La crisi climatica è una crisi umanitaria
L’ impatto umanitario dei cambiamenti climatici è visibile già oggi, ma tenderà ad aggravarsi nel futuro prossimo. All’aumentare della necessità di aiuti umanitari, è cresciuta la consapevolezza che la crisi climatica costituisca una vera e propria crisi umanitaria, se non “la crisi umanitaria dei nostri tempi”, evidenziando al contempo la crucialità del tema per gli operatori e gli attori umanitari che potrebbero essere protagonisti della risposta globale al clima. L’azione umanitaria, quindi, deve adattarsi agli effetti di questa crisi, modificando alcuni degli elementi tipici della risposta solidale. Innanzitutto, nella risposta agli effetti della crisi climatica, le politiche umanitarie da attività di risposta post-catastrofe o post-crisi devono farsi attività pre-catastrofe, comprendendo il sostegno all’adattamento e alla resilienza, alla riduzione del rischio di catastrofi, alla preparazione alle catastrofi e all’azione preventiva, unendo approcci diversi a seconda del contesto e delle strutture esistenti. La flessibilità e l’adattamento, infatti, sono alla base della risposta umanitaria agli effetti del cambiamento climatico. Inoltre è importante che le attività umanitarie non siano isolate l’una dall’altra, ma che lavorino congiuntamente, creando gruppi intersettoriali e ristrutturandosi quando necessario, come è stato evidenziato da esperti e organizzazioni internazionali, sottolineando la necessità di integrare le considerazioni legate ai rischi del cambiamento climatico nelle strategie di sicurezza nel settore umanitario, dello sviluppo e della pace (Humanitarian Development Peace nexus). Una risposta efficace alla crisi climatica, infine, deve coinvolgere attivamente le comunità più vulnerabili e maggiormente colpite, tenendo conto delle diverse esigenze, risorse e reti sociali.
Il cambiamento climatico tra vulnerabilità e ingiustizie
L’entità degli impatti umanitari dei cambiamenti climatici è fortemente determinata dal contesto, compresa la vulnerabilità delle comunità interessate. Tra i molti fattori che contribuiscono alla vulnerabilità, il rapporto della Croce Rossa norvegese ne evidenzia tre: la debolezza delle istituzioni, l’emarginazione politica ed economica e la presenza di conflitti armati. Le istituzioni governative e informali svolgono infatti un ruolo cruciale nel plasmare la vulnerabilità climatica e la capacità di coping, e influiscono sulla distribuzione dei rischi e dei benefici legati al clima, incentivando le risposte di adattamento e mediando il successo degli interventi. Inoltre, anche laddove le istituzioni sono considerate generalmente forti, le popolazioni attivamente discriminate o escluse sono più vulnerabili ai cambiamenti climatici. L’emarginazione politica va spesso di pari passo con l’emarginazione economica, che aumenta ulteriormente la vulnerabilità. Secondo la Banca Mondiale, le aree con una maggiore disuguaglianza socio-economica si sovrappongono a quelle con un rischio climatico più elevato. Infine, i conflitti hanno un impatto negativo sulla vulnerabilità climatica poiché, danneggiando o distruggendo le infrastrutture, causano morti, riducono la stabilità finanziaria e hanno un impatto negativo sugli investimenti o sugli interventi stranieri. A livello globale, i conflitti tendono a concorrere nelle zone a clima più caldo, dove l’agricoltura è un mezzo di sostentamento comune e dominante, e spesso vanno di pari passo con una maggiore dipendenza dal settore agricolo, particolarmente sensibile agli shock climatici.
Diverse forme di vulnerabilità spesso si intersecano e rinforzano a vicenda, producendo vulnerabilità comuni per particolari popolazioni nelle aree colpite dal clima. Ne risulta che i Paesi più esposti ai rischi del cambiamento climatico sono quelli del Sud Globale, principalmente in Africa e in Asia meridionale, che meno hanno contribuito all’aggravarsi della crisi climatica. Nel 2020, i 15 Paesi più vulnerabili alla crisi climatica hanno contribuito per meno dello 0,2% alle emissioni globali di gas serra. A causa della debolezza della capacità di coping e delle sfide strutturali, tali regioni sono quelle che subiranno le più severe conseguenze del cambiamento climatico. L’impatto sulle piccole aziende agricole è infatti più pronunciato nelle zone aride e semi-aride, mentre l’innalzamento del livello del mare minaccia principalmente le aziende agricole delle aree costiere a bassa quota del Sud-Est asiatico. Inoltre l’Africa e l’Asia meridionale emergono come regioni altamente vulnerabili all’insicurezza alimentare, e al contempo le tendenze migratorie sono particolarmente pronunciate in Asia meridionale, Africa orientale e America centrale.
Climate justice: i costi e benefici dell’azione climatica
La letteratura accademica evidenzia come, nonostante il consenso da parte della comunità scientifica sull’impatto del cambiamento climatico, le politiche climatiche rimangono spesso volatili, guidate da percezioni di ingiustizia che motivano la resistenza politica e ne minano la legittimità. In questo senso, l’ingiustizia può essere analizzata guardando a tre diversi aspetti. Il primo si configura nell’esposizione disomogenea agli impatti del cambiamento climatico, sia tra diversi Paesi che all’interno dei Paesi stessi, per cui le comunità socialmente, politicamente ed economicamente più svantaggiate, che hanno contribuito meno all’aggravarsi della crisi climatica, sono anche quelle che ne risentono maggiormente. Anche le politiche designate per far fronte ai rischi e alle conseguenze della crisi climatica distribuiscono i costi e i benefici (secondo e terzo tipo di ingiustizia) in modo disomogeneo, spesso riproducendo le disuguaglianze già esistenti. Il concetto di giustizia climatica (climate justice) mette infatti in risalto la necessità di prestare attenzione a chi sostiene i costi e chi riceve i benefici dell’azione – e dell’inazione – climatica. In generale, la giustizia climatica affonda le sue radici nella giustizia ambientale (environmental justice), ma rispetto ad essa presenta componenti più procedurali e sostanziali, che riguardano i processi attraverso i quali vengono formulate le politiche climatiche. Processi considerati equi dal punto di vista climatico incorporano il consenso informato attraverso una partecipazione pubblica più inclusiva, e forniscono l’accesso ai rimedi per correggere i danni che tali politiche potrebbero imporre a determinati gruppi di cittadini. Mentre gli studiosi di giustizia ambientale si concentrano sull’esposizione non uniforme ai rischi ambientali, i dibattiti intorno alla giustizia climatica includono anche riflessioni sulla distribuzione non uniforme dei benefici della transizione ecologica in modi che riproducono le disuguaglianze esistenti.
Cop 27: il nuovo fondo loss and damage e la risposta dei governi
Il concetto di giustizia climatica ha svolto un ruolo centrale durante la ventisettesima Conference of Parties (Cop 27), al termine della quale è stato raggiunto un accordo che prevede la creazione di un nuovo fondo “loss and damage” per aiutare i Paesi più vulnerabili agli effetti della crisi climatica. Dopo 30 anni di advocacy e respingimenti sulla questione, le argomentazioni a favore di un approccio nella cooperazione internazionale che si appoggi sulla giustizia climatica hanno avuto una chiara influenza sull’agenda politica. Nonostante gli attori umanitari l’abbiano definita una grande vittoria, i dettagli sul funzionamento dei fondi, tuttavia, devono ancora essere chiariti, e i risultati della Cop 27 sono stati definiti deboli in altre aree chiave, come i finanziamenti per le politiche di adattamento e le tematiche di genere.
La risposta alla crisi climatica non è solamente gestita dalle organizzazioni umanitarie, ma coinvolge in gran parte i governi. Guardando alle azioni dei singoli Paesi, il report del 2022 del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC), lo stesso che definisce la crisi climatica “la crisi umanitaria dei nostri tempi”, evidenzia le misure chiave che devono messe in campo urgentemente. Tra esse, vi è la necessità di porre fine dell’era dei combustibili fossili, preservare le foreste e gli ecosistemi, ascoltare coloro che stanno già subendo gli impatti della crisi climatica e continueranno a essere colpiti, garantendo che non siano costretti a sopportare il peso maggiore e che possano beneficiare di politiche di transizione giuste e eque, e di contrastare la crescente disinformazione digitale contro l’azione climatica.
Testo a cura di Aurora Bonini e Maria Luisa Zucchini.
Questo articolo è parte del progetto “Crisi umanitarie”. Per saperne di più leggete anche gli articoli precedenti: “Tutto quello che c’è da sapere sulle crisi umanitarie”, “Un mondo sempre più ingiusto: tutti i volti della schiavitù moderna”, “Sicurezza alimentare: il 2022 è il peggior anno di un trend negativo iniziato nel 2015” e “Importante eppure fragile: il diritto all’istruzione nel mondo”.