Da un lato, Pechino vuole proporre un modello di sviluppo che ricalchi quello applicato in Africa, mirando quindi a costruire infrastrutture – di cui il governo locale effettivamente necessita – in cambio degli appalti sulle attività estrattive. D’altro canto Washington, che ha già tentato di acquistare in blocco l’intero territorio più di una volta nella storia, sembra aver optato per un atteggiamento meno intrusivo, attento a non trascurare il progresso sociale, oltre che economico, della comunità groenlandese.
Il contesto: che cos’è esattamente la Groenlandia?
Storicamente abitata da Inuit provenienti dall’Alaska, l’isola più grande del mondo fu dapprima colonia norvegese, per poi passare sotto il controllo danese a partire dal 1814. Oggi è da considerarsi una nazione costitutiva del Regno di Danimarca, ossia una regione autogestita le cui politiche estera e securitaria sono però rimaste competenza di Copenhagen.
Nonostante l’estensione di oltre due milioni di chilometri quadrati (quasi otto volte la superficie dell’Italia), conta a malapena 60mila abitanti, dislocati in meno di venti centri abitati. Negli anni, l’amministrazione di Nuuk ha progressivamente ampliato la propria autonomia tramite una serie di referendum, l’ultimo dei quali nel 2008 ha garantito all’esecutivo la facoltà di decidere in materia di investimenti stranieri e gestione dei proventi derivanti dalle attività economiche, incluse quelle estrattivo-minerarie. Dettaglio, questo, non di poco conto, visto che finora la Groenlandia non è mai stata in grado di sostenersi finanziariamente da sola. Anzi, è sempre stata dipendente dai sussidi danesi, che ammontando a circa 470 milioni di euro all’anno costituiscono circa il 20% del prodotto interno lordo isolano.
Di conseguenza, Cina e Stati Uniti si trovano a fare i conti con un governo locale senz’altro debole, ma consapevole che per ottenere l’indipendenza de facto, oltre che de iure, non basti affidare il proprio sostentamento sullo sfruttamento delle risorse naturali.
Il rischio per Nuuk è quello di passare dalla padella alla brace, ovvero, di sostituire l’affidamento sui sussidi danesi con una nuova forma di dipendenza dall’attività estrattiva, esponendosi ai problemi tipici di un rentier state.
Un’isola del tesoro per Washington e Pechino
Non è un segreto che la Cina necessiti di materie prime per alimentare l’industria domestica, vera forza trainante della sue economia sin dagli anni Ottanta. In questa prospettiva, non c’è da stupirsi se gli occhi del Dragone si siano posati proprio sulla Groenlandia. Innanzitutto, si stima che essa ospiti nel proprio sottosuolo circa il 20% delle riserve naturali mondiali, tuttora largamente non sfruttate. Pare che sotto i ghiacci groenlandesi si trovino infatti oltre 44 miliardi di barili di gas naturale e 90 miliardi di barili di petrolio – l’Arabia Saudita, per avere un’idea, ne produce “solo” 3,5 miliardi all’anno.
Inoltre, la presenza di materiali come uranio e terre rare (tra cui oro, ferro, rame, criolite e zinco), cruciali per lo sviluppo di tecnologie all’avanguardia, ha giocato un ruolo importantissimo nell’avvicinamento tra la Repubblica Popolare e l’ormai ex colonia danese. Già da qualche anno, Pechino si è impossessata dell’importante miniera ferrea di Isua, vicino Nuuk, rilevandola da una compagnia londinese in bancarotta. Significativa è stata anche la costituzione di un consorzio sino-australiano per la gestione delle riserve di zinco e uranio presenti nell’altopiano di Kuannersuit, nei pressi della punta meridionale dell’isola, che andrebbe a consolidare il quasi-monopolio cinese nella produzione di questi materiali, oltre a destare ansie per possibili disastri ambientali – già causati in precedenza da Washington.
Ma la centralità della Groenlandia per i progetti espansionistici cinesi non si riduce esclusivamente alle sue appetibili risorse. Xi Jinping vede infatti l’isola come un tassello fondamentale nello sviluppo della rotta polare della Nuova via della seta. Nell’ottica di creare un collegamento marittimo con l’Europa che permetta di accorciare i tempi di trasporto delle merci nel Vecchio Continente, uno stretto legame con il governo di Nuuk permetterebbe a Pechino di avere un avamposto nel cuore dell’oceano atlantico, da oltre mezzo secolo considerato il cortile di casa della Casa Bianca.
A proposito di Casa Bianca, gli interessi di Washington nei confronti della regione autonoma danese hanno radici che vanno ben più indietro nel tempo. A partire dagli anni della Seconda Guerra Mondiale, nove basi militari statunitensi vi furono costruite per contrastare la presenza nazista sulla costa orientale dell’isola. Da allora, molte di queste furono mantenute in attività, sia a tutela delle miniere di criolite, sia come avamposto per tenere sotto controllo il fronte artico durante la Guerra Fredda e intercettare eventuali attacchi balistici dal Cremlino. Oltre a disporre apparecchiature radar, testate nucleari e preziose piste di decollo nel profondo Nord, Washington ha finora sfruttato tali insediamenti come piattaforme di espansione per costruire nuovi centri di ricerca scientifica nell’ambito del cambiamento climatico in tutto il territorio. Tutto ciò fu reso possibile solamente grazie alla storica alleanza con Copenhagen nel quadro NATO. Per gli americani dunque, gli interessi economici sono intervenuti solo in un secondo momento rispetto a quelli strategico-geopolitici, al contrario della Cina. Tuttavia, è inutile specificare che oggi non vi sia un americano che non desideri sottrarre il petrolio groenlandese a Pechino.
La posizione di Nuuk
A Nuuk, il confine tra la volontà di attrarre investimenti esteri e la tentazione di spalancare le porte al capitale cinese è piuttosto labile. Appaltare lo sfruttamento dei giacimenti e delle miniere groenlandesi ai colossi dell’Est ha tutte le sembianze di un accordo a mutuo beneficio: Pechino otterrebbe le risorse per sostenere la propria avanzata nell’economia globale, mentre la Groenlandia si assicurerebbe enormi flussi di denaro che, senza dubbio, le consentirebbero di svincolarsi definitivamente dal controllo di Copenhagen.
L’idea dell’autodeterminazione è un filo rosso che accomuna, pur con sfumature diverse, praticamente tutti i partiti presenti in Parlamento (Landsting): motivo per cui, almeno alla classe politica, fanno gola i miliardi di yuan che la Cina ha stanziato e ancora stanzierà.
Ciononostante, i bisogni dell’isola vanno ben oltre il rimpiazzo delle sovvenzioni danesi. Innanzitutto, un’eccessiva fretta nella transizione a un’economia basata sulle risorse naturali potrebbe cogliere la Groenlandia impreparata da un punto di vista politico e sociale. Secondo gli esperti, prima di avviare le attività estrattive bisognerebbe ammodernare il quadro normativo, in modo da garantire la loro trasparente ed efficiente amministrazione, e assicurare una gestione ottimale dei ricavi. Desta non poche inquietudini dunque la relativa inesperienza del governo groenlandese in materia di sfruttamento del sottosuolo. Laddove la regolamentazione è scarsa, le collaborazioni pubblico-privato e il senso di responsabilità dei colossi industriali giocano quindi un ruolo fondamentale. E non è scontato che Pechino abbia tali attenzioni.
In secondo luogo, sviluppare l’industria energetico-mineraria senza tentare di diversificare l’economia esporrebbe la regione ai rischi della cosiddetta “maledizione delle risorse”. Da un lato, la volatilità del mercato delle materie prime (troppo influenzabile dalle frequenti crisi petrolifere) causerebbe incertezza nel processo di crescita economica; dall’altro, seguendo la logica del Dutch disease, la massiccia esportazione di tali prodotti apprezzerebbe la moneta locale, favorendo l’import, ostacolando l’export, e in generale rendendo meno competitivi gli altri settori.
Infine, il sistema educativo locale non è ancora in grado di formare una manodopera sufficientemente qualificata, né una classe dirigente abbastanza competente da rivestire cariche di rilievo nell’industria o nella pubblica amministrazione. In altre parole, la popolazione groenlandese non riuscirebbe a soddisfare la nuova crescente domanda di posti di lavoro, i quali dunque verrebbero assegnati a personale straniero (perlopiù cinese), con forti ripercussioni sul piano sociale e dell’integrazione.
L’approccio americano è la soluzione?
In quest’ottica, non va quindi sottovalutata la recente mossa di Washington di inviare a Nuuk aiuti per oltre 12 milioni di dollari sotto forma di expertise.
Trattandosi di una cifra relativamente esigua, ad aprile l’atto è passato quasi del tutto inosservato. Eppure, mirando specificamente a supportare istruzione, turismo e industria mineraria, l’assistenza statunitense potrebbe nel tempo offrire alla Groenlandia l’occasione di autodeterminarsi, e contribuirebbe a diversificare l’economia, accrescere il capitale umano e promuovere uno sviluppo sociale che permetta di evitare il passaggio da una forma di dipendenza (quella dai sussidi danesi) a un’altra (quella dalle rendite del petrolio).
Chiaramente l’interesse della Casa Bianca per l’isola è forte, come testimoniato dagli svariati tentativi di acquisto già effettuati. Gli aiuti americani non sono quindi disinteressati, ma fornire alla Groenlandia ciò di cui essa realmente necessita garantirebbe a Washington il favore di Nuuk, e un vantaggio politico su Pechino nella Corsa all’Artico.
Molto dipenderà da dinamiche interne al Landsting e dalla fretta dei governanti groenlandesi di svincolarsi da Copenhagen: la Cina offre guadagni immediati e incertezza futura, gli USA, forse, un progetto più ad ampio respiro. Le sorti della Corsa all’Artico passano anche e soprattutto da qui.
Articolo scritto in collaborazione con Stefano Mazzola