La riforma giudiziaria
Agli inizi di gennaio, dopo appena due mesi dalla vittoria elettorale, il ministro della giustizia Yariv Levin ha ufficialmente presentato alla Knesset, il parlamento monocamerale israeliano, un rivoluzionario progetto legislativo che, se approvato, modificherebbe radicalmente il sistema giudiziario. Nello Stato d’Israele, infatti, vigono 14 “leggi fondamentali” con validità de facto costituzionale e per modificare una qualsiasi di queste leggi o aggiungerne di nuove è sufficiente l’approvazione della maggioranza assoluta (50%+1) dei membri della Knesset.
Se messa in atto, la riforma di Levin permetterebbe alla Knesset di rendere nulla qualsiasi decisione della Corte Suprema con una maggioranza assoluta e cambierebbe il sistema di nomina dei giudici, compromettendo l’indipendenza del potere giudiziario. La Corte, nota anche come “Bagatz”, in Israele ricopre sia il ruolo di corte di ultima istanza (come la Corte di Cassazione italiana) sia quello di corte costituzionale, e dunque si trova al vertice dell’apparato giudiziario. Essa, infatti, ha il potere sia di ammendare che annullare leggi approvate dalla Knesset qualora i giudici ritengano che queste violino una qualsiasi delle leggi fondamentali.
Inoltre, la riforma della giustizia permetterebbe alla maggioranza parlamentare di concedere l’immunità giudiziaria al primo ministro Netanyahu, che al momento si trova sotto processo per corruzione. Netanyahu ha finora sempre negato di voler intraprendere una simile manovra.
La risposta della società israeliana
Secondo i sondaggi, una netta maggioranza della popolazione israeliana è contraria alla riforma della giustizia. Numerose proteste contro la proposta sono scoppiate nelle principali città israeliane coinvolgendo centinaia di migliaia di persone e degenerando spesso in scontri con le forze di polizia. I manifestanti temono l’erosione della democrazia e dello stato di diritto in Israele, protestando al grido di “Mai come l’Ungheria!”, e hanno trovato il supporto di numerose figure istituzionali. Le proteste vanno ormai avanti da 10 settimane e né la loro frequenza né la loro intensità sembrano diminuire, una delle più recenti ha registrato un numero di partecipanti vicino al mezzo milione in tutto lo stato ebraico, almeno 200,000 solo a Tel Aviv, così da essere definita da un giornale israeliano “la più grande protesta nella storia del paese”.
Persino alcuni esponenti dell’esercito esprimono un timido dissenso nei confronti della proposta governativa, mentre l’esecutivo ha finora costantemente accusato i manifestanti di essere degli “anarchici” intenti solo a creare disordini.
Altri stanno intanto cercando di mettere in guardia Netanyahu dal rischio posto dalla riforma all’economia israeliana. Centinaia di economisti, incluso un premio Nobel, hanno firmato una lettera inviata al primo ministro mettendolo in guardia dall’incertezza economica che la riforma potrebbe generare. Lo stesso avvertimento è stato comunicato al premier dall’attuale presidente della banca centrale israeliana. A confermare questi sospetti ci pensa l’industria high-tech, il fiore all’occhiello dell’economia israeliana. Numerosi imprenditori si sono ormai uniti alla protesta contro la riforma facendo intuire che loro potrebbero essere i primi ad espatriare in seguito alla sua approvazione, portandosi con sé sia il know-how sia gli investimenti nelle loro aziende che insieme fanno di Israele una delle economie più dinamiche e ricche al mondo.
Il governo sperava inizialmente di far approvare la riforma in tempo per la Pèsach, la Pasqua ebraica, ma la strenua opposizione ha rallentato il processo legislativo. Il capo dello stato Isaac Herzog, in una posizione convenzionalmente imparziale, ha di recente apertamente condannato con toni molto duri la proposta di riforma del governo, sostenendo che sia la maggioranza che l’opposizione debbano accordarsi su una legislazione alternativa. E’ la prima volta che Herzog si schiera apertamente in un dibattito politico, il presidente di Israele è infatti una figura molto simile al nostro Presidente della Repubblica, da cui ci si aspetta quindi una religiosa imparzialità.
Le possibili conseguenze per gli arabo-israeliani e i palestinesi
I grandi assenti nel fronte trasversale di opposizione alla riforma giudiziaria sono gli arabo-israeliani, i quali costituiscono poco più del 20% della popolazione all’interno dei confini israeliani internazionalmente riconosciuti. Gli arabi d’Israele accusano da decenni il governo di non comportarsi democraticamente e, dunque, un movimento di protesta contro la possibile erosione della democrazia israeliana appare ai loro occhi beffardo.
Nel frattempo la tensione nei territori palestinesi continua a salire incessantemente, il 2022 è stato l’anno più mortale per i palestinesi dal 2005 secondo un rapporto delle Nazioni Unite e a giudicare dal trend di inizio anno, il 2023 potrebbe concludersi con numeri anche peggiori.
Nonostante ciò, il governo non sembra fare molto per ridurre la tensione. Infatti, pochi giorni prima degli avvenimenti di Huwara, l’esecutivo ha legalizzato per la prima volta dal 2012 la costruzione di 9 insediamenti ebrei presenti da tempo in territorio palestinese. La decisione ha causato una forte condanna da parte della comunità internazionale, inclusi gli Stati Uniti, i quali sono riusciti a convincere Netanyahu a promettere di non procedere con ulteriori legalizzazioni in seguito a dei colloqui con l’Autorità Nazionale Palestinese, l’organo di governo in carica dei territori palestinesi.
Il ministro Bezalel Smotrich, responsabile dell’amministrazione civile degli insediamenti in Cisgiordania, non ha apprezzato l’iniziativa del premier e ha giurato di proseguire l’espansione delle colonie israeliane indipendentemente da quanto promesso da Netanyahu alle autorità palestinesi. L’episodio ha messo in dubbio la capacità del primo ministro di tenere a bada le frange più estremiste della sua coalizione di governo, nonostante Netanyahu stesso abbia ribadito di essere saldamente al comando e l’unico capace di contenere i radicali progetti politici dei suoi alleati.
Alla luce di tutto ciò, la riforma giudiziaria potrebbe rendere una situazione già precaria ancora più instabile aumentando il rischio di una guerra aperta. Il governo israeliano, infatti, non solo non sembra intenzionato ad abbassare la tensione, ma spesso pare incitarla attivamente. Il clima di instabilità potrebbe rafforzare il ruolo del governo e facilitare l’approvazione della riforma, alla quale il premier sembrerebbe stare dedicando maggiore attenzione e che, se approvata, potrebbe aprire la via ai suprematisti ebrei per l’instaurazione di un regime illiberale mettendo a rischio i diritti degli arabo-israeliani e l’integrità dei territori palestinesi.
*Una folla di circa 160,000 manifestanti marcia nelle strade di Tel Aviv contro la riforma del governo [crediti foto: Amir Terkel, via Wikimedia, CC BY-SA 3.0]