L’Egitto non costituisce una eccezione, dato che non è possibile controllare il Paese senza il beneplacito e l’appoggio delle Forze armate, dalle cui file provengono la quasi totalità dei capi di Stato della recente storia egiziana. É il caso di Abd al-Fattah al-Sīsī, attuale presidente ed ex Comandante in capo delle Forze armate dal 2012 al 2014, che ha guidato il colpo di stato militare del 3 luglio 2013 contro Mohamed Mursī, primo presidente nella storia egiziana a essere stato eletto democraticamente.
Sotto la presidenza di al-Sīsī, l’Egitto è tornato a rivestire un ruolo di primaria importanza nel contesto regionale, soprattutto in veste di fermo oppositore al dilagare del fondamentalismo jihadista nella regione della Penisola del Sinai e in qualità di centro energetico e commerciale nel Mediterraneo allargato.
Tuttavia, il regime di al-Sīsī costituisce la chiara rappresentazione di un sistema di potere nel quale emergono forme e metodi autoritari. Conoscere le dinamiche interne dell’apparato militare egiziano e la relazione di potere che intercorre con il governo di al-Sīsī risulta fondamentale oggi per comprendere le più ampie traiettorie politiche che stanno scuotendo l’Egitto.
La gioventù e la carriera militare
Al-Sīsī nasce nel 1954 da una famiglia della classe media del distretto di Gamaliya, nella Cairo Vecchia. A 19 anni entra ufficialmente all’interno della principale Accademia militare egiziana nel reparto di fanteria meccanizzata, laureandovisi nel 1977.
Durante il suo percorso universitario si distingue per le sue brillanti capacità, ottenendo quindi accesso a due prestigiosi corsi di specializzazione prima in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti. Tornato dalla Pennsylvania, diventa responsabile del Comando militare Nord basato ad Alessandria, poi Direttore dell’Intelligence militare. Ed è in questa veste che, allo scoppio della cosiddette “Primavere arabe” del 2011, figura come il più giovane tra i componenti del Consiglio supremo delle Forze Armate.
L’entità delle proteste mette fine al trentennale governo dell’allora Presidente Hosni Mubarak, con l’esercito che ha il compito di gestire l’imminente fase di transizione. Le prime elezioni post “Primavera araba” si svolgono nel 2012 e vedono la vittoria del candidato dei Fratelli Musulmani, Mohamed Mursī. Dopo le elezioni, quest’ultimo il 12 agosto 2012 decide di sostituire Moḥammed Ṭanṭāwī, Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, proprio con il generale al-Sīsī.
Il colpo di stato del 2013
La presidenza di Mursī non fu all’altezza delle aspettative, perché costellata da scelte impopolari e da una cattiva gestione dell’amministrazione economica. A suscitare la maggiore indignazione furono i decreti con i quali il Presidente si arrogava sempre più ampi poteri (soprattutto in materia giudiziaria) che gli avrebbero permesso di promuovere una nuova Costituzione.
Gli alleati di Mursī sostenevano che questi poteri servissero per combattere le forze antidemocratiche radicate nella società egiziana, gli oppositori di aver tradito le speranze e le istanze socio-politiche rivendicate dalla stessa Fratellanza Musulmana durante le proteste del 2011.
Dopo appena un anno di governo, tra giugno e luglio 2013, la stessa piazza che lo aveva acclamato chiederà la sua destituzione. Il 1° luglio al-Sīsī, lancia un ultimatum di 48 ore a Mursī. In caso di mancate risposte al popolo egiziano riguardo le sue politiche, le forze militari lo avrebbero rimosso dal suo incarico.
Il 3 luglio, alla scadenza dell’ultimatum, al-Sīsī comunica alla nazione l’arresto di Mursī e di numerosi componenti della Fratellanza Musulmana, con l’imputazione di “incitamento alla violenza e disturbo della sicurezza generale e della pace”. Da quel giorno, dirigenti, affiliati e semplici sostenitori della Fratellanza sono stati vittima di una forte repressione e il gruppo è stato messo al bando perché accusato di sostenere e giustificare il terrorismo.
I pilastri della presidenza al-Sisi: sicurezza e ripresa economica
Nel 2014 al-Sīsī si dimette dall’esercito per candidarsi alle elezioni presidenziali del 26-28 maggio dello stesso anno, contro l’unico candidato Ḥamdīn Ṣabāḥī, che era stato fra l’altro uno dei sostenitori del golpe militare del 2013. Ottenuta una vittoria schiacciante (96,91% dei voti), il generale consolida progressivamente il proprio potere nell’intento di ripristinare la stabilità nel Paese. Le sfide, all’indomani della sua presidenza sono molteplici, fra cui spiccano la messa in sicurezza della regione del Sinai e la ripresa economica.
La Penisola del Sinai è infatti il luogo in cui si è costituito e sviluppato Wilayat Sinai, branca locale dello Stato Islamico. Il gruppo nasce sulle fondamenta di una organizzazione terroristica nota come Ansar Bayt al-Maqdis (ABM) ed ha al centro della propria agenda rivendicazioni autonomiste dei Beduini della Penisola del Sinai e ideologie radicali di stampo salafita. Al-Sīsī promette, fin dall’inizio del suo insediamento, la pacificazione e la stabilizzazione della provincia e lancia numerose operazioni militari (l’ultima ancora in corso è Operazione Sinai).
Nel 2015 l’Amministrazione di al-Sīsī pubblica la propria Sustainable Development Strategy: Vision 2030, un pacchetto di riforme economiche con l’obiettivo di salvare l’economia egiziana dal collasso e di proiettare l’Egitto verso il futuro. Vengono messi al bando anche importanti progetti infrastrutturali, tra cui la costruzione di una nuova capitale amministrativa, il raddoppio del Canale di Suez e la creazione di migliaia di quartieri ad uso abitativo.
Negli ultimi anni tuttavia, nonostante gli annunci di grandi opere, la popolazione ha dovuto fare i conti con le misure di austerità che il governo deve rispettare come condizione per il prestito di 12 miliardi di dollari erogato dal Fondo Monetario Internazionale nel 2016, e che dovrà essere rimborsato a partire dalla fine del 2021.
La prima conseguenza è che i sussidi governativi su gas, benzina e generi di prima necessità sono stati ridotti o eliminati, rendendo più cari moltissimi prodotti. La sterlina egiziana si è poi svalutata in maniera drammatica. A causa del conseguente aumento dei prezzi di quasi tutte le materie prima, il potere d’acquisto delle fasce più povere si è drasticamente ridotto (secondo le stime della World Bank il 35% della popolazione egiziana vive sotto la soglia di povertà).
Al netto di queste considerazioni, risulta evidente come le riforme messe in atto durante la prima fase del governo di al-Sīsī non abbiano nel lungo periodo ottenuto gli effetti sperati. La situazione emergenziale dovuta al contenimento della pandemia da Coronavirus (al 13 luglio si registrano 82,070 casi e 3,858 vittime), ha contribuito inoltre ad esacerbare la già precaria condizione economica e sanitaria in cui versa il Paese.
Secondo l’Institute of International Finance (Iff), le previsioni di crescita dell’economia egiziana sono passate dal 5,4% pre-Covid all’attuale 2,7%. A influenzare negativamente le prospettive economiche, sono principalmente il calo dei transiti attraverso il canale di Suez e la crisi del turismo. Con circa un terzo della popolazione di età inferiore ai trent’anni e una disoccupazione giovanile al 29,6%, il mercato del lavoro nazionale egiziano è in sofferenza.
Tuttavia, risulta difficile ipotizzare che questa crisi economica possa minare la stabilità e la ricchezza del regime, che si basa quasi completamente sulla cooptazione delle Forze armate.
Il ruolo dell’apparato militare: fra imprenditoria e strumento di repressione
Il ruolo dell’Esercito, che rappresenta la spina dorsale della società egiziana, non ha fatto che crescere sotto il governo di al-Sīsī. Oltre a rappresentare un protagonista della politica interna, l’apparato militare costituisce anche uno dei principali pilastri dell’economia, tanto da essere divenuto il perno dell’imprenditoria nazionale.
Dopo la guerra dei Sei giorni contro Israele nel 1967, il numero di militari inclusi nelle attività politiche diminuì, ma i loro privilegi economici rimasero inalterati nel tempo. Ai membri delle forze armate vennero infatti assegnati, oltre alla pensione, la gestione di appalti pubblici, il controllo di governatorati e l’amministrazione totale di enti turistici e commerciali.
Ad oggi, risulta difficile trovare settori economici in cui le Forze armate non abbiano interessi. Non esistono dati ufficiali governativi sul volume della ricchezza prodotta da tali organismi, considerato che sono state sempre adottate ragioni di sicurezza nazionale per proteggere questo tipo di informazioni. Secondo dati non ufficiali e interni al governo egiziano, tramite una ventina di società, l’esercito controllerebbe fino al 60% del sistema produttivo nazionale.
Il potere di al-Sīsī si basa principalmente sul favore delle Forze armate, le quali rappresentano il principale strumento di repressione sistematica interna al regime. Migliaia di persone sono state arrestate ed è proseguita l’impunità per le amplissime violazioni dei diritti umani – motivate dall’allerta contro il terrorismo e dallo stato di emergenza (ininterrotto dal 2017) – quali i maltrattamenti e le torture, le sparizioni forzate, le detenzioni, le esecuzioni extragiudiziali e l’uso eccessivo della forza.
Il ricorso alle sparizioni forzate è stato più volte denunciato da Amnesty International. Di fatti, secondo le stime riferite al 2020 della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, le persone vittime di sparizione forzata sono state durante l’anno almeno 710.
In tale contesto, è poi doveroso ricordare la detenzione per propaganda sovversiva dello studente egiziano Patrick George Zaki e l’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni, scomparso il 25 gennaio 2016 e ritrovato morto 10 giorni dopo con evidenti segni di tortura. Ma quello di Regeni è solo il caso di punta di una situazione in cui il ricorso a questi mezzi sembra essere la norma.
Quali prospettive per il governo di al-Sisi?
A settembre 2019, diverse centinaia di persone sono scese in strada per chiedere pubblicamente le dimissioni di al-Sīsī, accusando il governo di sprecare fondi pubblici in investimenti di beni di lusso e traffici illeciti denunciando pubblicamente la corruzione dilagante tra i militari e il loro controllo su buona parte del sistema economico. La reazione del governo è stata feroce: nel corso della prima settimana gli arresti hanno colpito indistintamente giornalisti, dirigenti di partiti islamisti e di opposizione, docenti universitari e attivisti, con l’accusa di diffondere notizie false e di collusione con le organizzazioni terroristiche.
Le proteste sono state piuttosto limitate nelle dimensioni, ma geograficamente molto diffuse. Non vi è stata tuttavia nessuna manifestazione davvero paragonabile a quelle del 2011, anche se l’instabilità generale ha sicuramente costituito un campanello di allarme per il regime.
La crisi economica, innescata dalle misure di lockdown imposte dal governo egiziano per far fronte alla pandemia da Covid-19, non ha tuttavia fermato il parlamento da approvare ad aprile di quest’anno, una serie di emendamenti costituzionali per estendere da quattro a sei anni la durata del mandato presidenziale, consentendo ad al-Sīsī di ricandidarsi alle prossime elezioni del 2024 e di restare potenzialmente in carica fino al 2030.
Nonostante l’apparente stabilità del governo egiziano, il regime esprime comunque delle insicurezze e incertezze che alimentano gli interrogativi sulla capacità di al-Sīsī di rimanere saldamente al potere. Ciò sarà possibile, come sempre nella storia del Paese, solamente fino a quando le forze militari decideranno di appoggiarne le iniziative e lo reputeranno utile ai loro obiettivi.