Innanzitutto, una data. Già qui, il dibattito è acceso, causa una mancanza di dati certi, oltre ad una definizione spesso equivoca di cosa è mafia e cosa no. Per la definizione di mafia, la pietra miliare è l’articolo 416-bis del Codice Penale, la legge Rognoni-La Torre del 1982, che individua come caratteristica tipica del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso la forza di intimidazione del vincolo mafioso. Sulla data, la corrente più affermata colloca tra il 1860 e il 1876 la nascita della mafia. Ma come è nata la mafia?
La povertà?
Una prima risposta potrebbe essere la condizione di sottosviluppo che viveva la Sicilia in quegli anni, e che avrebbe favorito il proliferare della criminalità. Per quanto appetibile, questa risposta non trova riscontro storico: la Sicilia post-unitaria è stata la Sicilia con il minore divario in termini di Pil rispetto al resto d’Italia. La Regione mantenne quei livelli di ricchezza fino alla fine dell’Ottocento, quando la mafia si era già affermata. Il distacco si sarebbe poi inasprito con gli anni e mai più colmato nel Novecento.
Ci sono prove certe della mafia già nel 1876, quando venne pubblicata la relazione Franchetti-Sonnino. I due si riferirono alla mafia in termini che ora ci sembrano usuali. Scrissero della mafia come “industria della violenza”, sottolineando la forza intimidatoria della mafia che venne fotografata più di cent’anni dopo, con la legge Rognoni-La Torre, nel 1982. Più di cento anni ci mise l’Italia a rendere illegale il vincolo mafioso, ma questa è un’altra storia.
Tra l’altro, la Sicilia era la seconda Regione più ricca del Sud, inferiore solo alla Campania, che all’epoca era più ricca della media nazionale, ma in cui la camorra era presente da prima della mafia siciliana. La mafia, inoltre, non si radicò in modo omogeneo in Sicilia, concentrandosi nella Sicilia occidentale, soprattutto intorno a Palermo, che allora era la parte più ricca della Sicilia. Sembra dunque difficile attribuire alla povertà la causa della nascita della mafia. Ma allora, perché la mafia è nata proprio in Sicilia?
L’industria della protezione
La risposta più convincente è fornita da Diego Gambetta, sociologo del Collegio Carlo Alberto di Torino. Per Gambetta, la chiave sta nella capacità dei gruppi criminali di colmare il vuoto di potere lasciato dalla caduta del feudalesimo nel 1812.
Quando nel 1812 i Borboni approvarono ufficialmente la caduta del feudalesimo, che dava ai baroni il diritto di amministrare giustizia civile e penale sul proprio feudo, si creò un contenzioso tra i contadini siciliani, che cercavano di accaparrarsi le terre dei baroni, e gli stessi baroni, che non avevano alcuna intenzione di permetterglielo. Emerse dunque una domanda di protezione delle terre da parte dei baroni, che venne soddisfatta da gruppi criminali antesignani della mafia siciliana. Una nuova domanda di protezione, però, da sola non basta a creare un fenomeno mafioso. La nascita della mafia si deve alla legittimazione della violenza da parte dei potenti, che permase durante tutto l’Ottocento.
La legittimazione politica della mafia
La spedizione dei Mille di Garibaldi, che portò all’Unità d’Italia, ricevette dalle famiglie mafiose un aiuto determinante. Queste erano esperte nell’uso delle armi e nel controllo militare del territorio, acquisito attraverso il mercato della protezione, e divennero il braccio armato di Garibaldi contro il potere borbonico. Ne era convinto anche Rocco Chinnici, magistrato e ideatore del pool antimafia, che sostenne che già all’epoca la mafia cercò questa alleanza politica come reazione, conservazione e connivenza con il potere politico. Di fatto, una prima trattativa Stato-mafia.
Di particolare interesse è, poi, il contributo delle cosche mafiose nella repressione dei Fasci siciliani, nel 1893. La mafia si era contraddistinta durante tutto l’Ottocento nel sedare le rivolte contadine in difesa dei possedimenti terrieri, in opposizione ai briganti, che invece le fomentavano. I Fasci siciliani però costituirono il primo movimento organizzato, di ispirazione proletaria e socialista, che chiedeva la redistribuzione delle terre e riforme fiscali progressive. Dopo anni di proteste, il movimento venne represso dal governo Crispi con una violenta azione militare, con un contributo, di nuovo determinante, della mafia siciliana.
La repressione dei Fasci siciliani mette in luce ancora una volta la connivenza tra la mafia e il giovane Regno d’Italia. L’azione di repressione della mafia da parte dello Stato era morbida, se non inesistente, proprio perché il governo poteva contare in Sicilia sul braccio armato mafioso. Ma i Fasci siciliani insegnano anche un’altra cosa. Meno di trent’anni dopo, un altro gruppo venne legittimato ad affiancarsi allo Stato nella repressione delle rivolte proletarie, con l’avallo della classe industriale del Paese. Era il 1919, che inaugurò il biennio rosso delle reclamazioni contadine e operaie, e il gruppo che venne legittimato all’uso della violenza era il neonato movimento dei Fasci di combattimento, guidato da Benito Mussolini.
Lo Stato è la mafia?
Secondo il sociologo Max Weber, lo Stato è l’organizzazione capace di esercitare il monopolio della violenza. Lo Stato è, dunque, innanzitutto l’esercito e la polizia. Si può dire che il Regno d’Italia esercitasse il monopolio della violenza in Sicilia? Conoscendo i fatti dei Fasci siciliani, è facile dubitarne. Ma allo stesso modo, aveva invece la mafia il monopolio della violenza? Qui la risposta è più complessa. A mano a mano che si strutturò, la mafia ampliò i suoi compiti rispetto alla tradizionale protezione militare, ponendosi come garante delle transazioni economiche e risolutrice delle controversie civili e penali.
Gambetta, per spiegarlo, adatta l’esempio del mercato dei limoni di Akerlof, economista e premio nobel, al contesto mafioso. In un mercato di limoni, il venditore ha maggiori informazioni sulle condizioni del raccolto dei propri limoni. Quindi, nel comprarli, l’altra parte rischia di essere raggirata, perché il venditore ha un incentivo a spacciare i propri limoni come di alta qualità, anche se non lo sono. Questo non sarebbe un problema, se il compratore avesse uno Stato a cui rivolgersi in caso di raggiro, ma siamo nella Sicilia del neonato e debole Regno d’Italia. Il mafioso, invece, può porsi come garante dell’accordo, perché capace di rivalersi sul malfattore con mezzi ben più potenti dello Stato. In questo caso, le parti sono addirittura felici di pagare una commissione al mafioso per la garanzia, perché altrimenti lo scambio non sarebbe avvenuto.
Se la mafia esercitava un certo controllo, il Regno d’Italia, per quanto debole, comunque esisteva in Sicilia. Più che uno Stato mafioso, quindi, si instaurò un’alleanza, militare e politica, tra Stato e mafia, che il Regno d’Italia ripagò con l’assenza di repressione. Questo patto venne messo in discussione solo con l’azione del prefetto Cesare Mori, prima nel 1909 quando venne nominato commissario, e poi durante il ventennio fascista. Allora era un’altra mafia, lontana da quelle potenti e arricchite dal commercio della droga che conosciamo oggi, ma comunque ci fu un primo serio tentativo di repressione. Nonostante i proclami fascisti, comunque, la mafia non si estinse.
Le radici della mafia
La mafia, dunque, nacque dal terreno fertile della prima metà dell’Ottocento, quando gruppi criminali offrivano protezione alle terre dei potenti. Questi primi gruppi criminali trovarono una struttura mafiosa vera e propria con la nascita del Regno d’Italia, che ne legittimò il potere e si servì della sua violenza. Come disse Borsellino, in una citazione molto diffusa ma mai banale, politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra, o si mettono d’accordo.
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