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Così l’instabilità di Israele può far risorgere Netanyahu

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Il 20 giugno la coalizione-esperimento anti Benjamin ”Bibi” Netanyahu è fallita, portando a cadere il governo ad un anno esatto dalla sua entrata in carica, e riportando l’instabilità in Israele. Un anno fa, il curioso mix di governo formato da otto partiti e gruppi ideologicamente appartenenti all’intero spettro politico – centristi, social-democratici di sinistra, sionisti laici, estrema destra e per la prima volta una lista unita di partiti arabi – si era rivelato un esperimento politico ammirato anche in Occidente, dove la politica si nutre sempre più di polarizzazione e il compromesso è difficile da raggiungere. Mentre i partiti all’opposizione cercheranno di sbarrare la strada all’ex primo ministro alle prossime elezioni di novembre 2022, il consenso per Netanyahu sembra essere nuovamente cresciuto. 

Le contraddizioni e l’instabilità della politica israeliana 

Il primo ministro Naftali Bennett, religioso nazionalista frontman del partito Yamina (‘’A destra’’) e un tempo capo della commissione sui settelments nella West Bank, ormai da mesi era appeso ad una maggioranza risicata in Parlamento attaccata ad un solo voto (61 su 120), causando una forte instabilità nel Paese. Tuttavia, non è stata la defezione dell’ultimo deputato a far crollare la coalizione, ma una dichiarazione congiunta dello stesso con il ministro degli Esteri, Yair Lapid, di sciogliere il governo, vista la sfiducia degli elettori e l’impossibilità di governare su alcune questioni cruciali. 

Tra queste, la coalizione non è riuscita a trovare un compromesso sul progetto di sicurezza collettiva israeliana, che riguardava la proroga all’applicazione della legge civile israeliana ai settlers israeliani nella West Bank. In quest’area attualmente vivono attualmente circa 450 mila israeliani (settlers), i quali, pur trovandosi al di fuori dei confini legittimi, godono della giurisdizione civile israeliana. Al contrario, i circa 2 milioni e 700 mila civili palestinesi che vivono negli stessi territori sono soggetti alla legge marziale. Paradossalmente, la proroga non è stata approvata proprio da quei partiti di destra supportati dai settlers, tra cui Likud, con l’intento di ostacolare Bennett. Il governo di Bennett negli ultimi mesi ha perso anche la fiducia dell’elettorato, dovendo affrontare una nuova ondata di otto attacchi terroristici nelle maggiori città israeliane, culminati con una rappresaglia dell’esercito israeliano (IDF) a Jenin, roccaforte di Hamas nel nord della West Bank, continui raid dell’IDF nella Spianata delle Moschee a Gerusalemme e con l’assassinio mirato di Shireen Abu Akleh, giornalista icona della resistenza palestinese. 

Dall’instabilità in Israele si riaffaccia Netanyahu nella Knesset 

Il fallimento della coalizione anti Netanyahu porterà gli israeliani alla quinta tornata elettorale in meno di 4 anni. Nel frattempo, Bennett sarà rimpiazzato dal ministro degli Esteri Lapid, con cui aveva pattuito l’avvicendamento della carica da primo ministro al termine dei primi due anni della legislatura. Lapid, leader del partito liberal-laico Yeash Atid (‘’C’è un futuro’’), dovrà traghettare l’esecutivo alle prossime elezioni legislative che si terranno il primo novembre 2022

Il sistema politico frammentato israeliano è il riflesso del mosaico etnico, politico e religioso del Paese. Israele ha uno dei sistemi di rappresentanza, almeno formalmente, più democratici al mondo, avendo un unico collegio elettorale con una bassa soglia di sbarramento e un sistema di attribuzione proporzionale puro dei seggi. Il Parlamento israeliano, la Knesset, è formato da 120 deputati e la politica del Paese è da sempre guidata da un sistema partitico in continuo divenire, con ampie trasformazioni dei partiti durante ogni elezione. Ad esempio, il partito Kachol Lavan (‘’Blu e Bianco’’), fondato per le elezioni del 2019 dallo sforzo condiviso dell’ex capo dell’esercito Benny Gantz (IDF) e Lapid, pur essendo il partito che a settembre 2021 ha ottenuto più voti, ad aprile ha visti diminuire i seggi ottenuti in Knesset da 35 a 8. 

La frammentazione partitica, tuttavia, era stata oltrepassata dal carisma di Bibi, che in 15 anni al governo ha saputo forgiarsi un fedele bacino elettorale, composto da ultraortodossi, coloni e religiosi sionisti. Netanyahu, infatti, nelle elezioni di giugno 2021 formava una coalizione con gli ebrei Haredim (o ultraortodossi) e i sionisti di estrema destra. Bibi, primo ministro dal 2009 al 2021, ha saputo governare le inquietudini della popolazione ebraica presentandosi come il solo leader che poteva mantenere salvo Israele dalle minacce esistenziali poste dall’Iran e i suoi proxies nella regione. La sua figura, inoltre, insieme a quella di Donald Trump, è conosciuta per essere tra i sabotatori del JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano perseguito e voluto fortemente dall’amministrazione Obama. Bibi, invece, sostiene la necessità di perseguire la maximum pressure strategy, e che sbloccare gli assets iraniani all’estero e ammorbidire le sanzioni porterebbe ad un rafforzamento dell’Iran e a un conseguente finanziamento dei suoi proxies nella regione.

Bibi è una figura controversa, con attualmente pendenti tre separate accuse per corruzione, ma nonostante ciò rimane un leader simbolo della politica contemporanea israeliana. Pur essendo osteggiato da entrambi gli estremi dello spettro partitico, ha completamente trasformato la scena politica israeliana, che oggi è diventata una questione di due blocchi: pro o anti Netanyahu. Mentre il processo a suo carico continua, Bibi ha iniziato la sua campagna elettorale e le priorità che il blocco pro-Likud si prepone saranno quello di perseguire riforme radicali per ridurre il potere del giudiziario, dare impulso all’identità ebraica dello Stato a scapito di due milioni di cittadini arabo-israeliani e un forte appoggio all’approvazione di nuovi settlements

Il ruolo di Israele in un Medio Oriente in trasformazione

Non esiste un Paese in cui la politica interna ed estera siano tanto intrecciate quanto  in Israele, dove gli esiti delle elezioni sono fortemente condizionati dai contingenti e complessi rapporti con il vicino mondo arabo. Mentre in passato la distinzione storica tra destra e sinistra in Israele si riferiva alla posizione verso la questione palestinese, oggi non è più così. La questione palestinese è in evidente stallo e ciò che maggiormente preoccupa l’elettorato israeliano sono la sicurezza dalle minacce dell’Iran e dei disparati gruppi ibridi e terroristici nonchè suoi vicini di casa, tra cui Hamas, Hezbollah e Fatah

Israele, inoltre, sta cercando di accaparrarsi il suo posto da potenza militare in un sistema regionale ancora non definitivamente assestato. Il Medio Oriente è passato dall’essere sotto evidente influenza USA nel periodo unipolare degli anni 90-2000 ad una sempre più ampia percezione, da parte di alcuni dei principali attori della regione – tra cui Emirati Arabi, Arabia Saudita, Qatar, Iran e Turchia – che l’America si stesse ritirando dal suo ruolo. Il “ritiro” americano ha acceso aspirazioni e volontà in questi attori di ampliare la loro influenza nella regione. Tuttavia, l’assenza americana, oltre che rafforzare Israele, potrebbe anche incentivare ulteriori riavvicinamenti tra Israele e gli Stati arabi.

Gli accordi di Abramo, firmati nel 2020, normalizzano e aprono alla cooperazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco, e sono il risultato di anni di silent diplomacy e di una lunga battaglia tra diversi campi, conclusasi con l’emergere dello stato di Israele come un alleato chiave del campo pragmatico sunnita. La normalizzazione dei rapporti infatti è avvenuta con Paesi arabi collocabili nella sfera dell’Islam sunnita pragmatico, ovvero gli stati guidati dagli Emirati Arabi Uniti (EAU), dove prevalgono considerazioni economiche e di stabilità politica sull’ideologia sunnita, rappresentata a pieno invece da movimenti islamisti come Hamas, i Fratelli Musulmani, e perseguita dallo stesso Qatar.

Il prossimo passo, nonché una priorità dell’amministrazione Biden, è avvicinare Israele all’Arabia Saudita e continuare la normalizzazione nel Golfo, con l’obiettivo di ampliare la cooperazione tra Israele e i suoi vicini. In direzione della normalizzazione e a dimostrazione dell’efficacia degli accordi di Abramo, gli EAU e Israele hanno concluso il primo accordo commerciale bilaterale di libero scambio, il Comprehensive Economic Partnership Agreement. L’accordo tratta questioni quali le dogane, gli standard e gli scambi di servizi, e riguarda il 95% delle merci scambiate tra i due Paesi, tra cui quelle del settore tecnologico ampiamente sviluppato in Israele. 

Il carisma di Bibi avrebbe un forte impulso sulla politica estera israeliana, ma alzerebbe nuovamente l’asticella dello scontro interno, portando a una nuova possibile escalation con Hamas. Gli israeliani sembrano nuovamente chiamati a scegliere se vogliono un leader forte o un sistema liberal democratico e le sue buone procedure politiche. 

 

* Trentaseiesimo governo israeliano (da sinistra) Lapid-Rivlin-Bennett [crediti foto: Haim Zach CC BY-SA 3.0]

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