“Lo Stato di Amazonas, dove la maggioranza della popolazione è composta da indigeni, è al tredicesimo posto per numero di abitanti, ma quarto nella classifica degli Stati brasiliani con il maggior numero di pazienti Covid-19, che occupano oggi il 90% dei posti letto” racconta Cecilia Sala, giornalista, intervistata da Orizzonti Politici.
Una ricerca, pubblicata il 19 giugno dal Coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana (Coiab), evidenzia che il tasso di mortalità da Covid-19 (morti per 100mila abitanti) tra le popolazioni indigene è superiore del 150% rispetto alla media brasiliana.
Gli interessi dell’agribusiness
Secondo National Geographic, le popolazioni indigene costituiscono il 5% della popolazione mondiale e proteggono l’80% della biodiversità. L’Amazzonia si espande in 9 Stati dell’America Latina e per il 60% dentro i confini brasiliani. I terreni delimitati costituiscono il 13% della superficie totale brasiliana e negli ultimi anni sono stati presi d’assalto da deforestazione illegale, agricoltura intensiva e sfruttamento delle miniere. “Dove ci sono le riserve indigene, c’è ricchezza sottoterra”, aveva detto Bolsonaro durante la campagna elettorale del 2018, la cui vittoria è dovuta anche al sostegno della potente lobby agricola.
Nel suo primo giorno da presidente ha trasferito la responsabilità di demarcare le terre per le popolazioni indigene dalla Fondazione Nazionale dell’Indio (FUNAI) al Ministero dell’Agricoltura, regalando un’importante vittoria al settore agroalimentare, da solo responsabile del 21% del PIL brasiliano.
L’Amazzonia è da sempre stata soggetta a cicli economici predatori: dal caucciù del XIX secolo alla deforestazione e incendi attuali, per fare spazio ad allevamenti intensivi e coltivazioni di soia per mangimi animali. Il principale esportatore di prodotti agricoli in Europa è proprio il Brasile, primo nella classifica mondiale anche nell’esportazione di carne. L’Italia importa il 40% della soia dal Brasile; si tratta di soia che arriva dai porti sul Rio delle Amazzoni e sulla carta è certificata come “non proveniente dalle aree disboscate”. Il sistema non prende però in considerazione lo stato di Amazonas. Eppure in questa regione – scrive Andrea Palladino su L’Espresso– l’area destinata alla produzione di soia è aumentata del 47% nel 2018.
Il Brasile di Bolsonaro e l’ambiente
Secondo una ricerca del 2019 di Victoria Tauli-Corpuz, relatrice ONU, quando i territori delle comunità indigene sono delineati e i diritti rispettati, l’integrità delle foreste e la biodiversità sono mantenute in uno stato migliore. Considerando l’Amazzonia, si parla di un ecosistema che produce il 10% dell’ossigeno nell’atmosfera e capace di assorbire dai 90 ai 140 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. “Rispettare la terra, le risorse e i diritti di chi vi abita”, afferma Tauli-Corpuz, “è legato al raggiungimento degli obiettivi climatici internazionali.”
Il Brasile ha firmato l’accordo di Parigi del 2015 e si è impegnato a eliminare la deforestazione illegale entro il 2030. Inoltre, ci racconta Cecilia Sala, “il Brasile è il Paese in via di sviluppo più ambientalista del mondo e ha sempre investito in fonti di energia alternative nonostante la sua ricchezza di petrolio e minerali. Questo vale per i governi di destra, sinistra e per le giunte militari. Insomma, Bolsonaro è veramente un’eccezione”.
Durante il suo primo anno in carica, Bolsonaro ha ridimensionato l’applicazione delle leggi ambientali, diminuito la spesa pubblica per i controlli forestali e indebolito le agenzie federali che si occupano di ambiente, come si legge da un report di settembre 2019 di Human Rights Watch. Il budget del Ministero dell’Ambiente è stato ridotto del 23% e quello per l’attuazione della politica nazionale sui cambiamenti climatici del 95%. Sono stati licenziati 21 dei 27 direttori regionali di IBAMA (Istituto brasiliano dell’ambiente e delle risorse naturali rinnovabili), responsabili dell’approvazione delle operazioni anti-disboscamento.
Deforestazione illegale e rete criminale
Lo stesso report evidenzia come dietro la deforestazione sregolata ci sia una rete criminale organizzata, le cui violenze non sono un problema recente. Oltre a incendi e disboscamento illegale, si parla di riciclaggio di denaro, minacce a pubblici ufficiali e comunità indigene, invasione delle terre protette. Nell’ultimo decennio sono stati registrati più di 300 omicidi legati all’uso della terra e delle risorse, di cui solo 14 sono stati processati. Il problema principale è infatti l’impunità in cui operano le reti criminali, dovuta all’incapacità dello Stato di perseguire questi crimini.
Durante i primi otto mesi del mandato di Bolsonaro, le multe per infrazioni relative alla deforestazione sono diminuite del 38% rispetto allo stesso periodo del 2018, raggiungendo il numero più basso negli ultimi due decenni. Inoltre, a ottobre 2019 è stata introdotta una nuova procedura per le multe ambientali: i casi devono essere riesaminati in delle “udienze di conciliazione”. Il 20 maggio Human Rights Watch ha denunciato come questo abbia di fatto provocato la sospensione delle multe da ottobre 2019.
Alcuni dati sulla deforestazione: tra il 2004 e il 2012 era stata ridotta di oltre l’80%, passando da quasi 28.000 km² di foresta distrutte a meno di 4.600 km². I numeri hanno poi iniziato a crescere dal 2012, arrivando a superare i 10.000 km² nel 2019. Secondo l’Istituto brasiliano di ricerche spaziali (INPE) dal 2018 al 2019 la deforestazione in Amazzonia è aumentata del 30%. Nel 2020 la situazione sembra peggiorare: tra gennaio e aprile sono stati rasi al suolo 1.202 km² di foresta, il tasso di deforestazione è aumentato del 62% e all’interno delle aree di conservazione del 167%.
Una doppia minaccia
Quest’anno la catastrofe è doppia: agli incendi e alla deforestazione si aggiunge la pandemia. A maggio 2020 un report dell’INPE ha messo in evidenza che i problemi respiratori derivanti dalle polveri sottili del fumo sono aggravati dal Covid-19 e lo stesso vale in senso opposto. La contemporaneità di pandemia e incendi è una causa diretta del collasso del sistema sanitario e rappresenta un rischio composito per le comunità dell’Amazzonia.
A parlare di un vero e proprio genocidio è il fotografo Sebastião Salgado, in un appello per la “sopravvivenza delle comunità indigene” in cui denuncia “il taglio dei fondi per la tutela del territorio indigeno e la deforestazione selvaggia” e la nuova “invasione di cercatori d’oro, minatori e tagliaboschi”. Nel 2019 Bolsonaro era già stato denunciato alla Corte penale internazionale (Cpi) per “crimini contro l’umanità e incitamento al genocidio” dai giuristi della Commissione Arns e dal Collettivo legale per i diritti umani (CADHu).
La crisi ambientale e quella sanitaria, amplificate dal Covid-19, sono quindi collegate. Da un lato la pandemia ha diminuito i controlli, dando via libera alle operazioni di disboscamento, già incentivato dall’amministrazione Bolsonaro. Allo stesso tempo, il commercio illegale di animali e la devastazione di ecosistemi sono le forze motrici dietro i virus zoonotici. A dirlo è un report del WWF di giugno 2020, che evidenzia anche la provenienza delle malattie emerse dal 1990: per il 60% da patogeni animali. Nello stesso periodo, 178 mila ettari di foresta sono stati distrutti, per un’area equivalente a 7 volte il Regno Unito. Sempre secondo il report, “il rischio dello sviluppo di un nuovo virus zoonotico è ora più alto di sempre, con un potenziale distruttivo per l’economia, la sicurezza e la salute mondiale”. E un futuro virus secondo molti esperti potrebbe avere origine proprio in Amazzonia. “ Il Covid-19 è un segnale di avvertimento” ha affermato Inger Andersen, direttrice del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, “che ci ricorda quanto la salute dell’umanità dipenda da quella della natura”.