Con il termine “corsa all’Africa” ci si riferisce alla spartizione di questo continente da parte delle potenze europee, avvenuta tra il 1880 e l’alba della prima guerra mondiale. Già allora si parlava di imperialismo informale, caratterizzato dal controllo dei territori africani attraverso l’influenza militare ed economica, piuttosto che con un governo diretto.
Probabilmente, il pretesto della corsa alla colonizzazione dell’Africa fu dato da Leopoldo II, re del Belgio: per realizzare una colonia privata, egli occupò la via privilegiata lungo il fiume Congo, il che incentivò la Francia a creare il proprio dominio dall’altra parte del corso d’acqua. La contesa per l’uso del fiume fu appianata solo nel 1884-1885 durante la conferenza di Berlino (detta anche Conferenza del Congo): il cancelliere tedesco Otto von Bismarck, agendo come mediatore, spartì l’Africa a tavolino, letteralmente disegnando i confini con matita e righello, senza tenere conto della presenza di popoli ed etnie sul territorio. Non stupisce quindi come mai i confini africani siano così netti, non frastagliati come i nostri.
In tutto ciò, il Congo di Leopoldo II, dopo essere stato suddiviso con la Francia lungo il fiume, fu nominato (ironicamente) Stato Libero del Congo e divenne un regime dittatoriale persecutorio nei confronti dei nativi. Nel 1908, date le pressioni dell’opinione pubblica, il re rinunciò al controllo personale della colonia, che assunse il nome di Congo Belga e caratteristiche più pacifiche.
Le Repubbliche Democratica e Popolare del Congo
Il processo di decolonizzazione (formalmente cominciato nel 1947 e terminato nel 1999) rappresentò per le due potenze antagoniste della guerra fredda l’opportunità di assoggettare nuovamente l’Africa: da un lato gli USA si impegnavano a sostenere gli Stati che intendessero resistere ai tentativi di assoggettamento dell’URSS, mentre quest’ultima creò un blocco di regimi comunisti, incoraggiando una strategia di omologazione e sovietizzazione, accompagnata dall’allettante promessa di una massiccia industrializzazione e sviluppo.
Dalle sfere di influenza americana e sovietica si estraniava proprio l’Africa che, con la Conferenza di Belgrado del 1961 e lo schieramento sorto successivamente a Bandung (a cui si aggiunsero Cina e Yugoslavia), assunse una posizione di “non allineamento”. È in questo periodo che nasce il termine Terzo Mondo, per distinguerlo dal Primo Mondo dell’Occidente e dal Secondo Mondo dell’Est europeo.
Tuttavia, questa estraneità era tanto ammirabile quanto puramente formale: per esempio, la Repubblica Democratica del Congo, nata dall’ex-Congo belga nel 1959, prese istanze filo-capitaliste mentre la Repubblica del Congo, figlia dell’ex-Congo francese, cadde vittima delle allettanti promesse dell’URSS e divenne una repubblica popolare di stampo nettamente marxista-leninista fino al collasso dell’URSS.
Il Congo Cinese
Una nuova contesa per le risorse africane è in corso e vede competere gli stati occidentali, prima fra tutti l’America, contro la Cina, seguita dall’India, quali nuovi protagonisti di quello che oggi viene definito neocolonialismo o “land-grabbing”: l’accaparramento di terreni, miniere, risorse energetiche, spesso tramite accordi segreti stipulati tra acquirenti e autorità di governo locali.
La Cina è attualmente in testa a questa corsa all’Africa: data la strategia Go Global, più di 800 mila cinesi oggi vivono e lavorano in Africa, detenendo il monopolio del rame in Zambia, del petrolio in Sudan e Angola, del legname in Mozambico. In effetti, dal 2000 al 2015 la Cina ha erogato finanziamenti per oltre 95 miliardi di dollari agli stati africani e le imprese cinesi gestiscono circa il 12% della produzione industriale del continente. Tutti questi investimenti rientrano nel disegno cinese “One Belt One Road”, come spiega l’articolo “La Nuova Via della Seta: l’Eurasia sotto l’Ala del Dragone”: se da un lato questo progetto enfatizza obiettivi di sviluppo e cooperazione, dall’altro ha un secondo fine imperialistico, per espandere la sfera di influenza cinese a partire proprio dall’Africa. Per esempio, la Cina ha comprato a maggio 2016, per 2,65 miliardi di dollari, la miniera di Tenke nel sud-est della Repubblica Democratica del Congo. Secondo il Financial Times, ciò ha dato a Pechino il controllo del 62% del mercato mondiale del cobalto, fondamentale per le batterie delle auto e degli smartphone.
Non tutto il male vien per nuocere: si potrebbe pensare che i finanziamenti stranieri possano fornire ai paesi africani le conoscenze tecniche e i mezzi necessari per liberarsi dalla povertà e dal sottosviluppo. Purtroppo non è così: il problema risiede proprio nel fatto che le aziende straniere delocalizzate in Africa si assicurano la maggior parte dei profitti e impediscono un reale trasferimento delle competenze tecniche ai lavoratori africani. Di fatto, questo fenomeno non si differenzia dall’imperialismo di vecchio stampo, nel senso che non è caratterizzato da un modello produttivo o trasformativo dell’economia africana, quanto banalmente estrattivo. Non a caso, i paesi che ricevono più investimenti stranieri non sono quelli con i più alti indici di democrazia o trasparenza (la Rubrica Accademica spiega come Misurare la Democrazia), ma quelli ricchi di petrolio o minerali. Tutto ciò, quindi, non fa altro che rinforzare i regimi autocratici, a discapito della democrazia.
In effetti, il governo cinese, facendo leva sul suo precedente status di “vittima” della colonizzazione da parte delle potenze occidentali, cerca di simpatizzare con gli africani e continua a diffondere l’idea secondo cui la democrazia sia un concetto del tutto occidentale, non indispensabile allo sviluppo. Tra l’altro, il suo rapporto con il continente nero si differenzia da quello delle democrazie occidentali per il “principio di non interferenza”, che garantisce ai paesi africani prestiti ed investimenti non condizionati al rispetto dei diritti umani e alla trasparenza degli affari governativi, purché sia mantenuta la stabilità interna.
L’Africa può partecipare alla corsa per l’Africa?
A detta dell’Economist, gli africani possono ancora farsi valere, considerando che entro il 2025 ci saranno più africani nel mondo che cinesi e questo rappresenterà un vasto mercato, ma anche una voce con un peso significativo alle tavole dei negoziati.
Per vincere una tale sfida, a cui prima d’ora non hanno mai partecipato, i votanti africani dovranno dare più peso alla trasparenza ma, soprattutto, gli stessi leader dovranno cominciare a pensare strategicamente: la Cina è un solo paese, mentre in Africa ce ne sono 54. Sarà più difficile stringere accordi vantaggiosi se permetteranno al gigante asiatico di negoziare individualmente con loro dietro porte chiuse. Anche se l’unità Africana è tutt’ora un miraggio lontano, unire le forze sembra l’unica risposta per arrivare primi ad una corsa che non hanno mai vinto.