Uno sguardo sui CPR in Italia
Le strutture di trattenimento per stranieri irregolari vengono create nel 1998 attraverso la Legge Turco-Napolitano, meglio conosciuta come T.U.I. (Testo unico sull’immigrazione), che le disciplina. Esse hanno cambiato nel tempo il proprio assetto e la propria denominazione: nel 1998 queste strutture vengono alla luce come Centri di permanenza temporanea e assistenza (CPTA) e vengono successivamente definite Centri di identificazione ed espulsione (CIE); nel 2017 invece, assumono la denominazione di Centri di permanenza per i rimpatri (CPR). Ma in cosa consistono concretamente?
Quando un cittadino straniero è destinatario di un provvedimento di espulsione o di respingimento che, per ragioni attinenti alle politiche migratorie non è possibile mettere in pratica immediatamente, il Questore dispone il trattenimento dell’immigrato presso un centro di permanenza per i rimpatri. A seguito del decreto-legge 130/2020, il cosiddetto decreto Lamorgese, il tempo massimo di trattenimento in queste strutture passa da 180 a 90 giorni, durante i quali viene limitata la libertà personale del soggetto irregolare. Questa condotta è consentita dall’art.5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) che recita: “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti (caso di respingimento ed espulsione) e nei modi previsti dalla legge”. La domanda sorge spontanea: perché un immigrato viene trattenuto? La detenzione non riflette l’esecuzione di una sanzione penale, in altre parole lo straniero trattenuto non ha commesso nessun crimine. Il trattenimento nei CPR infatti, è semplicemente legittimato da illeciti di tipo amministrativo come il mancato rinnovo del proprio permesso di soggiorno. Questa limitazione della libertà personale dovrebbe essere, in virtù della legislazione relativa agli stranieri, una modalità residuale a cui ricorrere in “extrema ratio”.
In realtà, sebbene esista un’alternativa che non preveda misure detentive, i requisiti di affidabilità che lo straniero deve possedere sono spesso difficili da ottenere: egli deve, ad esempio, essere in possesso di documenti, passaporto e di un domicilio in cui essere rintracciato. Questo porta la detenzione amministrativa, in attesa dell’espulsione, ad essere la misura più ricorrente. Nonostante – dati alla mano – si dimostri spesso inefficiente: nel 2019 meno del 50 per cento dei detenuti nei CPR d’Italia è stato poi rimpatriato. Di questi, 515 detenuti sono stati rilasciati perché non identificati. E dunque, giocoforza, inseriti nel circuito della clandestinità. Con l’avvento della pandemia, poi, la chiusura delle frontiere ha fatto il resto: perché – hanno domandato associazioni e interessati – detenere i migranti in vista di un rimpatrio che non potrà essere effettuato?
Le criticità dei CPR in Italia
La morte di Moussa Balde è la cartina al tornasole delle criticità dei CPR in Italia. Tra tutte – si diceva – la limitazione della libertà personale a fronte di un illecito amministrativo. Ma anche le problematiche corollarie a un sistema paracarcerario spesso sprovvisto delle garanzie concesse normalmente al detenuto. Lo scrive il garante, sottolineando come l’assenza di una rigida regolamentazione legislativa, nel dilatare i margini di informalità, estenda anche i rischi per la vita dei detenuti, già compromessa dalla fisionomia dei centri. Tra le annotazioni critiche vi rientrano, infatti, la configurazione degli spazi, spesso angusti e promiscui, privi di arredi e con varie carenze, dall’assenza di privacy per la mancanza delle porte nei bagni, ai guasti del sistema di riscaldamento. E ancora, l’assenza di una regolamentazione sull’uso della forza degli agenti e sulla tutela della salute dei detenuti; l’approccio securitario e la vita forzatamente oziosa, senza attività ricreative e gravata dal sequestro degli apparecchi telefonici ai detenuti, che già nel 2007 ha portato la commissione De Mistura a parlare di una tensione in grado di creare un circuito negativo che si autoalimenta.
Sino al nodo problematico che tiene insieme molte delle criticità evidenziate: la gestione delle strutture affidate ai privati, con inadeguatezze che acuiscono la dimensione di marginalità sociale attribuita alla detenzione amministrativa. Lo stesso garante in un rapporto consegnato al parlamento nel 2019 aveva fatto presente che “L’affidamento a privati di compiti di gestione dei CPR non esonera lo Stato dalle sue responsabilità, che non sono in alcun modo ‘diluite’ dalla circostanza del non avere la gestione diretta di tali Centri”. Ma i CPR finiscono spesso per avvitarsi su se stessi, anche grazie a un meccanismo che li rende difficilmente accessibili sin dal lontano 2004, quando – a seguito di alcune denunce che porteranno alla chiusura del Cpt di San Foca, in provincia di Lecce – il ministro Pisanu vara una circolare con cui impedisce ai terzi l’accesso ai Cpt. «Per una questione di privacy, è meglio che queste persone non siano disturbate, dopo viaggi così lunghi e faticosi, tanto più dai giornalisti», scriverà. Così inaugurando un orientamento ancora oggi maggioritario.
Da San Foca a Milano, quando i terzi entrano nei CPR
Quando però si riesce ad attraversare la frattura tra l’esterno e i CPR, i racconti che trapelano descrivono realtà molto lontane da un modello di convivenza sano. Succede agli esordi del sistema di detenzione amministrativa, ma anche di recente. Nell’estremo sud come al nord. È il 2002 quando una delegazione composta da politici, attivisti, medici e giornalisti varca i cancelli del Cpt Regina Pacis di san Foca, Lecce. Le testimonianze porteranno alla chiusura del centro. Nei giorni precedenti, il tentativo di evasione di 17 migranti conduce a un pestaggio brutale. I detenuti lo raccontano. Le sevizie sono ad opera dei carabinieri, dei collaboratori e del gestore: “Don Cesar, anche Don Cesar”, come riferiscono i reclusi alla delegazione nel riferire gli autori del pestaggio. Il gestore, dunque, Don Cesare Lodeserto – poi condannato a un anno e quattro mesi per violenza privata e abuso dei mezzi di correzione: ex direttore della caritas diocesana e segretario particolare dell’allora arcivescovo di Lecce Cosmo Francesco Ruppi. E gestore di un centro che darà la stura alle richieste di chiusura di tutti i cpt d’Italia.
Siamo a poche settimane fa, invece, quando i senatori Gregorio De Falco e Simona Nocerino, grazie alla funzione di parlamentare, riusciranno ad entrare nel CPR di Via Corelli, a Milano. Racconteranno di atti di autolesionismo davanti ai loro occhi. Dell’ingresso dell’ambulanza, due volte in sole tre ore, per soccorrere casi gravi. Dell’incapacità di gestione, di istituti peggiori di un carcere: ”Noi – dirà De Falco – critichiamo l’Egitto quando reitera la detenzione di Zaki, ma qui facciamo lo stesso in tutti i CPR d’Italia”.
Testo a cura di Gaia Pelosi e Pierfrancesco Albanese
*immagine in evidenza: Foto di Jody Davis da Pixabay