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Il Deep State statunitense tra teorie cospirazioniste e controllo del potere

Tempo di lettura stimato: 7 min.

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Notoriamente siamo abituati, nelle narrazioni che si ascoltano in Italia, a pensare al Deep State come qualcosa di “oscuro”, un Governo ombra che manovra le leve del potere da dietro le quinte. Lobbies, massoneria e apparati di controllo che decidono le nostre vite all’infuori del gioco democratico. Soprattutto negli Stati Uniti, il concetto di Deep State ha assunto dei contorni polarizzanti a livello politico: i Repubblicani si servono da anni dell’idea di Deep State per accusare i Democratici di agire alle spalle del popolo statunitense impedendo al Gop – Grand Old Party, un termine con cui si definisce il Partito repubblicano – di esprimere la volontà popolare. Non solo Qanon: anche per i Repubblicani il Partito democratico sarebbe proprio l’espressione del Deep State, un élite anti-popolare che fa solo i propri interessi.

Un’idea che ha attecchito nella base repubblicana anche in virtù dell’ethos tipicamente statunitense: gli americani nutrono da sempre pulsioni anti-stataliste e anti-governative (anche se il vento sta cambiando). L’idea di un mega apparato di controllo ha funzionato e continua a funzionare molto bene a livello propagandistico. Celebre il caso delle ultime elezioni presidenziali nel novembre scorso: l’accusa di brogli portata avanti da Trump e dal Gop muoveva proprio nella direzione di un j’accuse nei confronti dei Democratici che, tramite il loro controllo degli apparati, avrebbero ribaltato illegalmente l’esito della votazione.

Già nel 2016, all’alba dell’elezione che premiò Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti, una delle accuse più frequenti ad Hillary Clinton era proprio quella di far parte dell’establishment contrario all’interesse del popolo (un modo velato, ma non troppo, di parlare di Deep State).

Cos’è veramente il Deep State

Al di là delle teorie cospirazioniste, cosa intendiamo quando parliamo di “Deep State”? Un fondo di verità nella teoria del “Governo ombra” in effetti c’è, ma solo nel concetto di mega apparato. Del Deep State sono state date più definizioni, ma tutte sono concordi nel dire che si tratta di un esercito di “civil servants” – 9 milioni a livello federale, il 6% della forza lavoro totale, e 16 milioni se si comprendono anche gli statali e i locali –  i funzionari statali che lavorano nei diversi strati della burocrazia statunitense.

L’esempio più eclatante è il Pentagono: con i suoi 3 milioni di dipendenti, è il più grande datore di lavoro del mondo. Sono funzionari che lavorano nelle agenzie di sicurezza federali, come la Cia (Central Intelligence Agency) o l’Fbi (Federal Bureau of Investigation), come assistenti parlamentari o nelle commissioni del Congresso, nelle amministrazioni statali che fanno riferimento al Governo federale, nelle corti di giustizia. In contrasto alla teoria cospirazionista, il Deep State, pur non operando sempre alla luce del sole, non è mai stato segreto.

L’origine del termine Deep State risale in verità ad un contesto extra-statunitense. Deep State è infatti la traduzione letterale di derin devlet, un’espressione turca che in Turchia indica il governo segreto collegato con i poteri industriali e finanziari deviati e con le organizzazioni criminali. È un termine che viene spesso associato a Paesi autocratici, come l’Egitto e proprio la Turchia, dove il Deep State in realtà coincide con il Governo nazionale. Per questo motivo l’espressione è stata criticata negli Stati Uniti in virtù della sua carica negativa.

Negli Usa l’origine del mega apparato burocratico si fa risalire al 1871, anno in cui fu introdotta l’idea della creazione di un servizio civile “non-politico”, proposto da Carl Schurz (un generale di origine tedesca), con l’obiettivo di far fronte all’enorme mole di leggi, procedure, burocrazia a cui il Governo federale avrebbe dovuto far fronte negli anni a venire.

Ma soprattutto, l’idea alla base era quella di dare una visione di lungo periodo alla politica americana, dal momento che i presidenti rimanevano in carica per 4 o 8 anni. Si trattava altresì di limitare il potere dello stesso presidente: la creazione di un potere tecnocratico, e quindi svincolato dalle logiche partitiche interne, doveva essere una garanzia di stabilità. Prima di allora, infatti, gran parte dei funzionari federali venivano nominati direttamente dal presidente in carica. 

Croce e delizia degli Stati Uniti

Se è vero che l’intuizione si rivelò giusta, perché da lì in poi il Governo federale avrebbe avuto a che fare con una complessità sempre crescente, da una parte ciò ha comportato anche un problema non di poco conto per i presidenti americani. Trump non è stato l’unico a lamentarsi del Deep State, lo fece anche Obama quando lamentò che il Pentagono lo costrinse ad inviare altre truppe in Afghanistan, e addirittura Reagan quando disse che il Deep State stava frenando la battaglia contro i comunisti.

Negli anni della War on Terror (guerra al terrore) dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre, l’apparato militare statunitense, la parte più consistente del Deep State, venne incrementato ulteriormente. Vennero versati trilioni di dollari nella Homeland Security (il dipartimento anti-terrorismo), le agenzie di sicurezza aumentarono fino a diventare 17, e il potere della Cia, dell’Fbi e della Nsa crebbe. Anche se Deep State è un termine giudicato spesso fuorviante e intrinsecamente negativo, esiste quindi un Governo amministrativo (prevalentemente militare) che coabita con il Governo politico.

Si tratta di un apparato che non si limita solo a gestire l’impianto burocratico statunitense, ma che influenza (e spesso determina) gli indirizzi politici del Paese. In particolare, lo fa per la politica estera: nel Deep State ci sono migliaia di giovani praticanti che iniziano quando hanno poco più di 20 anni a lavorare come assistenti al Congresso o nelle agenzie federali, e che poi vanno avanti per tutta la vita. Il personale di queste agenzie determina quindi l’arco vitale delle strategie delle agenzie stesse.

Cia, Fbi e gli altri apparati federali indirizzano le proprie politiche su orizzonti temporali di 30-40 anni, più di quello delle amministrazioni presidenziali. Politiche infatti non sempre convergenti con quelle dell’esecutivo: in virtù proprio della stabilità che sono deputate a garantire, devono evitare che il Paese non abbia una strategia di lungo periodo (che nel caso del cambio di partito alla presidenza potrebbe mutare). La politica estera statunitense dipende quindi fortemente dalla volontà degli apparati.

Presidente contro Deep State

Si è visto con Trump, quando ha provato ad avvicinarsi alla Russia. Da sempre alla ricerca di un rapporto più stretto con il Cremlino, l’ex presidente Usa ha tentato invano di stabilire un punto di contatto con Putin. Gli apparati statunitensi, memori ancora della Guerra Fredda con l’Ex Urss, glielo hanno impedito. Trump è stato il presidente che, soprattutto sul fronte della politica estera, ha avuto più dissidi con il Deep State.

Le agenzie federali lo hanno accusato a più riprese di aver indebolito l’alleanza della NATO, nonché i rapporti con gli alleati asiatici lungo il litorale del Pacifico, e di aver condotto una battaglia contro la scienza che per gli Stati Uniti ha sempre rappresentato una frontiera di supremazia geopolitica. Ora anche Biden che, nonostante le dichiarazioni al vetriolo riguardo a Putin (lo ha definito “un assassino”), ha tentato un avvicinamento con la Russia. Una mossa che converrebbe soprattutto a Mosca, per uscire dall’isolamento e dall’alleanza improvvisata con la Cina, ma che il Pentagono continua ad ostacolare. 

Sulla Cina la politica dei presidenti statunitensi converge con la strategia degli apparati. Le previsioni dei policy maker americani (e di buona parte degli istituti di ricerca internazionali) danno la Cina in procinto di sorpassare sul piano della supremazia geopolitica gli Stati Uniti. Un sorpasso che potrebbe avvenire tra molti decenni, ma che pare inevitabile. Sul piano economico dovrebbe già verificarsi entro il 2030, sul piano politico e tecnologico appare tuttavia ancora lontano. Proprio per l’incombere del rivale cinese, Joe Biden ha colto l’occasione del G7 in Cornovaglia di inizio giugno per rinsaldare le alleanze con i Paesi Nato in funzione anti-cinese, per ricucire lo strappo tra Usa ed Unione Europea con Trump nella precedente amministrazione. 

Il Deep State nel futuro degli Stati Uniti

Un’indagine sulle opinioni del popolo americano ha mostrato come la maggioranza creda che esista un gruppo di ufficiali e funzionari non eletti che influenza segretamente la politica statunitense, e l’80% crede che le agenzie federali monitorino le loro vite di nascosto, anche se solo il 27% crede nell’esistenza del Deep State così come è stato esplicato in questo articolo. Gli Stati Uniti sono il paradosso di un Paese il cui popolo storicamente è sempre stato avverso al Big Government, ma che nei fatti possiede il più grande apparato burocratico dell’Occidente. 

Un apparato con cui devono fare i conti tutti i presidenti: anche Joe Biden che, seppur più allineato alle agenzie governative rispetto a Trump, ha avuto non poche difficoltà già nei primi giorni di mandato in alcune scelte strategiche, come il ritardo del ritiro delle truppe dall’Afghanistan.

Gli apparati sono ciò che ha permesso agli Stati Uniti di governare il mondo negli ultimi 70 anni, ma anche la più grande sfida della politica, rappresentata dal Congresso e dall’Esecutivo, nei confronti dell’esercito di tecnocrati e funzionari presenti nei meandri di ogni aspetto della vita amministrativa statunitense. Un conflitto che è il cuore della democrazia americana: il Deep State non è solo un grande governo amministrativo, ma è anche il custode delle garanzie costituzionali statunitensi. La missione dei funzionari, al di là della burocrazia, è la preservazione della stabilità democratica. Il Deep State, più che una teoria cospirazionista, è il principale scudo contro potenziali colpi di stato e complotti interni.

Massimiliano Garavallihttps://orizzontipolitici.it
Classe ’97, ma con le occhiaie da quarantenne. Fondatore del blog culturale Sistema Critico, scrivo di politica e filosofia, e nel mezzo qualche poesia. Mi sono laureato con double degree in Economia e Management ad Urbino ed in European Economic Studies a Bamberg, Germania. Mi piace pensare che ogni nostro piccolo pensiero sia una spinta per qualcuno a cambiare.

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