I conflitti congelati (“frozen conflicts”), anche noti come protratti (“protracted conflicts”), sono scontri caratterizzati da fasi di stallo durante le negoziazioni per arrivare ad una soluzione politica reale, o situazioni in continua evoluzione all’interno di territori contesi. Secondo la letteratura, si tratta di dispute caratterizzate da un secessionismo violento, in cui le forze separatiste che hanno il controllo su un’area sono riuscite a consolidare il loro dominio su quella parte di territorio all’interno dello Stato in cui sono stanziate. Questa espressione assume un significato specifico prima della fine della Guerra fredda, quando i policy-maker di molti Stati hanno iniziato ad usare questo termine per riferirsi ad alcuni conflitti scoppiati all’interno dello spazio del mondo post-sovietico. Un esempio concreto di conflitto congelato è quello tra Azerbaijan e Armenia, la cosiddetta guerra del Nagorno Karabakh – una regione senza sbocco sul mare sita nel Caucaso meridionale – anche nota come guerra nell’Artsakh.
Tale territorio, governato dalla Repubblica dell’Artsakh, risulta conteso poiché è riconosciuto a livello internazionale come parte dell’Azerbaijan, ma presenta una maggioranza etnica armena: questa guerra assume anche le sfumature di un conflitto etnico e territoriale, poiché sia Baku, la capitale dell’Azerbaijan, che Erevan, la capitale dell’Armenia, rivendicano la sovranità su quest’area.
Un conflitto lungo trent’anni
Le attuali tensioni tra i due ex stati sovietici hanno però origini antiche e profonde in quanto i due attori si sono già confrontati in una sanguinosa guerra per il controllo della regione all’inizio degli anni ’90. Una delle caratteristiche presenti nei cosiddetti frozen conflict, infatti, riguarda la presenza di scontri armati, in particolare tra lo Stato e le forze separatiste all’interno di esso. Tutto ha avuto inizio nel 1921 a seguito dell’unione della regione del Nagorno Karabakh – abitata in prevalenza da armeni – all’Azerbaijan, da parte delle autorità sovietiche; la popolazione del Karabakh, tuttavia, aveva il desiderio di ricongiungersi con l’Armenia, percepita storicamente come “madrepatria” poiché si riteneva che essa fosse la culla della cultura armena. L’attuale conflitto inizia a prendere forma nel 1988, quando tra gli armeni del Karabakh si diffuse l’aspirazione di portare la regione – prevalentemente popolata da armeni – dalla giurisdizione azera a quella armena.
A seguito del crollo dell’Urss nel 1991, le tensioni etniche tra le due popolazioni nella regione sono aumentate esponenzialmente trasformandosi in breve tempo in una guerra su vasta scala. Difatti, successivamente alla caduta dell’Unione sovietica, l’Azerbaijan si è dichiarato indipendente da Mosca, ma la regione del Nagorno Karabakh non ha riconosciuto la sovranità di Baku: difatti, l’esistenza di uno Stato autoproclamato e non riconosciuto è una delle peculiarità che definiscono le situazioni descritte come conflitti congelati. Sempre nello stesso anno, la regione del Nagorno Karabakh si è autoproclamata indipendente dall’Azerbaijan – attraverso un referendum nel quale ben il 99,89% della popolazione ha votato per la piena indipendenza da Baku – nonostante il referendum sia stato boicottato dagli abitanti azeri e nonostante per la comunità internazionale essa rimanesse ancora parte del territorio azero. Questa è la scintilla fatale che ha fatto scoppiare i disordini: dal 1992 al 1994 le truppe armene e gli abitanti del Nagorno Karabakh hanno combattuto contro le truppe azere in un conflitto caratterizzato da un elevatissimo numero di perdite umane.
Si stima infatti che questo conflitto abbia provocato tra i 25.000 e i 35.000 morti e centinaia di migliaia di profughi e sfollati. La fine di un biennio di sanguinosa guerra aperta tra le due etnie ha portato all’avvio di negoziati per un cessate il fuoco che si sono concretizzati nell’accordo di Bishkek con il quale i rappresentanti di Azerbaijan, Nagorno Karabakh e Armenia hanno “congelato” il conflitto, in vista del raggiungimento di un accordo finale. Gli accordi di cessate il fuoco sono misure di tipo pratico, che seguono una linea definita a livello politico: difatti, solitamente essi sono seguiti da altri trattati di carattere politico-diplomatico con la prospettiva di rendere la situazione permanente.
A seguito della fine del conflitto, inoltre, i rappresentanti dei governi armeni e azeri hanno tenuto colloqui di pace mediati da Russia, Francia e Usa del Gruppo di Minsk dell’Osce, creato al fine di incoraggiare una soluzione pacifica sullo status contestato della regione. Questo però non ha allentato le tensioni presenti dato che periodicamente si riaccendono combattimenti all’interno della regione sulla linea del fronte; infatti, le frequenti violazioni di confine da parte azera sono alla base dei violenti scontri avvenuti nell’aprile 2016 (nonché dello scontro attuale) durante un’escalation del conflitto nota come la “guerra dei quattro giorni” durante la quale si sono gettate le basi per lo scoppio dell’attuale crisi.
La ripresa degli scontri: quale sarà il futuro della regione?
Il conflitto sulle montagne del Caucaso, rimasto irrisolto per più di tre decenni, è ripreso lo scorso 27 settembre 2020 con scontri tra armeni e azeri a colpi di artiglieria lungo la frontiera nel Nagorno Karabakh. Questa volta, tuttavia, il conflitto si presenta in maniera diversa, in primis poiché la Turchia ha offerto un sostegno più diretto all’Azerbaijan e in secondo luogo perché entrambe le parti risultano tecnologicamente più avanzate grazie all’utilizzo di droni e armi ad ampio raggio. La maggior parte dei frozen conflicts, infatti, dà vita a processi di risoluzione che prevedono il coinvolgimento di altri Stati o istituzioni multilaterali.
Nel corso delle settimane, gli svariati tentativi verso una tregua non sono andati a buon fine: il cessate il fuoco annunciato lo scorso sabato 17 ottobre e mediato dalla Francia per permettere la raccolta dei corpi delle vittime e lo scambio dei prigionieri non ha avuto successo, al pari del precedente cessate il fuoco mediato dalla Russia una settimana prima. Le violenze hanno continuato il loro corso ed entrambe le parti si accusano a vicenda di aver violato il cessate il fuoco umanitario.
La principale difficoltà nel mediare tale conflitto è dovuta alla lunga durata che caratterizza i conflitti congelati, che porta all’irrigidimento delle posizioni politiche delle parti coinvolte, rendendo sempre più complessa la stesura di un accordo di pace definitivo, scenario che si sta attualmente verificando nella regione. Il numero delle vittime risulta elevatissimo, ammontando a circa 5.000. Inoltre, lo “scongelamento” di questo conflitto sta generando enormi problemi anche per la parte civile: sembra infatti che la catastrofe umanitaria sia alle porte, legata al pericolo di un esodo massiccio di civili dalle zone dei combattimenti.
All’interno di questo delicato scenario sul filo del rasoio, la Russia resta al centro della scena diplomatica: da un lato, Mosca deve tenere in considerazione la vicinanza storica, culturale e religiosa dell’Armenia, e al tempo stesso deve tenere in considerazione le partnership energetiche presenti con l’Azerbaijan. Si può quindi affermare che a livello teorico l’aggettivo “congelato” si riferisca più alla situazione in cui si trovano i negoziati per la risoluzione del conflitto, i quali non sembrano sfociare in una strategia di successo nel breve periodo, piuttosto che ai conflitti in sé.
Gli ultimi sviluppi nel Nagorno Karabakh
Nella notte dello scorso 9 novembre, il premier armeno Nikol Pashinyan ha annunciato la firma un accordo trilaterale per un cessate il fuoco totale con l’Azerbaijan, siglato da Armenia, Azerbaijan e Russia (con il ruolo di negoziatore): la decisione di giungere a questa “dolorosa intesa”, secondo le parole del leader armeno, sembra essere motivata dal desiderio di porre fine a ulteriori massacri delle truppe armene nel Nagorno Karabakh. Di fatto, la tregua è avvenuta a seguito della conquista della città di Shusha (Shushi in armeno), la seconda città più grande dell’enclave, da parte delle forze azere. Dall’altro lato, l’armistizio è considerato da Ilham Aliyev, il presidente azero, come “un punto cruciale per la soluzione del conflitto”. Armenia e Azerbaijan hanno inoltre concordato lo scambio dei prigionieri e la restituzione dei corpi delle vittime del conflitto. A seguito dell’annuncio una folla di manifestanti contrari all’intesa ha fatto irruzione nella sede del Parlamento armeno a Erevan, protestando ferocemente.
Questo momento segna indubbiamente una svolta all’interno delle complesse dinamiche della regione, sebbene sia chiaro che la situazione rimanga caratterizzata da un’elevata instabilità. Le possibili implicazioni per il futuro della regione sono attualmente estremamente complesse e tutt’altro che positive: qualora questo conflitto dovesse proseguire, rischierebbe di estendersi a tutta la regione a causa del coinvolgimento diretto della Turchia, alleata dell’Azerbaijan, e della Russia, la quale si presenta sempre più vicina all’Armenia grazie a un’alleanza militare, ossia un patto di sicurezza.
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