Gaza durante una conferenza stampa di Hamas.
Tuttavia, la reazione palestinese ha avuto un impatto limitato sul dibattito in Israele o all’interno della Casa Bianca, poiché ha messo in luce sia la debolezza politica di Abbas sia la possibilità concreta che qualsiasi passo intrapreso potrà avere solo conseguenze negative per gli stessi palestinesi.
Più efficaci sono state le risposte di alcuni stati arabi, in particolare Giordania, Emirati Arabi Uniti, Qatar e dalla stessa Lega araba, l’organizzazione internazionale politica di stati del Nord-Africa e della penisola araba, nata il 22 marzo 1945. Il sovrano della Giordania, Abdullah II, ha infatti avvertito che l’annessione israeliana potrebbe portare alla sospensione del trattato di pace tra Giordania e Israele siglato nel 1994. Il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul-Gheit, ha invece accusato Israele di “approfittare della preoccupazione globale nell’affrontare l’epidemia di Covid-19 per imporre una nuova realtà sul campo”.
Le condanne della Comunità internazionale
Numerose nazioni europee, tra cui Francia, Irlanda, Spagna e Belgio stanno facendo pressione su Israele e minacciando azioni punitive nel caso si decida di procedere unilateralmente con l’annessione.
In tale contesto il 25 giugno il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha esortato Netanyahu ad abbandonare il proprio piano di annessione, in quanto si tratterebbe di una “grave violazione del diritto internazionale”.
Secondo Guterres, l’annessione mina la possibilità di giungere a una soluzione a due Stati e di intraprendere nuovi negoziati, e, di conseguenza, mette in pericolo gli sforzi profusi per porre fine al conflitto israelo-palestinese.
Nel frattempo sono state scritte numerose petizioni che, impugnando il diritto internazionale, si oppongono all’annessione e in taluni casi chiedono l’intervento diretto della comunità internazionale. Molti dei politici firmatari hanno posto in cima alle priorità il rispetto del diritto internazionale, prima ancora dell’ alleanza con Israele.
Il 22 giugno migliaia di persone si sono radunate a Jericho, città palestinese situata nella Cisgiordania, per protestare contro il piano di annessione unilaterale da parte di Israele di diverse porzioni di territori della Cisgiordania e della valle del Giordano.
Nonostante la minaccia pandemica sia ancora al suo posto e si siano registrati all’incirca 1990 casi all’interno dei Territori Occupati e le autorità palestinesi abbiano più volte richiamato l’attenzione su una possibile seconda ondata, questo non ha fermato i manifestanti che ormai da decenni si vedono negata la possibilità della costituzione di uno stato palestinese.
Dunque?
Pur risultando difficile azzardare previsioni in un contesto geopolitico che vede coinvolti tutti i principali attori del mediterraneo allargato, è al momento improbabile che dopo il 1° luglio assisteremo ad un invasione militare israeliana di quei territori. Molto probabilmente ciò che accadrà sarà solamente la firma di un atto burocratico.
Già da tempo, le forze armate israeliane sono presenti nell’Area C tanto che ogni iniziativa palestinese necessita dell’autorizzazione israeliana. In questo complesso contesto, ci sono due elementi principali che minano la possibilità della costituzione di due stati. Il primo è l’idea di democrazia etnica sostenuta dalla destra israeliana, e il secondo è il totale rifiuto da parte palestinese di negoziare.
La posta in gioco per tutte le parti coinvolte è molto alta. Per i palestinesi, infatti, l’annessione potrebbe effettivamente cancellare qualsiasi speranza realistica di realizzare le proprie aspirazioni nazionali, mentre da parte israeliana anche solo un’annessione limitata potrebbe costituire, potenzialmente, un colpo fatale a qualsiasi soluzione che contempli la convivenza fra i due stati.
Articolo scritto in collaborazione con Anthea Favoriti