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Perché le sanzioni Usa contro l’Iran sono un problema internazionale

Tempo di lettura stimato: 7 min.

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Le sanzioni Usa contro l’Iran sono da sempre un tema al centro del dibattito internazionale, essendo motivate da interessi strategici, politici ed economici, e rappresentando uno strumento di pressione politica sul piano interno così come estero. 

Secondo la Carta delle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha la facoltà di applicare misure che non contemplino l’uso della forza, al fine di intervenire per rendere efficaci le proprie decisioni. Il più delle volte, questo concetto si traduce nell’applicazione di sanzioni di natura economica che portano all’interruzione, parziale o totale, degli scambi commerciali con un Paese e il successivo congelamento dei beni statali e dei suoi più alti rappresentanti all’estero. L’art. 48 specifica tuttavia come tali misure debbano essere implementate da tutti i membri delle Nazioni Unite – o, in taluni casi, da alcuni di questi – tramite le agenzie Onu preposte e competenti di cui i membri stessi fanno parte. In altre parole, le Nazioni Unite riconoscono e legittimano solamente le sanzioni “multilaterali”, mentre escludono quelle imposte unilateralmente da singoli Stati. 

L’Iran e l’origine delle sanzioni internazionali 

Le sanzioni primarie e secondarie imposte dalle amministrazioni americane contro l’Iran tendono a eludere le convenzioni della Carta delle Nazioni unite. La decisione dell’amministrazione Trump di ritirarsi dall’accordo sul nucleare iraniano e imporre, unilateralmente, sanzioni economiche contro l’Iran, non è infatti concepita all’interno del quadro giuridico dell’Onu

Da strumento internazionale pensato per imporre a un Paese terzo ottemperanza e adempimento allo status quo internazionale, gli Usa hanno trasformato le sanzioni in un espediente per rafforzare la propria politica estera. La nuova ondata di sanzioni che ha colpito l’Iran a partire dal 2018 ha aggravato sensibilmente la crisi economica in corso nel Paese, non riscuotendo tuttavia grande successo per quello che riguarda la riduzione dell’influenza iraniana nella regione mediorientale.

Il 1979 è lo spartiacque storico della geopolitica mediorientale. È l’anno dell’invasione sovietica dell’Afghanistan e della presa del potere in Iran da parte degli ayatollah. La rivoluzione iraniana, culminata con la crisi degli ostaggi all’ambasciata americana di Teheran, segna il definitivo punto di non ritorno dei già compromessi rapporti iraniani con la Casa Bianca. È così che dal 1980 in poi, le varie amministrazioni americane hanno messo in campo una politica di “massima pressione nei confronti del Paese, volta alla creazione delle premesse necessarie per un cambio di regime. Questa strategia si basa su due pilastri: il sostegno, politico, militare e finanziario, ai principali avversari di Teheran nella regione, ovvero Israele e il fronte capeggiato dall’Arabia Saudita, e l’imposizione di un sistema di sanzioni internazionali volto a soffocare l’economia nazionale.

Un regime che perdura da quarant’anni

Il primo passo fu l’ordine esecutivo 12170, emesso da Jimmy Carter proprio in seguito all’assalto all’ambasciata Usa di Teheran. Vennero congelati circa 12 miliardi di dollari in attività iraniane, inclusi depositi bancari, oro e altre proprietà. Nel 1984 fu introdotto l’embargo alla vendita di armi e a qualsiasi forma di assistenza americano nei confronti dell’Iran. Nel 1995 Bill Clinton vietò ogni forma di scambio commerciale tra gli Usa e l’Iran. Sempre nel 1995, il Congresso approvò l’Iran-Libya Sanctions Act (Ilsa), secondo cui tutte le società straniere che avessero fornito investimenti superiori a 20 milioni di dollari per lo sviluppo di risorse petrolifere in Iran, sarebbero state sanzionate.

Nel 1997, in concomitanza con l’elezione di Khatami, si verificò un allentamento del regime sanzionatorio, essendo quest’ultimo un esponente del fronte moderato aperto al dialogo con gli Usa. La vittoria elettorale di Mahmud Ahmadinejad nel 2005 cancellò tuttavia i passi avanti compiuti dal suo predecessore. Uno dei suoi primi provvedimenti fu la revoca della sospensione del processo di arricchimento dell’uranio, in violazione all’accordo firmato pochi anni prima con l’Ue e l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Iaea). La violazione di tale accordo portò a nuove sanzioni e al congelamento, da parte degli Usa, dei beni delle persone collegate al programma nucleare iraniano. 

Il Jcpoa, l’accordo sul nucleare iraniano

La firma del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) nel 2015 ha stabilito la revoca delle sanzioni internazionali e di quelle secondarie a carico dell’Iran, in cambio dell’interruzione del programma di arricchimento dell’uranio nelle centrali nucleari del Paese. Il trattato era a tutti gli effetti lo strumento che avrebbe contribuito a una stabilizzazione della regione, dal momento che avrebbe rappresentato lo strumento per una riappacificazione non solo politica, ma anche economica, di Teheran con l’Occidente. Nonostante per i tre anni successivi l’Iran abbia rispettato tutti gli accordi, dalle ispezioni nei siti nucleari alla riduzione del processo di arricchimento, l’allora neo-presidente Donald Trump fece in modo che gli Stati Uniti si ritirassero unilateralmente dall’accordo, ripristinando ogni tipo di sanzione precedentemente imposta dalla Casa Bianca su Teheran. 

Con l’Iranian Transactions and Sanctions Regulations (ITSR), approvato a metà anni ‘90, nessun soggetto fisico e giuridico statunitense è autorizzato a intraprendere transazioni commerciali con l’Iran. Le sanzioni in questione vengono definite primarie, sono in vigore ancora oggi e non sono mai state abolite, nemmeno in occasione della firma del Jcpoa. Ad essere reintrodotte sono state invece le sanzioni secondarie, dirette a colpire i soggetti fisici e giuridici non americani che intrattengono relazioni commerciali con Teheran. Queste erano state adottate nel 2012, per poi essere abolite nel 2015. Il loro obiettivo è quello di “strangolare” l’economia iraniana, dal momento che impediscono all’Iran l’approvvigionamento di beni e tecnologia occidentale e, allo stesso tempo, scoraggiano le banche e gli Stati europei dal trattenere qualsiasi tipo di rapporto commerciale con il Paese. Le sanzioni vietano infatti le esportazioni di petrolio e altre materie prime, su cui si basa l’economia iraniana, e sono all’origine della gravissima crisi economica in cui è precipitato l’Iran negli ultimi anni. 

L’assist di Washington a Pechino 

La decisione americana di ritirarsi unilateralmente dall’accordo è stata un duro contraccolpo non solo per Teheran, ma anche per l’Unione europea. Tra i principali sostenitori dell’accordo, Bruxelles ha fortemente criticato la scelta di Washington, creando uno strumento giuridico che protegge le aziende europee dalle sanzioni secondarie Usa, stabilendo che l’Iran non è sottoposto ad alcun tipo di embargo e che dunque è concesso commerciare con soggetti e imprese iraniane. In pratica però, le contromisure messe in atto dagli Stati Uniti impediscono a chiunque di investire in Iran, determinando un embargo de facto

Dal 2019, l’Iran ha ripreso a pieno regime il programma di arricchimento nucleare, lamentando il non rispetto degli accordi da parte americana. Inoltre, nel marzo 2021 Teheran ha firmato una partnership venticinquennale con Pechino, offrendo petrolio in cambio di investimenti finanziari e non solo. L’Iran rappresenta infatti un tassello fondamentale per il completamento della nuova Via della Seta promossa dal governo cinese, motivo per cui la rottura con gli americani è stata accolta con favore in Cina. In tutto questo, i Paesi europei si sono visti privare di un importante spazio commerciale. 

Elezioni presidenziali in arrivo 

Recentemente però, il nodo delle sanzioni americane è tornato al centro del dibattito internazionale, in corrispondenza di due eventi di cruciale importanza. In primis, l’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca ha cambiato le carte in tavola. Il presidente ha espresso la volontà di rimettere in moto il Jcpoa, di cui è stato tra i principali fautori quando era vice di Barack Obama. Tuttavia, la volontà di Biden potrebbe non bastare. Le imminenti elezioni presidenziali iraniane, in programma il 18 giugno, rischiano di far arenare sul nascere questa possibilità. Le speranze di una nuova vittoria dei moderati appaiono molto risicate: la presidenza Rouhani ha costruito la sua esistenza attorno al ripristino dei rapporti con gli americani e i loro alleati, motivo per cui il fallimento del Jcpoa rappresenta un scoglio difficilmente superabile. La grave crisi economica che affligge il Paese, gli effetti della pandemia del Covid-19 e una crescente disillusione della popolazione nei confronti del sistema politico nazionale fanno pensare che a trionfare saranno i conservatori. Attualmente, il favorito alla presidenza è Ebrahim Raisi, attuale capo del sistema giudiziario, legato alla Guida Suprema Khamenei.

Per il momento sono ripresi i colloqui a Vienna tra i firmatari dell’accordo. Joe Biden ha fatto sapere di essere pronto a rimuovere le sanzioni imposte dall’amministrazione Trump nel maggio 2018. I negoziatori iraniani chiedono che si proceda anche alla rimozione di altre misure, ovvero le sanzioni imposte a Teheran a causa dell’accusa di essere uno sponsor del terrorismo transnazionale. L’amministrazione americana colpisce infatti la Banca centrale iraniana e le principali compagnie petrolifere, accusandole di gestire i trasferimenti di denaro verso organizzazioni come Hamas e Hezbollah. È un nodo estremamente delicato, dal momento che non rappresentano misure direttamente collegate al processo negoziale in corso a Vienna in queste settimane. Sebbene dunque non siano tecnicamente in contrasto con l’accordo sul nucleare, la loro esistenza è incompatibile con il prezzo politico che Teheran dovrebbe accettare decidendo di limitare lo sviluppo del suo programma nucleare. 

 

Questo articolo è il primo di una serie sulle sanzioni internazionali. Clicca qui per leggere l’analisi successiva “Le sanzioni alla Cina e alla Russia sono davvero “smart”?”.

*Iraniani in strada nel corso delle proteste che hanno portato alla rivoluzione del 1979 [crediti foto: Wikimedia Commons, Public Domain]
Stefano Mazzola
Milanese, nato nel 1998. Appassionato di politica e Medio-Oriente, studio Relazioni Internazionali all’Università Bocconi di Milano. Il primo libro che mi hanno regalato a cinque anni era una raccolta delle bandiere del mondo e, dopo averle imparate tutte, ho capito che per essere felice ho bisogno di esplorare. Nutro una passione sfrenata per le rivoluzioni e amo raccontarle.

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