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Ultima fermata pensioni? Macron e il problema del gradimento tra i francesi

Tempo di lettura stimato: 7 min.

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Un basso gradimento scuote in questi giorni la presidenza di Emmanuel Macron, mentre flotte di manifestanti inondano le strade della Francia in segno di protesta contro la recente riforma delle pensioni. È risaputo che quando i francesi fanno sentire la loro voce, in Europa sono secondi a pochi. Ne sa qualcosa il Presidente Macron, che durante i suoi due mandati ha dovuto fronteggiare movimenti di contestazione grandi e spesso violenti. Dalle leggi sul lavoro del 2017 alla recentissima riforma delle pensioni, passando per il movimento dei Gilets Jaunes, in che modo è cambiata la popolarità dello Chef d’État e forte sostenitore di un’Europa integrata? Quali “sfide” hanno avuto il maggiore impatto sulla popolarità di Macron davanti ai francesi?

Una storia di alti e bassi

Macron diventa ufficialmente presidente il 14 maggio 2017, quando a 39 anni sconfigge al ballottaggio la candidata di estrema destra Marine Le Pen ottenendo il 66,10% dei suffragi, e diventando così il più giovane presidente della Repubblica francese. 

All’inizio del suo primo mandato Macron si trova al picco di gradimento e popolarità. Il suo profilo è promettente. Proviene dall’École nationale d’administration (ENA), l’istituto che ha formato generazioni della classe dirigente francese e che lo stesso presidente ha soppresso perché ritenuto troppo elitario. È stato assistente di Paul Ricoeur e ha lavorato in una banca d’affari, prima di diventare Ministro dell’Economia e dell’Industria durante la Presidenza Hollande. Nel 2017 si presenta alle elezioni con En Marche, il partito indipendente da lui fondato, di stampo liberale e progressista, che ottiene grande successo e lo porta alla vittoria.

La sua popolarità fa però presto a mutare.

I primi passi

Una delle prime riforme portate avanti nel 2017 riguarda un aggiornamento dell’enorme Codice del lavoro francese. In nome della promessa del governo di portare il tasso di disoccupazione dal 9,5% al 7% in cinque anni (ad oggi si trova intorno al 7,3%), le nuove leggi hanno dato alle aziende più flessibilità nello stabilire gli stipendi. La riforma ha aumentato la possibilità di negoziare direttamente tra datori di lavoro e dipendenti, senza passare per i sindacati. Ha inoltre posto un limite ai danni da pagare ai lavoratori licenziati in modo ingiustificato. Alcuni sindacati di estrema sinistra, come la Confédération générale du travail (CGT), si sono sollevati sostenendo che la riforma desse “controllo totale ai datori di lavoro”. In parlamento, Jean-Luc Mélenchon e il suo partito La France Insoumise furono i maggiori oppositori del disegno di legge.

Dopo grandi proteste in tutta la Francia, la riforma è passata, ai danni del gradimento di Macron (sceso al 40%).

“Macron presidente dei ricchi”

La prima grande crisi della presidenza Macron non tarda ad arrivare. Verso la fine del 2018 il Capo di Stato deve infatti fronteggiare il picco d’impopolarità finora registrato. La causa? Non difficile da avvistare: indossa un gilet giallo fluorescente.

Nato come un movimento di protesta popolare contro una manovra per alzare le tasse sul carburante, i Gilet Jaunes sono presto diventati un movimento sociale anti-governo di larga scala. Presentata da Macron come politica per incentivare la transizione ecologica, la manovra ha dato origine a un fenomeno cresciuto online, senza un leader definito, un sindacato o un partito politico alle spalle. Ingrandendo la lente, i Gilet Jaunes sono per gran parte cittadini delle periferie delle grandi città o provenienti da aree rurali; perlopiù sono lavoratori, e denunciano un “reddito troppo basso per arrivare alla fine del mese”. Due fattori possono spiegare una mobilitazione che ha raggiunto nel 2018 il picco di quasi 300 000 manifestanti in un giorno, e scosso la Francia con proteste settimanali e ostruzione delle strade, sfociate in quelle che alcuni ritengono le rivolte più violente dal maggio ‘68. Inizialmente uno scontento con la politica fiscale delle tasse sul carburante, basata su un’agenda ecologica che impone agli strati della popolazione rurali e meno agiati (e più dipendenti dall’automobile) il costo della transizione. Poi, il rigetto di una tassazione percepita come sproporzionata, e l’appello alla reintroduzione di una tassa progressiva sulla ricchezza, rimpiazzata nel 2018 con un’imposta sugli immobili.

I primi 18 mesi della presidenza Macron, presentatosi come il candidato di un movimento dal basso, sono marcati da politiche vantaggiose per le imprese e la trasformazione della tassa sulla ricchezza. L’economista francese Piketty fa presto a notare che la concomitanza delle due riforme desse ai cittadini l’impressione di un trasferimento della ricchezza dai più poveri ai più ricchi.

Con il tempo, l’attenzione mediatica dei Gilet Jaunes scema, e le manifestazioni settimanali attirano sempre meno partecipanti. L’esplosione della pandemia di Covid contribuisce a fiaccare il movimento, e a far guadagnare nuovo terreno al gradimento di Macron. Dopo l’ordine di stringenti restrizioni per rallentare il virus, annunciato dal Presidente con un discorso televisivo guardato da più della metà dei francesi, l’apprezzamento per l’Eliseo torna sopra il 50%. Un salto così repentino e grande si verifica raramente. L’ultima volta che l’opinione di un capo di stato era mutata in modo simile, in Francia, era stato dopo gli attacchi terroristici del gennaio 2015.

Macron e Putin, una posizione ambigua?

Nel periodo che lo separa dalle elezioni che lo porteranno al secondo mandato, l’approvazione di Macron rimane abbastanza stabile. La gestione ferma delle nuove urgenze, ovvero il crollo del potere d’acquisto a causa dell’inflazione e la guerra in Ucraina, soddisfa i francesi. La posizione del presidente rispetto all’invasione di Vladimir Putin, tuttavia, sembra a tratti ambigua. Un articolo pubblicato recentemente sull’Economist analizza due fattori causa di questa impressione. In primo luogo, il ruolo di Macron prima della guerra, e il suo tentativo di indurre Putin a un comportamento più responsabile, fino a provare all’ultimo a farlo desistere dall’invasione. Nel noto scatto di Macron e Putin ai lati di un lungo tavolo si percepisce la fredda distanza tra una Russia che prepara la guerra e un’Europa diplomatica rappresentata da Macron. Ed è proprio questo il secondo fattore: dallo scoppio della guerra lo Chef d’État francese ha avuto più colloqui con la controparte russa di ogni altro leader occidentale. Il presidente evoca continuamente la possibilità di discorsi di pace, sostenendo che le preoccupazioni della Russia debbano essere tenute in considerazione. La possibile speranza dell’Eliseo di mediare la fine della guerra, insieme al timore di ulteriori escalation, potrebbero spiegare un’apparente ambiguità nel guidare il supporto militare dell’Europa in Ucraina. Tuttavia, “il fervore di Macron a esprimere la complessità della situazione mina alla trasparenza della posizione francese”, e questo influisce sulla suo gradimento.

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Macron con Putin in uno degli ultimi incontri prima della guerra in Ucraina [Wikimedia CC 4.0]

Le nuove elezioni e la Francia in piazza

Con, alle spalle, un primo mandato marcato dai Gilet Jaunes, il Covid-19 e lo scoppio della guerra in Ucraina, Macron si avvia nel 2022 alla campagna elettorale. La strategia è chiara: annunciare la sua ricandidatura a ridosso delle votazioni, come insegnato da predecessori come François Mitterand, e limitare i congressi pubblici a favore di comparse sul territorio. Macron sconfigge la candidata di estrema destra Marine Le Pen già allo storico dibattito presidenziale a qualche giorno dal voto, data la sua preparazione superiore sulle politiche pubbliche e grandi capacità oratorie, che gli costeranno tuttavia l’etichetta di “arrogante”. Al vero ballottaggio di aprile scorso, Macron incomincia il suo secondo mandato, ottenendo contro Le Pen il 58,55% dei voti.

Da allora il gradimento del presidente Macron sembra calare gradualmente. Ultimamente, la riforma delle pensioni presentata a gennaio rischia di affondare l’apprezzamento dell’esecutivo. Allo stesso tempo, mette alla prova la capacità di Macron di continuare a riformare la Francia nel suo secondo mandato. Al centro della riforma lo spostamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, entro il 2030. Le nuove regole sono audaci, dato che la riforma è proposta in un momento in cui il costo della vita è alto. Nonostante l’inflazione francese sia stata contenuta al 6,7%, le bollette sono in aumento e le piccole imprese faticano. Il 68% dei francesi e il 77% di quelli tra i 35 e i 49 anni si dicono contro la riforma. Tutti i sindacati, anche quelli più moderati, formano un fronte compatto. Il risultato: 1,27 milioni di francesi inondano le strade della Francia, un numero che non si rileva dal 2010. Allo stesso tempo, tuttavia, la riforma è da tempo necessaria. Proposta nel 2020 e poi abbandonata, la manovra mira ad aumentare un’età media di pensionamento che oggi è la terza più bassa nell’Ocse. La Francia spende il 14% del PIL in pensioni, un valore doppio rispetto alla media Ocse (l’Italia spende più del 15%). Il deficit del sistema pensionistico raggiungerà presto i 14 miliardi di euro, un gap che dovrebbe essere colmato dalla riforma.

In un clima di forte mobilitazione sociale e critica dell’esecutivo, Macron, memore che la popolarità va e viene, potrebbe dover solo tenere duro e aspettare che la tempesta passi, nella speranza che non gli sfugga di mano.

*[crediti foto in copertina: EV via Unsplash]

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