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Le vicende in Sudan, il conflitto e l’accordo

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Orizzonti Politici conclude con questo articolo la sua analisi sulle vicende di uno dei paesi più importanti e turbolenti del continente africano. Dall’analisi della sua storia, lo storico referendum di separazione con il Sud Sudan, affrontiamo ora le vicende più recenti, il conflitto del 2019 e l’accordo trovato i primi di luglio per portare finalmente il paese verso le elezioni.

La situazione dopo il 2011

Negli anni successivi al referendum per l’indipendenza del Sud Sudan, la situazione nel Sudan ormai orfano della sua parte meridionale non migliora affatto. La condanna da parte della Corte Criminale Internazionale del presidente sudanese al-Bashir per i suoi crimini durante il conflitto in Darfur minaccia la legittimità del regime. Ciò attira numerose sanzioni internazionali, soprattutto di origine statunitense.
Queste sanzioni si concentrano principalmente sull’export di materie prime, da sempre la colonna portante dell’economia sudanese.

Le sanzioni hanno un forte effetto sull’economia del paese, e il governo non riesce a trovare accordi per diminuirle. In aggiunta, l’indipendenza delle zone petrolifere ora sotto il controllo del Sud Sudan ha diminuito grandemente la capacità estrattiva del paese. Questo causa il primo innalzamento dei prezzi dei beni di prima necessità e un’ondata di proteste contro il regime nel Giugno 2012. A guidarla, l’Associazione dei Professionisti Sudanesi (SPA), un’organizzazione composta dai sindacati clandestini di dottori, avvocati e artigiani. A decine muoiono o restano feriti sotto il fuoco dell’esercito, la risposta tipica del governo contro i manifestanti. Eppure, l’ennesimo episodio di violenza, di soppressione dei diritti civili, insieme alle disastrose condizioni economiche del paese, si riveleranno essere la miccia delle violente proteste degli anni a seguire, e il filo conduttore che ci porterà fino al conflitto e l’accordo del 2019.

La risposta del regime e gli anni delle proteste

Negli anni che vanno dalle proteste del 2012 al 2019, sono due le grandi costanti della situazione in Sudan, e in particolare nella capitale, Khartoum.
Da una parte, al-Bashir si dimostra sempre più impotente di fronte al peggiorare delle condizioni economiche, pur tentando di porre freno alla crisi con ulteriori politiche di austerità e numerosi cambi all’interno dell’esecutivo. Persino il suo suo storico alleato e vicepresidente Ali Osman Taha viene licenziato, nel 2013. La sua ricerca di legittimità internazionale lo porterà a indire un’elezione nell’aprile 2015, con i consueti sospetti intorno alla legittimità delle procedure, che gli consegnano un ennesimo mandato quinquennale con il 95% delle preferenze.

Dall’altra, i manifestanti continuano ad aumentare. Le proteste sui prezzi di cibo, elettricità e acqua si susseguono nella capitale, nonostante vengano spesso soffocate nel sangue. La situazione non sfugge alla comunità internazionale, con il Consigliere di Stato statunitense John Bolton che nel 2017 definisce la gestione delle proteste da parte del governo “abhorrent”, orreda. Per limitare le vittime, gli USA annunciano una parziale sospensione delle sanzioni, nella speranza di attenuare la crisi. Questo però non fa altro che evidenziare la situazione di instabilità del governo del Sudan agli occhi dei protestanti.

Le proteste continuano a crescere per tutto il 2018, costringendo al-Bashir a dichiarare lo stato di emergenza, e a sostituire l’intero gabinetto di governo, in un ultimo tentativo di prolungare il regime.
Il climax si raggiunge il 6 Aprile 2019, quando decine di migliaia di persone si radunano davanti al quartier generale dell’esercito a Khartoum chiedendo la deposizione di al-Bashir. Cinque giorni dopo, nel generale visibilio della folla, l’esercito annuncia di aver deposto e catturato l’ex dittatore. La strada del Sudan verso la democrazia, però, mantiene la sua consueta tortuosità.

Il conflitto in Sudan dopo la deposizione

Immediatamente dopo l’annuncio della caduta di al-Bashir, i rappresentanti militari e quelli civili dell’SPA si riuniscono per trovare un accordo sul governo di transizione. Questo avrebbe dovuto guidare il Sudan verso le sue prime elezioni democratiche in un trentennio (per saperne di più sulla storia del Sudan, ti rimandiamo al nostro articolo). Viene eletto presidente ad interim Abdel Fattah AL-Burhan, ex numero tre dell’ultima amministrazione Bashir, ma apprezzato dalla popolazione per il suo comportamento rispettoso del diritto internazionale. Questo si accorda con l’SPA per un periodo di transizione di due anni, in modo da preparare al meglio il paese alle elezioni.

Eppure, a detta di molti, il potere è realmente in mano al temutissimo generale Mohamed Hamdam Dagalo. Ex comandante delle bande JanJaWeed durante il conflitto in Darfur, condannato per crimini di guerra e genocidio. Appena il nuovo governo si insedia, Dagalo inizia a lavorare per riportare l’ordine nella capitale, che nel frattempo si era riempita di manifestanti giunti a festeggiare. In particolare, da metà maggio, annuncia la creazione di un nuovo gruppo paramilitare di controllo delle manifestazioni, le “Rapid Strike Forces” (RSF), composte da molti dei colpevoli del genocidio in Darfur, in un macabro rebranding dei JanJaWeed.

 

La soluzione precipita nuovamente quando il governo annuncia che il periodo di transizione sarà accorciato a 9 mesi. Essendo a conoscenza dell’impossibilità di organizzare delle elezioni valide in così poco tempo, i rappresentanti SPA riconoscono un tentativo di ripristinare una dittatura. Al grido di “Vittoria o Egitto” (in riferimento al colpo di stato dell’attuale dittatore egiziano al-Sisi, che ha stroncato le speranze democratiche del paese nel 2012), centinaia di migliaia di persone tornano in piazza per sfidare il governo provvisorio. Nella tragica manifestazione del 3 Giugno, Dagalo sguinzaglia per la prima volta le RSF, causando almeno 128 morti e centinaia di feriti e stupri. Il 4 Giugno, l’SPA annuncia uno sciopero generale per “paralizzare la vita pubblica in Sudan” e costringere il governo a mantenere le sue promesse. Questo dà inizio a un mese di estrema violenza contro i manifestanti, che termina grazie alla mediazione internazionale nei primi di Luglio 2019.

L’accordo tra civili e militari e il destino del Sudan

Il 2 Luglio 2019, nella villa di un milionario sudanese, si stringe l’accordo che potrebbe terminare il conflitto in Sudan, come riportato dal New York Times. A incontrarsi, il rappresentante dell’SPA e dei comunisti Sudanesi, Dagalo, diplomatici americani, britannici, sauditi, etiopi ed emirati e il rappresentante dell’Unione Africana Hebatt.

 

 

Il risultato dell’incontro è uno storico accordo che prevede la composizione di un consiglio governativo di transizione composto da cinque civili, cinque militari e un membro della comunità internazionale. Il presidente sarà un militare per i primi 21 mesi e un civile per i successivi 18, per un totale di tre anni di transizione verso le elezioni. L’SPA assicura che queste saranno libere e democratiche. Questa può essere vista come una grande vittoria per i manifestanti, ma molti dubbi rimangono sulle reali intenzioni dei militari, e soprattutto di Dagalo, di concedere il potere allo scadere dei 21 mesi.

La grande novità dell’incontro, oltre al fondamentale accordo e il terminare almeno momentaneo del conflitto, è la nuova posizione americana nei confronti delle due grandi potenze della penisola arabica, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Questi sono infatti gli storici alleati sia degli Stati Uniti (nella lotta contro l’Iran) sia del regime sudanese (temendo lo spargersi di proposte democratiche nei loro paesi). Vista la loro posizione di superiorità nell’area le due potenze sono ora coinvolte nel sostenere il governo dello Yemen nel terribile conflitto etnico contro i ribelli Houthi. In questa guerra hanno partecipato anche decine di migliaia di bambini soldato sudanesi inviati proprio da Dagalo.

Dopo decenni di supporto quasi incondizionato, questa volta gli USA si sono invece fermamente schierati con l’SPA, costringendo le potenze arabe a limitare il loro supporto al regime militare e favorendo la stesura dell’accordo.
Quello che potrebbe essere un passo decisivo per terminare il conflitto e portare il Sudan verso le elezioni sembrerebbe quindi rappresentare anche una svolta nella politica estera statunitense nell’esplosivo scenario mediorientale.

Ludovico Bianchihttps://orizzontipolitici.it
Genovese, ligure, europeo. Laureato in International Politics all’università Bocconi, ora sono uno studente Double Degree con Sciences Po e mi occupo attivamente di Africa Centrale per non farmi mancare niente. Sempre però con con il mare negli occhi, il Milan nel cuore e soprattutto storia e politica nei pensieri.

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