La fortuna del petrolio di scisto
Gli Stati Uniti sono il secondo paese al mondo per giacimenti di petrolio di scisto mentre il Canada è alla decima posizione, secondo le stime dell’Agenzia statunitense per l’energia, l’ Energy Information Administration (EIA). Ma cos’è questo idrocarburo? Il petrolio di scisto si estrae da particolari rocce sedimentarie bituminose, ricche di cherosene, che è il composto organico alla base del potere combustibile dello scisto.
Sia negli Stati Uniti che in Canada, la scoperta dei giacimenti di scisto da cui ricavare petrolio risale alla metà dell’Ottocento, quando la crisi del mercato dell’olio di balena, all’epoca usato come combustibile, spinse a cercare un’alternativa. Fu il geologo canadese Abraham Gesner a distillare per primo del petrolio dalle rocce di scisto ritrovate nel New Brunswick, in Canada, scoprendo il potenziale del cherosene per la produzione di energia. Da questo momento in poi vennero fondate compagnie e finanziate ricerche che hanno lasciato emergere quelli che oggi sono ben 19 depositi di scisto in Canada e 32 negli USA. Nel solo 2019, il petrolio di scisto ha costituito il 63% della produzione totale di greggio per il Canada, e nel 2020 il 65% della produzione totale per gli Stati Uniti, un proficuo mercato che incontra anche le esigenze del mondo politico.
Una superpotenza deve essere autosufficiente
Di fatto, il petrolio di scisto ha diversi vantaggi sia economici che politici per i due giganti del Nord America, in quanto garantisce un approvvigionamento sicuro agli elevati bisogni energetici dei due Paesi, offre interessanti margini di guadagno dalle esportazioni di prodotti derivati dalla raffinazione del cherosene e, soprattutto, limita la dipendenza energetica dall’estero, un tema cruciale soprattutto per gli Stati Uniti. Una superpotenza che non tema rivali deve infatti essere autosufficiente in un settore vitale come quello dell’energia, che ha conseguenze non solo sulla produttività dell’industria nazionale ma soprattutto sulla vita quotidiana dei cittadini.
Per questo motivo, già nel corso degli anni ‘70 e ‘90 le amministrazioni statunitensi avevano promosso ingenti investimenti per incrementare la produzione di petrolio e gas di scisto, soprattutto a seguito della crisi petrolifera generata dall’Opec. Ma è nell’ultimo decennio che la produzione è impennata, grazie all’impulso finanziario fornito alla ricerca dal governo Obama prima, e da quello Trump dopo, che hanno consentito l’impiego sempre maggiore delle tecniche di fratturazione idraulica e drilling orizzontale nei giacimenti di scisto, tecniche che fino ai primi anni 2000 erano estremamente dispendiose e dai risultati poco soddisfacenti. Questo ha portato gli Stati Uniti a diventare il primo produttore di petrolio al mondo nel 2018, primato conservato anche nei due anni successivi, nonostante la crisi nella domanda generata dal Covid. Un picco storico si è raggiunto nel 2019, con una produzione annuale media di 12.2 milioni di barili al giorno, l’11% in più rispetto all’anno precedente. Il Canada è invece il quarto produttore al mondo nel 2020, con 4,6 mb/d.
Un altro vantaggio dell’olio di scisto è che può essere immagazzinato nel terreno una volta terminata l’estrazione. Quindi, se i prezzi del mercato scendono rendendo poco proficua la vendita del bene, questo può essere stipato e tirato fuori una volta che i prezzi sono saliti a un livello accettabile. È quanto accaduto in aprile 2020, quando il prezzo del petrolio è crollato vertiginosamente e i produttori statunitensi sono corsi al riparo.
La crisi del petrolio dopo il Covid
L’avvento della pandemia e il rallentamento delle attività economiche a causa del lockdown hanno infatti generato un crollo storico della domanda di petrolio che ha messo in crisi anche la produzione del Nord America. In particolare, sebbene l’industria dello scisto abbia giovato moltissimo all’economia statunitense e canedese, dal punto di vista finanziario il settore è stato oggetto di ampie speculazioni nell’ultimo decennio, che sono scoppiate proprio durante la pandemia. Quest’ultima ha messo a nudo la fragilità finanziaria degli investimenti nello scisto specie negli USA, dove vige un modello definito dal Financial Times “cash-intensive business”, che avrebbe guardato alla crescita piuttosto che al rendimento del capitale investito o al ritorno dello stesso agli azionisti. Questi ultimi sono stati attirati in massa negli scorsi due decenni grazie all’aumento straordinario dell’offerta di petrolio di scisto, che da un lato ha portato gli USA a superare l’Arabia Saudita per produzione giornaliera, ma dall’altro ha immesso sul mercato più barili di quelli effettivamente venduti, stimolando il ribasso ai prezzi e dunque un profondo buco nelle entrate delle società nel settore. Proprio l’incremento della produzione di petrolio di scisto negli USA ha indirizzato la discesa dei prezzi da $100 al barile prima della recessione del 2007-2009 a poco più di $50 tra il 2014 e il 2018. Allo stesso modo, il Canada ha investito per anni nelle costose operazioni di trivellazione ed estrazione dalle rocce bituminose di cui è ricco il suo territorio, ma alcune stime suggeriscono che i costi di lavorazione dello scisto possono essere coperti soltanto ad una media di vendita di $45 per barile, soglia ben superiore rispetto ai prezzi medi di mercato durante il 2020. La guerra dei prezzi tra Russia e Arabia Saudita ha poi peggiorato le opportunità di guadagno dei canadesi. Per questo motivo, il Paese ha vissuto forti tensioni quando in aprile 2020 la regione trainante del settore, Alberta, ha temuto il licenziamento di 200.000 lavoratori, giacché il greggio locale era venduto ad appena $5 al barile.
Petrolio, ambiente e conti che non tornano
I due Paesi sono infatti tra i maggiori produttori di combustibili fossili al mondo, ma anche tra i primi investitori per trovare alternative, dando luogo ad una incredibile contraddizione. Di fatto, a dispetto dell’Accordo di Parigi siglato nel 2016, gli Stati Uniti hanno aumentato l’offerta di petrolio sul mercato nella volontà di stimolare i consumatori all’acquisto di un bene sempre più vantaggioso. Obiettivo è ripararsi dal crollo significativo della domanda di idrocarburi previsto dagli esperti nei prossimi anni grazie alla decarbonizzazione dell’economia globale. Tuttavia, come visto, questa strategia si è rivelata nociva per gli stessi conti delle multinazionali del petrolio, ma anche per l’ambiente. L’estrazione e la raffinazione dello scisto comporta infatti un elevato impiego di acqua, + 20% di emissioni di CO2 rispetto al petrolio convenzionale a causa dei processi di combustione per estrarre il cherosene e la distruzione dell’ecosistema nelle aree interessate dai giacimenti. Il Canada, dal proprio canto, dal 2019 ha vietato le attività estrattive in aree marine particolarmente a rischio, mentre in aprile 2020 ha annunciato investimenti per $1,8 milioni in misure per la riduzione delle emissioni di metano e la pulizia dei giacimenti di gas e petrolio di scisto esauriti. Al contempo, il governo dell’Alberta ha garantito prestiti per $1.3 miliardi al fine di completare l’oleodotto Keystone XL, che trasporta greggio dalla regione occidentale del Canada alle coste del Golfo statunitensi.
Quello che emerge non è dunque un piano di azione congiunto e ben definito, volto a liberare i due Paesi dalla dipendenza dagli idrocarburi, bensì una disordinata concomitanza di azioni che sembrano voler sostenere sia la transizione energetica che il vecchio mercato delle fonti non-rinnovabili. Ma tenere il piede in due scarpe non è un’opzione sostenibile, tanto per l’ambiente quanto per gli approvvigionamenti nazionali: i giacimenti ad oggi sfruttati sono destinati a esaurirsi ben presto, mentre i costi per aprirne di nuovi sono troppo elevati. Se Canada e Stati Uniti non riusciranno a coprire i propri bisogni energetici con fonti rinnovabili, i due Paesi metteranno a rischio non solo la salute di ambiente e cittadini, ma anche gli interessi geostrategici nazionali.
Questo articolo è parte di una raccolta sullo stato del mercato del petrolio dopo la pandemia da Covid-19. Leggi anche: “Quale futuro per il mercato del petrolio dopo il Covid?“.
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