Le elezioni presidenziali in Iran, tenutesi lo scorso 18 giugno, sono state vinte da Ebrahim Raisi, eletto con 17,9 milioni di preferenze (il 61,95% dei votanti) e destinato a entrare ufficialmente in carica il 3 agosto. L’elezione di Raisi ha portato a un consolidamento in senso conservatore del sistema iraniano, in piena continuità ideologica con la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei.
Ad oggi, il Paese si trova a fare i conti con una certa fragilità economica, aggravata nell’ultimo anno dalla pandemia da Covid-19. Le difficoltà economiche hanno aggravato la frattura tra il governo e i cittadini e causato una diffusa apatia politica tra gli iraniani. In questa tornata elettorale, gli aventi diritto erano 59,3 milioni, ma solo il 48,8% ha partecipato: si è trattato della percentuale più bassa dalla nascita della Repubblica islamica.
Alle incognite interne si sommano quelle relative all’approccio che la nuova presidenza Biden adotterà nei confronti dell’Iran a seguito della ripresa, lo scorso 6 aprile a Vienna, dei colloqui volti a salvare l’Accordo sul nucleare (Jcpoa) del 2015.
Chi è Ebrahim Raisi
Raisi non è un volto nuovo della politica iraniana e ha un passato piuttosto controverso. Già candidato alle elezioni presidenziali del 2017, perse contro il moderato e l’attuale Presidente uscente Hassan Rouhani. Ex membro del Consiglio dei Guardiani, gode del forte sostegno l’ayatollah Ali Khamenei.
Ricoprì la carica di giudice nel tribunale rivoluzionario di Teheran al termine della guerra Iran-Iraq (1980-1988), presiedendo il cosiddetto “comitato della morte”. Tale organo, voluto da Khomeini per processare e condannare a morte gli oppositori politici, aveva come principali obiettivi i membri dei Mujaheddin del popolo iraniano (o Esercito di Liberazione Nazionale dell’Iran), e i militanti del Tudeh, il Partito Comunista iraniano.
L’incarico di vertice all’interno del tribunale rivoluzionario valse a Raisi l’appellativo di “macellaio di Teheran”. Per questo episodio e per altre violazioni dei diritti umani nel 2019 fu messo sotto sanzioni dagli Stati Uniti. Raisi è inoltre ritenuto il responsabile di repressioni brutali durante svariate ondate di protesta, tra cui anche quelle portate avanti dal movimento Onda Verde nel 2009.
Nuovo presidente, vecchie sfide
Il nuovo presidente sarà chiamato ad affrontare diverse sfide, dal rilancio dell’economia nazionale alle delicate questioni di politica estera. Tra queste, due tematiche centrali saranno il ripristino dei rapporti diplomatici con le altre potenze della regione (specialmente Arabia Saudita e Israele) e la ripresa dei dialoghi nel quadro dell’Accordo sul nucleare del 2015.
Le sanzioni imposte dal governo americano gravano pesantemente sull’economia iraniana, piegata dal costante aumento dell’inflazione ma anche dalla corruzione endemica e dalla difficoltà del governo nell’adottare misure adeguate a risollevare la situazione economica.
Nonostante l’economia iraniana sia cresciuta dopo quasi tre anni di contrazione – il Pil ha registrato nel 2020 un debole aumento dell’1,5%, che si dovrebbe rafforzare leggermente quest’anno (+2,5%) – è difficile intravedere un ritorno alle condizioni di vita pre-crisi.
In questo contesto, sembrerebbe inoltre poco probabile che una ipotetica risoluzione del Jcpoa porti a nuovi investimenti esteri a breve termine, poiché le aziende ancora esitano a scommettere nel mercato iraniano. Il successo di Raisi sarà dunque giudicato principalmente in base alla sua capacità di favorire un importante cambiamento nell’economia del Paese.
Come cambia la politica estera dell’Iran
L’elezione di Raisi comporta una svolta decisiva nella politica estera iraniana. Il neo-presidente (nonché capo del sistema giudiziario) è chiamato a portare il Paese fuori dalla gravissima recessione economica che da anni attanaglia l’economia nazionale, e che era stata aggravata dalla decisione dell’ex-presidente Donald Trump di ritirarsi unilateralmente dal Jcpoa.
In quest’ottica infatti, la rimozione delle sanzioni internazionali contro Teheran è il tassello attorno a cui ruota oggi la geopolitica regionale. L’obiettivo è raggiungibile solo grazie a un nuovo accordo con gli Usa, e gli addetti ai lavori di Vienna, fanno filtrare una certa dose di ottimismo.
L’avvicendamento alla presidenza iraniana non è stata certo una sorpresa. L’elezione di Raisi era data per scontata, e la strategia della Casa Bianca ne ha tenuto conto. Le negoziazioni indirette tra le parti in corso nella capitale austriaca sono state organizzate in modo da garantire una certa continuità tra l’approccio alla questione dell’amministrazione iraniana uscente, e quello dell’amministrazione che si appresta a entrare in carica.
I “falchi” e il nucleare
Se la firma dell’accordo del 2015 era stata infatti appannaggio della fazione moderata, capeggiata dal presidente Hassan Rouhani, ora toccherà al conservatore Raisi scrivere un nuovo capitolo della storia della Repubblica Islamica. Nonostante i conservatori non abbiano risparmiato critiche e attacchi nei confronti dell’ex-amministrazione moderata per avere accettato una limitazione del programma nucleare, denunciando forme di tradimento, in campagna elettorale Raisi ha detto chiaramente: “[…] che non si dica che io mi oppongo a un accordo sul nucleare”.
La storia delle relazioni internazionali in Medio Oriente ha già presentato esempi di “falchi”, ovvero esponenti della fazione più conservatrice, diventati poi politici di compromesso: fu Menachem Begin, primo presidente di destra israeliano, l’artefice della pace di Camp David con l’Egitto del 1979. Ciò fa pensare che una dinamica simile potrebbe riproporsi nell’Iran di Raisi.
La firma di un presidente conservatore sull’accordo per il nucleare permetterebbe di avere quel sostegno da parte dell’establishment politico che i moderati di Rouhani non potevano certo contare di ottenere. In primis, la Guida suprema Ali Khamenei ha appoggiato, indirettamente, il nuovo round negoziale in corso a Vienna. Inoltre, l’apparato degli oltranzisti e dei Guardiani della rivoluzione è legato a Ebrahim Raisi da un forte legame di fiducia, motivo per cui quest’ultimo potrebbe agilmente superare gli ostacoli interni.
Una strada a ostacoli
Permangono tuttavia delle incognite, che andranno risolte nel corso dei prossimi mesi. La prima riguarda i tempi: c’è la volontà, da parte dei partner negoziali occidentali, di ottenere una firma nel minor tempo possibile, lasciando a Teheran il tempo di gestire il cambiamento alla presidenza ma evitando di ossidare il negoziato. Fonti anonime dell’amministrazione Usa hanno recentemente dichiarato che, nel caso in cui le divergenze con l’Iran non venissero ridotte nell’immediato futuro, la Casa Bianca sarà costretta a cambiare approccio. Anche Francia, Germania e Regno Unito hanno ammonito Teheran, sostenendo l’impossibilità che i colloqui si protraggano a tempo indefinito.
Dal punto di vista tecnico, è già stato ottenuto un buon risultato al tavolo negoziale, dal momento che l’Iran avrebbe accettato di tornare ai paletti imposti dal Jcpoa e gli Usa di rimuovere le sanzioni da loro imposte nel 2018.
Il problema principale sembra essere dato dal fatto che gli iraniani si aspettano garanzie per quello che riguarda un eventuale (nuovo) ritiro americano in futuro, dal momento che il mandato di Joe Biden scade tra soli quattro anni. Il costo per l’Iran di una tale decisione sarebbe infatti altissimo. Allo stesso tempo però, la Casa Bianca chiede che Teheran si impegni in nuovi colloqui che riguarderebbero la sicurezza della regione mediorientale e il programma missilistico iraniano. Sul tema gli iraniani ha risposto con un secco veto.
Il pressing dei nemici regionali
Nel mentre, i nemici dell’Iran nella regione, Israele in primis, temono fortemente la firma di un nuovo accordo.Negli ultimi quattro anni l’intelligence israeliana era riuscita ad approfittare del deterioramento dei rapporti tra Trump e il governo di Teheran, agendo unilateralmente contro la Repubblica Islamica.
Il Mossad e le altre agenzie di sicurezza israeliane sono stati responsabili di svariati attacchi informatici e militari diretti contro strutture sensibili dell’industria nucleare iraniana, cui si aggiunge il coinvolgimento, più o meno diretto, negli omicidi mirati di Mohsen Fakhrizadeh, scienziato responsabile del programma atomico, e del generale Qasem Soleimani.
Per Tel Aviv, la distensione tra Biden e Raisi e il potenziale ripristino del Jcpoa potrebbe comportare infatti un’accelerazione del programma nucleare di Teheran, e dunque un ulteriore passo in avanti verso l’ottenimento di armamenti nucleari che metterebbero a serio rischio la sicurezza nazionale israeliana.
Articolo a cura di Stefano Mazzola e Anthea Favoriti