Cosa è successo alla First Republic Bank
La First Republic Bank è stata una banca commerciale che forniva servizi di gestione patrimoniale, con sede a San Francisco. Operante dal 1985, si rivolgeva soprattutto a clienti con un alto patrimonio netto; alla fine del 2022, deteneva depositi per 176 miliardi di dollari. Inoltre, il 68% dei depositi della banca era costituito da conti con più di 250mila dollari, quindi non tutelati dall’assicurazione statunitense – dunque, più suscettibili al ritiro e al trasferimento in altre banche. I crolli bancari sopra citati hanno generato timori circa la solvibilità – intesa come capacità di ripagare i propri debiti – della First Republic, ed il titolo è quindi sceso, al 16 marzo, del 30%. Altra causa scatenante è stata la notizia, riportata da Bloomberg, della valutazione da parte di First Republic di una vendita.
Non è bastato, nella giornata di domenica 19 marzo, l’annuncio da parte della banca di aver ottenuto liquidità per 30 miliardi di dollari da panche private guidate da JPMorgan & Chase Co. e per 40 miliardi di dollari dalla Fed. Lunedì 20 marzo molte vendite del titolo sono seguite a causa del downgrade da parte di S&P 500 Global, che aveva tagliato il rating creditizio della banca portandolo allo “status di spazzatura” (“junk”). La società di rating aveva giustificato il taglio, da BB+ a B+, ritenendo che il piano di salvataggio da 30 miliardi di dollari sopra citato potesse non bastare a salvare la First Republic Bank. Complessivamente, la banca ha perso il 90% nelle prime 3 settimane di marzo.
Conseguenze del crollo della banca
A circa un mese di distanza, si contano circa 100 miliardi di dollari ritirati dai clienti della First Republic Bank in depositi durante la crisi sopra descritta. Al 24 aprile, i titoli sono calati di quasi la metà del loro valore dopo la pubblicazione dei dati trimestrali. Alla fine del mese, i media davano notizia di una prossima liquidazione amministrativa coatta, dunque declassando le possibilità di salvataggio dell’istituto. La segretaria al Tesoro statunitense, Janet Yellen, ha cercato fino all’ultimo minuto di fornire ulteriori 30 miliardi di dollari in depositi su base temporanea per sostenere le finanze della banca: cercando, di fatto, un salvataggio in extremis.
Complessivamente, fino a fine aprile il valore delle azioni della banca è sceso del 97% circa. La Fdic, Federal deposit insurance corporation, agenzia indipendente statunitense, ha ritenuto che non ci fossero più le condizioni finanziarie – oltre che le tempistiche – per trovare un acquirente privato disposto a salvare l’istituto. In particolar modo ha inciso, nella crisi della banca, la somiglianza di questa con il business della Silicon Valley Bank, fallita a marzo. Gli investitori, notando le affinità con la SVB, hanno perciò contribuito a scatenare l’assalto – virtuale – agli sportelli dei clienti depositanti della First Republic Bank.
A questo proposito, la Fdic ha studiato un commissariamento-salvataggio con banche private per evitare il fallimento dell’istituto. Ed infatti, la vicenda è stata definita dall’acquisto, da parte della JPMorgan Chase & Co., della maggior parte degli asset della First Republic Bank – 229,1 miliardi di dollari in totale. In aggiunta, la banca ha assunto tutti i 103,9 miliardi di dollari di depositi. Questa transazione ha di fatto reso JPMorgan la banca più grande d’America.
In comune tra queste crisi delle banche
Il caso della FRB non è un caso isolato. Come ripetuto sopra, è affine al fallimento recente della SVB. Le cause preponderanti delle crisi delle banche sono diverse. In primo luogo, l’amministrazione Trump aveva in precedenza allentato la regolamentazione bancaria per spingere la crescita economica, rendendo però la vigilanza lasca e talvolta assente. In secondo luogo, i business model delle banche fallite erano profondamente squilibrati e caratterizzati da cattiva gestione. Negli anni, First Republic ha erogato numerosi mutui residenziali ad un tasso vicino al 3%, caratterizzati in larga parte da rimborso del capitale a termine. Inoltre il costo dei depositi, a inizio 2023, si aggirava tra il 3 e il 4%. Con l’emorragia di depositi scatenata dal caso SVB, la crisi è diventata infermabile.
Si è verificata una cosiddetta “crisi di liquidità” che ha investito grandi e medie banche a partire da marzo. La causa sta nella presenza, in molti istituti di credito, di business di conti digitali che, appunto da marzo, si sono rilevati profondamente fragili: sono caratterizzati, infatti, dalla tempestività del trasferimento di depositi da una banca all’altra. Sono bastati dei timori per far accelerare il processo su larga scala. Si aggiunge una precedente consapevolezza maturata dal Fdic, che ha steso un documento individuando le principali cause del crollo della First Republic Bank: in comune, le cause presentato carenze nella supervisione della banca, la cui presenza è stata attribuita alle modifiche legislative introdotte da Trump. Queste modifiche hanno sostanzialmente ridotto gli standard di sicurezza, promuovendo un approccio ai controlli meno rigido.
L’impatto sul sistema bancario mondiale
In Italia, la crisi delle banche che si sta verificando negli Stati Uniti non ha avuto un effetto contagio sul nostro sistema. Ciononostante, è comprensibile la nascita di timori fra gli organi regolatori e di vigilanza europei e internazionali. Ciò che preoccupa, in particolar modo, è la velocità di propagazione di fenomeni di “bank run” a causa di digital banking – per via di quanto sopra descritto – e social media. Il Governatore della Bank of England, Andrew Bailey, ha dichiarato come il caso SVB sia stato, “in oltre 30 anni, il più immediato fallimento bancario mai visto”. Questa allerta ha messo in moto la necessità di rendere le regole internazionali di liquidità più efficaci rispetto alla modernità. L’implementazione delle regole di Basilea 3, infatti, risale a circa 10 anni fa.
La prima riflessione è stata avviata circa una potenziale revisione del Liquidity Coverage Ratio (LCR), il coefficiente di liquidità che le banche devono rispettare per far fronte, in caso di stress, ai deflussi di breve periodo. È una percentuale uguale al rapporto tra asset liquidi di alta qualità e uscite di cassa stimate in 30 giorni. Per le banche che operano a livello internazionale, questo valore deve essere non inferiore al 100%. Gli analisti, in verità, hanno già individuato due possibili soluzioni.
La prima riguarderebbe una revisione degli asset liquidi o liquidabili, noti come cash equivalent; la seconda tratterebbe un incremento dello stock di liquidità sopra citato. Gli analisti di Citi, in particolare, hanno sottolineato che: “I modelli attuali prevedono in casi di stress deflussi rilevanti da parte della clientela wholesale – istituzioni e organizzazioni di grandi dimensioni e rilevanza -, ma solo il 3-10% per i depositi retail – ovvero i depositi delle persone fisiche”.
I costi di queste soluzioni
Se la prima soluzione rientra nell’ambito di competenza dei regolatori internazionali del Comitato di Basilea, la seconda sta invece alla discrezionalità dei singoli paesi. In particolar modo, nel Regno Unito già si discute di raddoppiare la garanzia sui depositi. Il Governatore Bailey ha tuttavia ammesso come la risposta alle crisi dei depositi con un aumento di questa soglia “potrebbe avere conseguenze sui costi del sistema bancario nel suo complesso”.
Non solo: l’eventuale aumento della soglia di garanzia verrebbe, nel breve periodo, finanziato dallo Stato, per poi lasciare alle banche i necessari anni di tempo di adattamento per aumentare, pro-quota, i contributi da versare al fondo di garanzia. Quanto all’Eurozona, al momento non è stata fatta una valutazione circa la garanzia dei depositi. Le regole in tema sono lasciate ai singoli paesi che, unitamente, hanno attualmente fissato la soglia a 100mila euro. Un raddoppio di questa, secondo Citi, costerebbe alle banche dell’Eurozona circa 74 miliardi di euro – spalmati su un orizzonte temporale di medio termine. Va sottolineato ad ogni modo come, qualunque sia l’esito delle analisi sopra menzionate, questo sicuramente impatterà negativamente sulla redditività futura del settore, vista la necessità di tutelare maggiormente i depositi.
Cosa aspettarsi in futuro
In una intervista del primo maggio Jamie Dimon, Ceo di JPMorgan ha affermato come, a suo dire, la crisi bancaria di questi due mesi sia giunta al termine, ritenendo il sistema solido e stabile. Ed effettivamente, il salvataggio della FRB sembra aver arginato la crisi; tuttavia, gli effetti di lungo termine potrebbero non ancora essere emersi. Ciò che conta è comunque l’attenzione su cui, nei prossimi mesi ed anni, il sistema bancario deve poter contare. Al momento, la crisi delle banche sopra menzionate non ha generato una crisi economica mondiale, come invece accaduto nel 2008. E le probabilità affinché ciò accada sono, per ora, davvero minime.
È importante sottolineare tuttavia che una fetta di responsabilità sta, come detto sopra, alla gestione delle banche. Per questa ragione, gli istituti di credito devono, da un lato, definire una strategia di sviluppo che abbia a cuore l’innovazione tecnologia, principale driver di quanto accaduto in questi mesi. Dall’altro, sono chiamate a investire in manager preparati, che sappiano non solo gestire il cambiamento, ma anche guidarlo.