Quando pensiamo all’Unione europea, guardandola dalla prospettiva di coloro che ne hanno posto le fondamenta, dobbiamo tenere in mente tre pilastri. Il primo di questi è la dimensione del “sogno”. Infatti, nelle idee dei padri fondatori, il primo e vero obiettivo dell’Unione europea era quello di realizzare il sogno di pace. Distrutti da decenni di guerre che avevano devastato l’Europa, il sogno dei leader dei sei paesi fondatori dell’Unione (Francia, Germania, Italia, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi) era quello non solo di portare sicurezza e stabilità nell’area europea, ma di essere anche modello di pace per tutto il mondo. Nella dimensione del “sogno” poi si inseriva anche l’elemento del sogno politico, ovvero di un’unione politica. Infatti, secondo Alcide De Gasperi, l’Europa unita avrebbe avuto senso solo se si fosse poi arrivati all’unione politica, e più tempo sarebbe passato prima del raggiungimento dell’obiettivo, peggio sarebbe stato per gli stati europei.
Il secondo pilastro è quello della “necessità”. Se un’unione risultava necessaria per ragioni di sicurezza militare alla fine della Seconda guerra mondiale, questo principio sembra ancora più importante ad oggi, anche se declinato in una maniera differente. Oggi l’Unione europea rappresenta il mercato più grande del mondo. Ma se guardiamo alle proiezioni fino al 2030, nessun stato europeo preso singolarmente sarebbe teoricamente nel G8, ovvero negli otto paesi economicamente più grandi e forti del mondo. In un mondo in cui l’economia di scala è sempre più determinante a causa della globalizzazione, i numeri dei singoli stati europei non possono competere con stati come Cina, India o Stati Uniti.
Il terzo ed ultimo pilastro è quello della sfida, intesa come la sfida di integrare. Sebbene oggi l’Unione sia integrata in maniera profonda da un punto di vista economico, siamo ben lungi da una dimensione politica univoca. Infatti, i rapporti spesso difficili tra i due organi legislativi principali, ovvero il Consiglio dell’Unione Europea e il Parlamento Europeo, rendono il processo decisionale lento e inefficiente. Se il Parlamento è un’istituzione comunitaria al cento per cento, il Consiglio è invece un corpo intergovernativo, dove gli stati membri che sono rappresentati danno voce ad interessi molto eterogenei e spesso divergenti.
Analizzando più da vicino le sfide e gli ostacoli che l’Ue deve affrontare, una in particolare risulta fondamentale: il tema delle migrazioni. Essa rappresenta un argomento politico su cui l’Ue rischia veramente di arenarsi, se non di spaccarsi.
Quando parliamo di migrazioni all’interno dell’Unione europea dobbiamo sempre tenere in mente la Convenzione di Dublino e il trattato di Schengen. La prima è un insieme di accordi stabiliti nel 1990 dagli stati europei che regolamenta la gestione delle richieste di asilo. Dalla sua ultima modifica nel 2013, oggi spesso si sente dire che il primo criterio per decidere chi deve gestire le richieste di asilo sia quello del “paese di primo ingresso”. Guardando bene però al testo, questo criterio è invece l’ultimissimo: infatti, altri principi come per esempio quello dei legami familiari precedono quello del “paese di primo ingresso”. Tuttavia, essendo questi principi difficili da applicare, alla fine quello del paese di primo ingresso diventa il criterio cardine in questa decisione. E’ chiaro quindi che il peso della gestione di queste richieste cade su quei paesi che sono prima destinazione dei migranti, ovvero quelli mediterranei (Grecia, Spagna e Italia). Nel mezzo della crisi migratoria nel 2015, Grecia e Italia hanno chiesto aiuto (come previsto dai regolamenti di Dublino) per redistribuire in altri paesi europei una parte dei migranti arrivati. Tuttavia, la risposta dei singoli paesi e della Commissione europea è stata debolissima. Risulta quindi evidente come questi regolamenti non siano applicati nella pratica.
Se gli accordi di Dublino hanno creato un peso asimmetrico che grava sui paesi dell’Europa meridionale, lo stesso ha fatto Schengen con i paesi alla frontiera dell’Unione. Infatti, Schengen prevede un’area di libera circolazione tra i paesi firmatari dell’accordo. Per rendere questo progetto realizzabile, è chiaramente necessario un controllo efficiente delle frontiere esterne, ovvero nei paesi che confinano con paesi non all’interno di Schengen. Anche qui, il peso è stato spostato sui paesi al confine, come per esempio l’Ungheria. Inoltre, Schengen a volte entra in conflitto con lo stesso regolamento di Dublino e con le norme internazionali. Infatti, il trattato prevede di respingere i migranti irregolari alla frontiera esterna, ma questo è in contraddizione con il diritto di richiesta di asilo stabilito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e con le norme internazionali che stabiliscono l’obbligo di salvare persone che stanno rischiando la vita in mare. Senza entrare nel dettaglio e guardando al recente passato, è chiaro come non ci sia stata spesso cooperazione fra i vari stati europei. Alcuni hanno sospeso Schengen, altri non hanno rispettato gli accordi di Dublino, e la Commissione non è mai riuscita a spingere per politiche comunitarie forti.
Dopo aver guardato ai pilastri dell’Unione e alle sfide che oggi l’Europa deve affrontare, l’attenzione si sposta su quale sia il futuro di questo disegno europeo. In questo contesto, le elezioni europee di maggio rappresentano un nodo fondamentale.
Le elezioni europee sono sempre state considerate “elezioni di secondo livello”: in primis perché servono ad eleggere una componente non nazionale ma comunitaria, ed in secondo luogo perché sono sempre state considerate importanti a livello nazionale per capire i rapporti di forza tra i vari partiti. Le prime proiezioni secondo ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), in questo periodo in cui sta iniziando la campagna elettorale, mostrano risultati che non cambierebbero troppo le dinamiche all’interno delle istituzioni europee. Infatti, il gruppo parlamentare della cosiddetta “maggioranza tradizionale”, ovvero composta dal PPE (Partito Popolare Europeo), i socialdemocratici (S&D) e i liberali (ALDE), dovrebbe ottenere una maggioranza del 55-57%, se entrasse anche “En Marche”. Sebbene sia un consenso ridotto rispetto al passato, rimane comunque una maggioranza importante. Inoltre, i consensi per i cosiddetti “populisti” o “sovranisti” non dovrebbero aumentare di tanto, seppure con grande variazione all’interno dei partiti rappresentanti il blocco (per esempio, i sondaggi dicono che la Lega aumenterà in maniera considerevole il numero dei suoi europarlamentari). Sebbene siano stime premature, queste proiezioni ci fanno capire come siano distribuiti i voti in Europa.
A seconda del risultato delle elezioni, di come sarà gestita la Brexit e se si riuscirà o meno a trovare un metodo di successo per gestire le migrazioni, si svilupperà il futuro prossimo dell’Unione. Tre sono gli scenari teorici a cui potremmo assistere nei prossimi decenni. Il primo è la caduta dell’Unione e delle sue istituzioni, con conseguente ritorno ad un’Europa divisa nei suoi stati membri. Il secondo è la linea dettata per ora dalla maggior parte dei funzionari europei, ossia il rafforzamento dell’integrazione all’interno delle istituzioni comunitarie già esistenti. Il terzo è invece un cambiamento delle istituzioni nella direzione di un’unione politica, che andrebbe a completare il “sogno” dei padri fondatori. Delle tre, sicuramente l’ultima opzione è ad oggi la più improbabile.
Nei prossimi anni si deciderà una buona parte del futuro dell’Unione europea. Tra le mille sfide, il primo appuntamento è quello delle elezioni. A maggio starà quindi ad ognuno di noi scegliere che tipo di Europa vogliamo, decidendo verso quale dei tre scenari vogliamo dirigerci.