Ennesimo attentato ad uno scienziato iraniano
Il 27 novembre a Damavand a nord di Teheran, Mohsen Fakhrizadeh – una delle principali menti del programma nucleare iraniano – è stato vittima di un attentato letale, che il Ministro degli Esteri Javad Zarif ha prontamente attribuito ad Israele.
La morte di Fakhrizadeh sembra rientrare in una serie di omicidi volta a sabotare il controverso programma nucleare degli ayatollah, verso il quale Tel Aviv si è sempre dimostrata intollerante. Lo scienziato iraniano è infatti solo l’ultimo di una lunga serie di suoi colleghi che dal 2010 sono stati uccisi o sono scomparsi in circostanze poco chiare. Azioni a cui sono sempre seguite forti accuse contro il Mossad – il servizio segreto israeliano – e contro altri servizi di intelligence occidentali, come la Cia.
Il recente avvenimento potrebbe costituire la miccia di una nuova ondata di tensioni nella regione. La risposta iraniana non tarderà ad arrivare e potrebbe portare il Paese ancora più vicino allo sviluppo dell’arma atomica.
L’Iran e il nucleare: una storia travagliata
L’inizio del programma nucleare iraniano è riconducibile ai primi anni Cinquanta, quando viene avviato proprio grazie al sostegno statunitense. Nel 1968, l’Iran è tra i Paesi firmatari del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (Tnp), impegnandosi a non perseguire lo sviluppo dell’arma atomica, lasciando però la porta aperta alla ricerca scientifica per uso civile.
La Rivoluzione Islamica segna tuttavia lo spartiacque nei rapporti con l’occidente: nel 1979 sale al potere l’ayatollah Khomeini, che trasforma l’Iran da migliore alleato mediorientale a peggior nemico degli Stati Uniti. Il programma nucleare ha subìto da allora diverse interruzioni e sospensioni, ma ha sempre destato sospetti nel mondo occidentale.
Questi si sono accentuati particolarmente negli ultimi anni, dopo che il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (Mek) – un gruppo di opposizione al regime – ha denunciato l’esistenza di un impianto segreto per l’arricchimento dell’uranio. Non sono dunque tardate sanzioni economiche da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che hanno portato l’Iran a paventare la possibilità di abbandonare il Tnp.
Accordo sul nucleare iraniano
Una distensione tra l’Occidente e il Paese mediorientale arriva con la seconda amministrazione Obama e in particolare nel 2015 con la ratifica del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa). Firmato dall’Iran e dal club P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito e Germania) è il risultato di 12 anni di negoziazioni, culminate in un accordo che impone serie limitazioni e stringenti controlli internazionali al programma nucleare iraniano, in cambio dell’eliminazione delle sanzioni economiche imposte a Teheran in passato.
La condotta iraniana è rimasta ambivalente, ma gli ispettori dell’Aiea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) hanno certificato svariate volte la conformità di Teheran agli impegni assunti, in particolare quelli relativi all’arricchimento dell’uranio, passaggio necessario per la costruzione dell’arma atomica.
La mossa di Trump: gli Usa fuori dal Jcpoa
Nonostante l’apparente ottemperanza iraniana, nel 2018 Donald Trump ha deciso di ritirare gli Usa dall’accordo e di reimporre di conseguenza le sanzioni precedentemente sospese. L’Iran ha inizialmente acconsentito a rimanere parte dell’intesa, a patto che gli altri paesi firmatari non seguissero l’esempio di Washington.
Questo tuttavia ha prodotto una situazione paradossale in cui Teheran, pur rispettando formalmente le limitazioni al proprio programma nucleare, non beneficia più della sospensione delle sanzioni economiche. Nel maggio 2019 l’Iran ha quindi deciso di abbandonare la politica della “pazienza strategica” e ha cominciato ad arricchire il proprio uranio, arrivando a toccare livelli di dodici volte superiori ai limiti consentiti dal Jcpoa. La mossa di Trump dunque sembra aver avuto come effetto quello di fornire un pretesto agli iraniani per rimettersi sulla strada della realizzazione dell’arma atomica.
L’ardua impresa di difendere lo Stato di Israele
Circondato da vicini ostili, Israele ha dovuto fare i conti con numerose e continue minacce alla propria esistenza sin dalla sua nascita nel 1948.
Le grandi città, le istituzioni politiche ed il cuore economico dello Stato ebraico si trovano nella stretta pianura costiera – larga appena 50 km – che va dalle acque del Mediterraneo ai Monti della Giudea. Senza territori cuscinetto attorno, difendere questa zona vitale è difficile, se non impossibile. Da qui la necessità per Tel Aviv di una politica di difesa aggressiva che si muove in anticipo sugli avversari. Nei decenni infatti Israele si è contraddistinto per un’accanita opposizione ad ogni tentativo degli altri Stati mediorientali di sviluppare capacità nucleari e missilistiche, intervenendo più volte – spesso in maniera anonima – per sabotare i programmi dei suoi vicini.
A tal fine Tel Aviv è ricorsa sia all’aviazione militare, come nel 1981 in Iraq o nel 2007 in Siria, colpendo quelli che considerava impianti nucleari; sia prendendo di mira scienziati e figure chiave dei programmi atomici dei suoi avversari. Non siamo di fronte ad azioni sporadiche, bensì ad uno schema preciso, che fa riferimento alla cosiddetta “Dottrina Begin”, dal nome del Primo Ministro israeliano che la pronunciò nel 1981. Si tratta di una linea politica di attacco preventivo e contro-proliferazione nucleare: Israele si impegna a difendere il proprio territorio non solo nel momento di un eventuale conflitto aperto, ma già ben prima che esso scoppi, impedendo ai propri avversari di sviluppare capacità offensive – specialmente se di tipo nucleare – tali da poter minacciare lo Stato ebraico.
L’obiettivo ultimo di questa dottrina è quello di mantenere il monopolio dell’arma atomica nella regione. Sebbene non sia mai stato pubblicamente confermato infatti, sono molti gli elementi che portano a ritenere che Israele sia in possesso di un arsenale atomico.
Da dove nascono le tensioni tra Israele ed Iran?
La rivalità israelo-iraniana ha radici relativamente recenti. I rapporti fra i due Stati infatti hanno cominciato a guastarsi a partire dalla Rivoluzione Islamica del 1979, a seguito della quale l’Iran ha cominciato a finanziare organizzazioni anti-israeliane in Libano e Palestina, come Hezbollah ed Hamas. Una contrapposizione che negli ultimi due decenni è continuata a salire di intensità.
La sconfitta del regime di Saddam Hussein nel 2003 e la guerra civile siriana ancora in corso infatti hanno messo fuori dai giochi Iraq e Siria – due nemici giurati di Israele – facendo sì che la leadership della causa antisraeliana passasse in mani iraniane. Il vuoto di potere apertosi in Iraq e Siria inoltre ha permesso a Teheran di espandere verso ovest la propria influenza, attraverso la costituzione ed il finanziamento di gruppi para-militari impegnati nella difesa del regime di Assad e la lotta contro l’Isis.
Questa accresciuta sfera di influenza iraniana – la cosiddetta “Mezzaluna Sciita” – ha portato numerosi combattenti filo-iraniani a trovarsi sempre più vicini alla frontiera israeliana. Una presenza per nulla casuale. È infatti proprio nelle intenzioni di Teheran utilizzare i propri gruppi per minacciare o mettere in atto ritorsioni contro lo Stato ebraico. Un piano che gli israeliani non possono di certo tollerare.
Ed è proprio nel quadro di questo scontro “a bassa intensità” che vanno interpretati i ricorrenti raid dell’aviazione israeliana contro obiettivi iraniani in territorio siriano.
Le conseguenze politiche dell’uccisione
La morte di Fakhrizadeh è destinata ad avere pesanti risvolti nella politica interna iraniana.
Come per la morte del Generale Soleimani, anche questa uccisione ha causato una forte reazione delle piazze. Una porzione sempre maggiore del popolo iraniano infatti chiede al presidente Hassan Rouhani di vendicare col sangue la morte dell’ennesimo “martire”.
Non è della stessa opinione il parlamento iraniano invece, controllato dai conservatori intenzionati a mettere fine a qualsiasi possibilità di dialogo con Washington. Proprio il primo dicembre infatti è stata approvata una legge che permetterebbe all’Iran di arricchire ulteriormente il proprio uranio e di bloccare le ispezioni internazionali ai propri impianti. La seduta è stata accompagnata dai cori dei parlamentari che gridavano “Abbasso l’America” e “Abbasso Israele”.
L’uccisione di Fakhrizadeh rischia dunque di complicare il processo di distensione dei rapporti tra Washington e Teheran – caldeggiato sia da Biden che Rouhani – e non è da escludere che tale conseguenza fosse stata ben calcolata nei piani dei mandanti dell’attacco allo scienziato iraniano.
Testo a cura di Ilenia De Finis e Leonardo Trento
* [crediti foto di copertina: Fars News Agency via Wikimedia Commons / CC BY 4.0]