È il 10 febbraio 1986, esattamente 35 anni fa, quando a Palermo ha inizio uno dei processi penali più grandi e significativi della storia d’Italia. Con 475 imputati in primo grado e oltre 2600 anni di reclusione inflitti, di cui 19 ergastoli, la vicenda giudiziaria – il primo grande processo alla mafia – passa alla storia come il maxiprocesso.
La sentenza finale della Corte di cassazione avrà luogo quasi 6 anni più tardi dall’inizio della vicenda, il 30 gennaio 1992, ma non sarà che un preludio: della violenta reazione mafiosa nelle stragi del ‘92 da un lato; dall’altro, a pochi giorni dallo scandalo Tangentopoli, della stagione italiana dei processi in tv.
Come si è arrivati al maxiprocesso
Nella Palermo di inizio anni ’80 la situazione è drammatica: il capoluogo siciliano è infatti teatro della seconda guerra di mafia (la prima si era svolta agli inizi degli anni ‘60). Contrapposte le fazioni dei Corleonesi (che avranno la meglio) e quella di “Tano” Badalamenti e Stefano Bontate per la contesa del territorio, nel giro di 2 anni si contano oltre 600 omicidi tra gli uomini di Cosa nostra. Ma a morire non sono soltanto mafiosi: vengono infatti assassinati prima Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo, quindi il presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella e infine il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, da pochi mesi nominato prefetto della città. Oltre a loro, perdono la vita moltissime altre persone che avevano tentato di contrastare il fenomeno mafioso.
Le istituzioni devono reagire, a Palermo la tensione è alle stelle. Una svolta nella lotta a Cosa nostra avviene nell’estate 1982, quando il magistrato Rocco Chinnici ha l’idea del pool antimafia, una squadra ad hoc di giudici istruttori che possa lavorare in gruppo presso l’ufficio istruzione del tribunale di Palermo. Le morti di molti esponenti delle forze armate e del sistema giudiziario – tra cui quella dello stesso Chinnici nel 1983 – a spaventare i molti giudici che, temendo ritorsioni, rifiutano l’incarico di presidente della Corte della giuria popolare (o Corte d’assise).
Nel frattempo però, Antonino Caponnetto, succeduto a Chinnici, amplia l’organizzazione del pool e dà forma all’idea del predecessore, istituendo la squadra vera e propria, ora formata dai giudici istruttori Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Oltre al lavoro del pool, altri elementi chiave per la nascita del maxiprocesso sono la legge Rognoni-La Torre del 1982 (che introduce per la prima volta nel Codice penale il reato di associazione mafiosa) e le prime dichiarazioni dei pentiti, uno su tutti Tommaso Buscetta.
Si giunge così al maxiprocesso del 10 febbraio 1986. L’incarico di presidente della Corte d’assise viene infine assegnato al magistrato Alfonso Giordano; Pietro Grasso, che molti anni dopo sarà Presidente del Senato, è nominato secondo giudice della Corte; l’accusa è rappresentata dai pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino, che lavorano a stretto contatto con l’intero pool.
Un processo senza precedenti
Si giunge dunque al più grande processo mai visto sino ad allora in Italia: 475 imputati in primo grado (che scenderanno a 460 nel corso del processo), decine di diversi capi d’imputazione, oltre 200 avvocati difensori. Tra gli imputati presenti vi sono boss come Pippo Calò, Luciano Liggio e Michele Greco, tra quelli non presenti Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Date le enormi proporzioni, per celebrare il processo deve essere costruita un’aula ad hoc, la cosiddetta “aula bunker”, edificata in pochi mesi a fianco del carcere dell’Ucciardone di Palermo; l’aula dispone di potentissimi meccanismi di protezione (è al sicuro persino da attacchi missilistici) e viene dotata di un avveniristico sistema computerizzato di archiviazione degli atti. Sempre a causa delle grandi proporzioni, poi, l’inchiesta è smembrata in diversi filoni. Nello specifico, il processo di primo grado si conclude (dopo 349 udienze e 36 giorni di riunione in camera di consiglio) il 16 dicembre 1987, con 360 condanne, 114 assoluzioni, 19 ergastoli, pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione e 11 miliardi di lire in pene pecuniarie: Cosa nostra è colpita come mai prima di allora. Il cosiddetto maxiprocesso bis, invece, si apre il 21 aprile 1987, e il primo grado si conclude un anno più tardi; il maxiprocesso ter ha infine inizio nel maggio del 1988, e anche qui il primo grado termina dopo un anno.
Il 30 gennaio 1992 arriva la sentenza della Corte di cassazione per il maxiprocesso uno, che vede la conferma di tutte le condanne e l’annullamento di gran parte delle assoluzioni, con la disposizione di un nuovo giudizio per gli imputati prima assolti. La reazione di Cosa nostra ai tentativi di contrasto da parte dello Stato è molto dura e non tarda ad arrivare: la vendetta si consuma con una lunghissima serie di delitti agli inizi degli anni ‘90, in cui perdono la vita, fra gli altri, i giudici istruttori Giovanni Falcone (strage di Capaci) e Paolo Borsellino (strage di Via D’Amelio) e il giornalista Beppe Alfano.
L’eredità del maxiprocesso
All’esperienza del maxiprocesso si fanno risalire anzitutto gli organi di indagine tuttora operativi sul fronte antimafia. È infatti Nell’autunno del 1991 che, per rendere ancora più efficace la lotta a Cosa nostra, sono istituiti l’ufficio di coordinamento delle procure distrettuali, cioè la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (DNAA), e l’organismo investigativo ad hoc, ossia la Direzione Investigativa Antimafia (DIA), formata da membri scelti tra gli appartenenti alle varie forze di polizia italiane e al personale civile dell’amministrazione dell’Interno.
Una seconda grande eredità del maxiprocesso sono gli effetti delle sue sentenze: mai più, ad esempio, sarà messa in dubbio l’esistenza dell’organizzazione chiamata Cosa nostra, riconosciuta per la prima volta proprio dal pool; allo stesso modo, mai più ci sarà la necessità di dimostrare il principio della responsabilità oggettiva della cupola (grazie alla validità attribuita al “teorema Buscetta”, secondo cui tutti i boss che fanno parte della cupola sono responsabili di tutti gli omicidi eccellenti); in quasi tutti i processi successivi verrà poi data grande importanza alle dichiarazioni dei pentiti, di cui Buscetta fu “pioniere”.
Anche presso i cittadini, processando e condannando molti potenti boss, viene meno il mito dell’impunità della mafia, che prima di allora era alimentato anche dai vani tentativi dello Stato di arginare le attività dell’organizzazione.
I maxiprocessi di oggi
Dal 1986 non sono più stati celebrati processi di queste dimensioni, almeno fino al 13 gennaio 2021, data di inizio del cosiddetto maxiprocesso alla ‘ndrangheta (nato dalle indagini della procura distrettuale antimafia di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri). Anche in questo caso il nome suggerisce le gigantesche proporzioni della vicenda: si parla di oltre 325 imputati e circa 400 capi d’accusa; gli avvocati difensori sono addirittura più di 600, il triplo di quelli presenti al maxiprocesso dell’86, unico processo paragonabile per dimensioni.
Un altro tratto comune è il fondamentale ruolo che giocheranno i pentiti, che in questo caso sono quasi 60 (nel 1986 oltre a Buscetta ne erano presenti altri 20); la quasi triplicazione del numero conferma il crescente utilizzo di questo tipo di testimonianze a partire dal primo maxiprocesso. Anche a Lamezia Terme (CZ), come a Palermo, è stata allestita una gigantesca aula bunker per celebrare il processo, ed è stata dotata dei più moderni sistemi di protezione ed archiviazione.
Malgrado i casi siano paragonabili, non mancano le differenze: la principale sta nel fatto che il processo di Lamezia Terme si svolgerà a telecamere spente, mentre, come vedremo meglio in seguito, la televisione era protagonista in quello di Palermo; l’attenzione che i media italiani stanno dedicando al maxiprocesso alla ‘ndrangheta, inoltre, complice anche la crisi di governo, è molto inferiore rispetto al clima fremente che accompagnava il maxiprocesso del 1986. L’odierno processo, infine, è incentrato anche su ramificazioni della ‘ndrangheta in altre regioni e su significativi rapporti di essa con politica e massoneria deviata, mentre il maxiprocesso di Palermo si basava quasi del tutto su eventi avvenuti in Sicilia e non teneva conto (se ne sarebbe discusso in momenti successivi) dei rapporti con lo Stato, anche a causa del fatto che, almeno inizialmente, pentiti come Buscetta non volevano rilasciare dichiarazioni in merito.
Un processo in diretta TV
Come accennato precedentemente, se il maxiprocesso entra sin da subito nell’immaginario collettivo è anche grazie ai mezzi di comunicazione, e, in particolare, al piccolo schermo: la Rai ottiene l’esclusiva sulle riprese televisive (che verranno poi trasmesse in mondovisione), e i momenti salienti del processo, come il confronto tra Buscetta e Calò o la lettura della sentenza, entrano nelle case di tutti gli italiani. Per la prima volta, i telespettatori possono osservare ripetutamente tutti i protagonisti della vicenda, dai giudici agli imputati. Qualche anno più tardi, con lo scoppio del caso Tangentopoli, l’abitudine di trasmettere processi in televisione si consoliderà, con gli italiani che per la prima volta vedranno noti parlamentari rispondere, anziché alle domande dei giornalisti delle tribune elettorali, a quelle dei pubblici ministeri. Come nel caso del maxiprocesso, il piccolo schermo alimenta continuamente l’attenzione del pubblico sullo scandalo delle tangenti. La resa dei conti si gioca nella competizione elettorale del 1994, dove quasi tutti i principali partiti che erano stati i pilastri della vita politica repubblicana fino ad allora cedono il passo a una nuova stagione politica. Si va molto oltre le semplici riprese delle vicende che accadono in aula, perché nascono anche molti programmi di approfondimento dedicati quasi interamente ai fatti inerenti lo scandalo, che portano lo spettatore ad essere dentro la vicenda quasi 24 ore su 24.
La “popolarizzazione” dei processi a mezzo tv proseguirà poi in un climax ascendente negli anni, fino ai giorni nostri, e rispecchia una delle tendenze rilevate dagli osservatori in materia: quella di un’informazione che sfuma in intrattenimento (il c.d. fenomeno dell’infotainment). Va precisato, però, che il successo delle riprese dei processi all’interno dei palinsesti italiani si deve anche alla particolarità del nostro Paese, un Paese tv-centrico, caratterizzato cioè da un’opinione pubblica in cui la televisione come mezzo di comunicazione di massa non ha mai avuto rivali, a differenza che in altri Stati, almeno fino all’avvento di internet.