La cultura del sacrificio
L’improvvisa ascesa dell’economia giapponese che la portò nel secolo scorso a diventare la seconda del mondo, subì un arresto negli anni Novanta. Da allora, la ripresa è stata lenta e difficoltosa. Ciononostante, la Terra del Sol Levante rimane comunque la terza potenza economica a livello mondiale, dopo Stati Uniti e Cina, e dati come un tasso di disoccupazione molto basso, attualmente al 2,8%, contribuiscono ad accrescere la sua reputazione di nazione estremamente produttiva.
Dalla Seconda Guerra Mondiale, il Giappone ereditò l’occupazione americana e una forte voglia di riscatto. Il primo ministro Shigeru Yoshida (in carica dal 1946 al 1947 e poi ancora dal 1948 al 1954), pose al primo posto la ripresa economica del Paese e chiese ai lavoratori di promettere fedeltà alle proprie società in cambio di un’occupazione a tempo indeterminato (‘life-time employment’), benefit aziendali e aumenti consistenti. Questo periodo di rapida crescita creò sia una forza lavoro stabile che una cultura aziendale molto esigente, che persiste tutt’ora.
Pratiche come il nomikai, (letteralmente ‘incontro per bere’, evento con alcolici organizzato da un’azienda per il proprio staff la cui partecipazione non è obbligatoria ma fortemente raccomandata per la vita sociale) il non prendere tutti i giorni di ferie, l’evitare di darsi malati, dimostrano la pressione ad adattarsi e conformarsi. Rituali e regole di etichetta permeano la società giapponese in cui l’apparenza è fondamentale. L’abnegazione, il rispetto dell’autorità e la proiezione di sé nella società sono valori centrali: “(…) un equivalente sociale post bellico del messhi hoko [concetto patriottico dell’auto-annullamento al servizio dell’interesse pubblico] esiste ancora nel modo in cui i dipendenti giapponesi contemporanei si sacrificano devotamente alle loro aziende (kaisha) in modo da essere chiamati kigyo senshi, o guerrieri aziendali”.
Karoshi
A partire dagli anni Novanta, la pressione sociale e lavorativa a cui erano e sono sottoposti i lavoratori in Giappone emerse in maniera drammatica, con l’esposizione del problema del karoshi e la fondazione nel 1988 delle Karoshi Hotlines. Con il termine karoshi si indica la ‘morte per troppo lavoro’, ossia circostanze di morti improvvise correlate all’attività lavorativa. Nonostante sia difficile determinare il numero effettivo di episodi di questo tipo, si stima che i dati reali siano molto più elevati di quelli riportati nei documenti ufficiali. Nel 2005 il Ministero della Salute, del Lavoro e del Benessere rilevava 157 casi classificabili come “morte per eccesso di lavoro” (si intende qui morti per insufficienza cerebrale e cardiaca). Le richieste di compensazione per infortuni dovuti allo stesso motivo però erano molto più alte. Allo stesso modo, le domande di indennizzo per gli infortuni sul lavoro dovuti a disturbi mentali e conseguenti suicidi erano significativamente più alte dei casi poi certificati.
Inoltre, la fondazione Karoshi Hotline-National Defense Counsel for Victims of Karoshi riporta che ogni anno più di 10.000 persone muoiano in Giappone solo a causa di malattie cardiovascolari legate al lavoro.
Le morti sono considerate improvvise perché i lavoratori in questione non presentano problemi di salute precedenti. Si tratta principalmente di attacchi cardiaci e ictus, ma il problema comprende anche casi di suicidi, chiamati karo-jisatsu. Un’indagine di Reuters del 2016 rivelava che questo tipo di suicidi erano aumentati del 45% tra il 2012 e il 2016 tra i giovani lavoratori fino ai 29 anni, in prevalenza tra le donne.
Stupisce che si tratti spesso di impiegati giovanissimi, spesso appena usciti dall’università, i quali, tentando di dimostrare il proprio valore, lavorano fino allo sfinimento. Ne è un esempio il caso della reporter trentunenne Miwa Sado, vittima nel luglio 2013 di un’insufficienza cardiaca congestizia dopo che aveva lavorato oltre 150 ore di straordinari in un mese. O ancora, la vicenda di Matsuri Takahashi, 24 anni, dipendente di Dentsu (società pubblicitaria), toltasi la vita nel 2015. L’eccessiva quantità di lavoro l’avevano portata a postare su twitter di aver perso ogni emozione, tranne la voglia di dormire e di rendersi conto di non sapere per cosa stesse vivendo.
Cause e risposte governative
La forte pressione, i problemi sul luogo di lavoro e la mancanza di una rete di supporto adeguata sono tutti fattori che contribuiscono al rapido degrado della salute mentale e fisica degli impiegati, ma il problema cruciale è l’eccesso di ore di lavoro. Il segretario generale del Consiglio Nazionale di Difesa per le Vittime del karoshi Hiroshi Kawahito affermò che “Il vero problema è la riduzione dell’orario di lavoro, e il governo non sta facendo abbastanza [tradotto]”. Nel 2016 un sondaggio del Ministero del Lavoro riportò che in un’azienda su cinque i dipendenti oltrepassavano la cosiddetta “karoshi line”, ovvero facevano più di 80 ore di straordinari al mese, molte delle quali non retribuite.
Secondo la cultura del lavoro in Giappone inoltre, prendere giorni di ferie è considerato sottrarsi ai propri doveri, per cui la maggior parte dei lavoratori non sfrutta tutti i giorni di riposo a propria disposizione.
L’effetto combinato di questi elementi è il peggioramento dello stile di vita e, conseguentemente, l’incremento della probabilità di malattie. È noto che l’aumento del consumo di tabacco e alcool siano correlati con lo stress. In particolare, secondo uno studio trasversale condotto da N.Kawakami e T. Haratani, gli straordinari, il sovraccarico di lavoro e le scarse ricompense lavorative intrinseche erano associati al consumo problematico di alcol tra i lavoratori giapponesi. Inoltre, un più recente sondaggio di Foundation for a Smoke-Free World (FSFW) del 2019 aveva rilevato che il 37,2% fumatori in Giappone ritenesse di essere troppo stressato per poter smettere di consumare tabacco. Altre abitudini malsane legate al sovra-affaticamento e alla mancanza di tempo sono la diminuzione dell’attività fisica e la riduzione del sonno e l’alimentazione carente o scorretta.
I tentativi del governo di porre fine a questa situazione si concentrano sulla diminuzione dell’orario di lavoro. Nonostante la legge stabilisca un massimo di 40 ore alla settimana e 45 ore di straordinari al mese, esistono svariate eccezioni e scappatoie legali. Il governo ha tentato di imporre misure come un minimo di cinque giorni di ferie obbligatori all’anno o una fase di riposo tra la fine di una giornata lavorativa e l’inizio di un’altra. Altre iniziative meno convenzionali sono state sperimentate anche grazie alla partecipazione delle aziende, ad esempio i “Premium Fridays”, che incoraggiavano gli impiegati a lasciare gli uffici alle tre del pomeriggio l’ultimo venerdì del mese. Uno studio ha però rilevato che meno del 4% dei dipendenti è uscito in anticipo durante il primo “Premium Friday”.
Non solo in Giappone
Episodi di questo tipo, sebbene preponderanti nel mondo del lavoro in Giappone, avvengono anche al di fuori dell’isola Nipponica. Risale al 2014 il caso di un impiegato del Comitato di gestione della Commissione di regolamentazione bancaria cinese, Li Jianhua, morto dopo aver lavorato strenuamente per completare un report, e per questo glorificato dal Partito Comunista Cinese.
La cultura della iperproduttività tossica ha colpito anche l’Europa, come testimonia il caso del ventunenne Moritz Erhardt, deceduto durante un tirocinio alla Banca d’America Merrill Lynch, il quale lo sottoponeva ad orari estenuanti: la totale mancanza di riposo e lo stress accumulato provocarono una crisi epilettica.
Queste morti spaventano perché immotivate e prodotto di una cultura stacanovista riconoscibile oggi non solo nel mondo del lavoro in Giappone ma anche nel resto del mondo. La produttività a tutti i costi, anche a discapito della salute e del benessere dei lavoratori, non dovrebbe mai essere giustificata. Per questo serve essere coscienti dei rischi che tale mentalità comporta, se estremizzata, e non lasciarsi affascinare da un’immagine patinata ma che nasconde dei cupi risvolti.
*[crediti foto: Mohamed Hassan by Pixabay]