Cos’è il surplus commerciale
Il surplus commerciale è un concetto che fa parte della bilancia commerciale, ovvero il conto che considera l’ammontare delle esportazioni e delle importazioni. Se il valore delle importazioni è maggiore di quello delle esportazioni, si avrà un deficit commerciale (saldo negativo); mentre se il saldo è positivo si genera appunto un surplus commerciale.
Generalmente un Paese che presenta surplus commerciale viene considerato virtuoso, data la capacità delle sue imprese di competere sui mercati internazionali e con le merci estere. I problemi possono sorgere quando un surplus diventa eccessivamente elevato, ed è qui che nasce il “caso tedesco” e le critiche al riguardo.
Il caso tedesco
Dal 2011 la Germania presenta infatti un saldo positivo annuale sempre superiore al 6% del Pil, con un picco dell’8% nel 2017, nonostante le regole europee fissino un tetto medio triennale del 6%. La violazione per ora non ha portato a nessuna sanzione, anche se molti sono stati i richiami da parte sia della Commissione europea che dal Fondo monetario internazionale (Fmi). Lo stesso direttore dell’istituto Ifo Gabriel Felbermayr ha definito il costante avanzo commerciale come “un problema crescente, non solo coi partner europei ma anche con gli Stati Uniti”. Ma perché queste critiche? E a cos’è dovuto questo continuo surplus?
Critiche e frizioni
I maggiori critici della Germania affermano che il continuo surplus commerciale degli ultimi anni sia il riflesso dell’ossessione al rigore e alla prudenza fiscale, che non solo hanno limitato la domanda interna del Paese, ma anche condizionato l’intera economia europea. Philippe Legrain della London School of Economics (LSE) ha affermato che “l’eccesso di risparmio generato dalla compressione dei salari ha permesso alle imprese di abbassare i loro costi, sovvenzionando così le esportazioni a scapito di una domanda interna depressa”. A fare le spese di tale scelta, come fa notare l’economista Marcello Minenna, è stata in primis la spesa per gli investimenti, sia pubblica che privata. Infatti, gli investimenti in rapporto al Pil sono andati in tendenziale ristagno dopo gli anni ’90, passando dal 12,5% nel 1999 a poco più dell’11% nel 2018. Anche dal lato delle famiglie si osservano impatti evidenti: nonostante l’80% del reddito venga consumato in patria, i consumi privati rispetto al Pil si sono compressi dal 56% del 2011 al 51% del 2018.
Queste critiche sono in linea con quelle sollevate dall’ex capo economista dell’Fmi Raghuram Rajan nel suo libro “Terremoti finanziari”, dove definisce l’economia tedesca come “deforme”, con un “servizio manifatturiero” super efficiente focalizzato solo sulla domanda estera, ma che opera accanto ad un “settore di servizi moribondo”.
Contrariamente la pensano altre voci autorevoli del mondo economico. Daniel Gros del Ceps di Bruxelles ha dimostrato come tutti i Paesi dell’Europa settentrionale tra cui Paesi Bassi, Svezia e Norvegia godano di un altrettanto elevato surplus commerciale, ma non vengono accusati di politiche mercantilistiche e di compressioni dei salari. Sulla stessa linea si posiziona Michael Heise, capo economista di Allianz, il quale afferma che “entro il 2035 la Germania avrà più di 21 milioni di abitanti sopra i 67 anni e metà di essi avranno superano gli 80”, rendendo necessario e giustificato un risparmio oggi in vista della pensione di domani.
Una politica fiscale espansiva potrebbe essere d’aiuto?
Un altro terreno di scontro inaspritosi dopo la grande recessione del 2008 riguarda la rigorosità sui conti pubblici tedeschi. Tutta l’impalcatura normativa sulla spesa pubblica si basa sulla regola costituzionale voluta dall’ex ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble che impone il pareggio di bilancio (Schwarze Null). Questo paletto ha contribuito a mantenere il debito pubblico sotto il 60% in rapporto al Pil, come stabilito dai trattati di Maastricht, limitando però possibili investimenti. Come suggeriscono Frank Mattern e Jan Mischke di McKinsey Global Institute, la Germania oggi necessita di interventi sul settore scolastico, sanitario, dei trasporti e della comunicazione. A sostegno di questa ipotesi gli autori fanno notare come nel Land tedesco più popoloso, il Nord Reno Vestfalia, ogni anno si formano più di 300 mila chilometri di coda per via lacune infrastrutturali. Più in generale, uno studio condotto da McKinsey riporta un gap del 0,4% del Pil tra ciò che il paese tedesco ha speso e ciò che servirebbe entro il 2030 per modernizzare le infrastrutture.
Anche sul campo della digitalizzazione il Paese tedesco potrebbe virare una parte di spesa pubblica. Secondo un lavoro svolto da Jacques Bughin del Portlunas Institute, la Germania ha per ora sprigionato solo il 10% del suo potenziale digitale, contro il 17% del Regno Unito e 18% degli Stati Uniti.
Un quadro diverso prova a dipingerlo il presidente dell’istituto Ifo Clemens Fuest. Senza negare che sul piano della spesa la Germania avrebbe potuto fare di più, egli sottolinea alcune mosse intelligenti attuate dai governi Merkel durante gli anni. Prima di tutto la riforma sulla tassazione delle imprese avvenuta nel 2008, che ha previsto una abbassamento delle aliquote sugli utili non distribuiti dal 6,5 al 4,2, oltre che a un abbassamento della pressione fiscale complessiva. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, nel 2013 il salario minimo è stato portato a 8,50 euro che, come fa notare lo stesso Fuest, non ha generato conseguenze negative sui posti di lavoro né tanto meno favorito politiche di compressione salariale per favorire l’export.
Anche sul versante del welfare, in particolare sul lato pensionistico, sono state apportate alcune novità: è stata data la possibilità di andare in pensione a 63 anni ad alcune condizioni, si è applicata la cosiddetta “stop-line” ovvero evitare che la pensione possa cadere sotto il 48% del salario netto finale dopo 48 anni di contributi, ed è aumentato il valore della pensione minima.
Da quando nel 2005 Angela Merkel è entrata in carica fino al 2019 (ultimo anno pre-pandemia), scrive il presidente dell’Ifo, la crescita media annuale è stata dell’1,6%, la disoccupazione è passata dall’11% al 3,4% e il rapporto debito-pil calato dal 67% al 59,8%.
Vi è molta strada da fare, nota Fuest, in particolare sul lato energetico e sul fronte delle politiche ambientali, settori sui quali a detta dell’economista tedesco Angela Merkel avrebbe potuto e dovuto fare di meglio, ma nulla toglie al lungo periodo di stabilità e prosperità dell’economia tedesca portato dalla cancelliera.
La volontà politica è la chiave di tutto?
Difficile dire che Germania uscirà dalle urne il 26 settembre dato che molto dipenderà dalla coalizione post-elettorale che si formerà. Senza ombra di dubbio i malumori sulla eccessiva rigorosità sui conti pubblici e sul continuo incremento di surplus commerciale torneranno nel dibattito.
L’economista statunitense Kenneth Rogoff ha più volte avvertito che questi temi devono essere al centro di una discussione seria data la forte integrazione delle economie europee, ma “troppo spesso il dibattito è stato inquinato più dall’ideologia che dalla realtà dei fatti”. Infatti, secondo l’economista di Harvard, una riduzione del surplus non impatterebbe di molto sull’economia tedesca, portando “effetti modesti di stimolo per la domanda europea, in particolare per i Paesi sud-europei come Portogallo o Grecia”.
Il nuovo cancelliere avrà inoltre il compito di guidare la Germania verso l’uscita dalla crisi sanitaria ed economica con un debito di oltre il 67% del Pil, un deficit ben superiore al 3% e una disoccupazione al di sopra degli standard tedeschi.
Il periodo post-merkeliano potrebbe essere il momento di una rinnovata volontà politica rivolta all’economia tedesca, incentrata su una maggiore spesa e più integrazione europea. Ma come scrisse a suo tempo John Maynard Keynes “la vera difficoltà non risiede nelle nuove idee, ma nello sfuggire a quelle vecchie”.
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