Quando la sicurezza di un Paese è minacciata da un grave ed imminente pericolo, che si tratti di conflitti interni, di catastrofi naturali o, come nella fattispecie, di epidemie, spesso è lo stesso testo costituzionale ad indicare la possibilità per il governo di adottare misure di carattere temporaneo volte a proteggere i propri cittadini. Si tratta di provvedimenti che, talvolta, limitano le libertà fondamentali ma, proprio perché impiegate al fine di salvaguardare la salute pubblica sono accettate dai governati. Tuttavia, le restrizioni che oggi quasi tutti i Paesi hanno adottato per far fronte al Coronavirus, giunto in un momento già difficile per lo stato di diritto, in alcuni casi, soprattutto nei Paesi appartenenti alla regione mediorientale, si sono spinte troppo oltre, trasformando la gestione emergenziale in un mero strumento di imposizione autoritaria.
Sembra proprio che il virus sia divenuto un ottimo alibi per i leader autocratici di tutto il mondo per espandere i propri poteri individuali. Dall’Europa al Medio Oriente, dall’Asia all’America Latina, i governanti dei Paesi autoritari, hanno compreso che si trovano nel momento propizio per aumentare e consolidare sproporzionatamente i loro poteri, ridurre libertà e diritti individuali, censurare i giornali e i media e indebolire dissenso e opposizione, nella consapevolezza che le loro popolazioni le subiranno passivamente come misure necessarie per combattere l’epidemia.
“Ci si potrebbe trovare di fronte ad un’epidemia parallela fatta di misure autoritarie e repressive” ha annunciato Fionnuala Ni Aolain, relatore speciale delle Nazioni Unite per l’antiterrorismo e i diritti umani. I governi autoritari, come è solito in situazioni emergenziali, sono infatti impegnati in una sorveglianza invasiva in nome della salute pubblica proprio perché, in tempi di crisi, gli equilibri istituzionali vengono spesso ignorati in nome del potere esecutivo.
La prima reazione di alcuni autocrati e dittatori è stata quella, tipica dei populisti, di screditare scienziati ed esperti, sostenendo che il Covid-19 fosse soltanto una semplice influenza e, quindi, non un valido motivo per imporre un totale lockdown. Questi sono gli autocrati negazionisti, tra cui spicca il bielorusso Lukašenka, a cui si affiancano coloro che, invece, sfruttano l’emergenza per soffocare critiche e dissenso, proprio come sta accadendo in Medio Oriente, dove la pandemia in corso ha avuto, e continua ad avere, effetti e conseguenze diverse da Paese a Paese.
Iran: l’epicentro dell’epidemia in Medio Oriente
Il Medio Oriente rappresenta una regione estremamente eterogenea in termini di strumenti di assistenza socio-sanitaria. Paesi come Israele e Tunisia, ad esempio, dispongo di sistemi sanitari piuttosto avanzati e di cuscinetti in grado di attutire l’urto economico della crisi rispetto a realtà come il Libano, che invece è sprofondato in una crisi economica senza precedenti risultata nella dichiarazione di default sul debito.
L’incipit ideale per un’analisi delle variazioni nei livelli di autoritarismo nei regimi mediorientali è l’epicentro della crisi epidemica: l’Iran. Il regime illiberale islamico iraniano attraversava un periodo nero di crisi economico-politica già da prima della diffusione del Covid-19. La paura di un definitivo collasso ha portato il governo di Teheran ad un ritardo nell’imposizione del lockdown nel Paese. Il primo focolaio si è sviluppato nel centro di Qom, recentemente diventato un importante hub economico-strategico grazie agli investimenti operati dalla Cina nel quadro dell’iniziativa “One Belt One Road”. Proprio questo stretto legame col gigante asiatico, ed il conseguente traffico di beni e persone, è stato identificato come scintilla dell’incendio Covid-19 in tutto il Medio Oriente.
La Repubblica Islamica ha da sempre imposto una ferrea morsa alla libertà di stampa nel Paese. Tuttavia, è opinione diffusa all’interno della comunità investigativa di riferimento che ulteriori controlli e limitazioni abbiano permesso al governo di Teheran di manipolare numeri e informazioni reali sulla crisi in corso. La portata di simili azioni avrebbe sicuramente amplificato esponenzialmente la capacità di diffusione del virus in virtù dell’elevatissimo numero di persone che dagli Stati limitrofi si recano in Iran per ragioni di lavoro o religiose.
La Shin Bet per far fronte al Covid-19 in Israele
Diversa invece la situazione in Israele, non rientrando inoltre nel novero dei regimi autoritari. Il governo è stato guidato ad interim dallo storico premier Benjamin Netanyahu, esponente del centro destra israeliano, da sempre archetipo dell’uomo solo al comando. Il Paese, nonostante vanti un solido sistema elettorale, prima della diffusione a livello mondiale del Covid-19 si trovava ad affrontare una fase di stallo istituzionale con pochi precedenti nella sua storia. Le ultime tre tornate elettorali, infatti, non hanno coronato nessun candidato come netto vincitore, ma il partito Blu e bianco, guidato da Benny Gantz ha ottenuto i numeri per formare un esecutivo grazie al supporto di partiti minori. Tuttavia, la presa di posizione da parte dell’ala destra del partito di Gantz ha rallentato i tentativi di formazione del primo governo non guidato da Netanyahu in 11 anni. La diffusione del Coronavirus nella regione però, per necessità istituzionali, ha permesso al premier in carica di rimanere al potere ad interim, e di lavorare a una “Große Koalition” con Gantz.
Diverse sono le accuse mosse nei confronti di Netanyahu. Secondo l’opposizione il premier sarebbe reo di aver cavalcato l’onda della crisi sanitaria per modellare la democrazia israeliana a suo volere. Questo malcontento diffuso è risultato nella storica manifestazione che ha avuto luogo a Tel Aviv il 19 aprile durante la quale i manifestanti hanno mantenuto un distanziamento fisico di due metri e sono diventati il simbolo della manifestazione democratica di dissenso anche in periodo di crisi.
Il premier avrebbe, infatti, messo in funzione una serie di meccanismi volti al tracciamento dei nuovi contagiati ritenuti particolarmente invasivi dei diritti personali, come il monitoraggio per mano della Shin Bet (agenzia di sicurezza interna) degli smartphone delle persone entrate in contatto con malati Covid-19, anche senza la certezza di un’effettiva interazione. In simili circostanze è stata portata a termine anche la chiusura della Knesset, il parlamento israeliano, a poche ore da una potenziale svolta storica in cui Edelstein, esponente Likud, avrebbe potuto perdere il ruolo di speaker. Così però non è stato e il partito di Netanyahu continua a controllare l’organo legislativo.
Perpetuo stato di emergenza in Egitto
Meno resistenza, com’era prevedibile, hanno dimostrato invece le istituzioni egiziane. Al Cairo, sin dalla morte dell’ex presidente Sadat nel 1981, ogni scusa è sempre apparsa buona per prolungare la legge marziale e la pandemia globale da Coronavirus ha confermato questa tendenza. In Egitto, infatti, sin dall’inizio degli anni ‘80, l’ex Capo di Stato Mubarak ha prolungato continuamente lo stato di emergenza, imponendo ferrati controlli alla libertà di stampa e operando torture e omicidi ai danni di oppositori politici del regime.
Anche il regime del Presidente Al-Sisi è accusato di aver manipolato i numeri sulla diffusione della pandemia e di aver militarizzato questo conflitto, nonostante il nemico in questione abbia poco a che fare con un conflitto armato vero e proprio. La giornalista del Guardian Ruth Michaelson, ad esempio, inviata al Cairo per indagare sui report emessi dal governo egiziano sulla crisi sanitaria in corso, è stata informata da diplomatici occidentali della volontà del regime di intervenire per interrompere le sue ricerche. La vicenda, fortunatamente, ha avuto esito migliore rispetto a quello riservato al ricercatore italiano, Patrick George Zaki, in tempi recenti.
Quale sarà lo scenario post-emergenziale?
La tentazione autoritaria e l’attacco alle libertà democratiche sembrano essere un effetto collaterale della pandemia. Il rischio è che i governi non rimuovano completamente tali misure straordinarie, bensì le normalizzino al fine di garantire la sopravvivenza delle classi al potere. Tuttavia, la stretta autoritaria dei leader autocratici potrebbe anche fungere da arma a doppio taglio e riversarsi contro gli stessi. In molti Paesi il virus ha reso le persone più povere ma anche più sfiduciate e insofferenti nei confronti dei propri governanti la cui incapacità di affrontare la sofferenza popolare potrebbe scardinare il mito della loro inespugnabilità. Inoltre, i regimi autoritari sono mal equipaggiati nel fronteggiare il virus, richiedendo quest’ultimo una libera circolazione delle informazioni e un dialogo aperto tra cittadini e governanti.
Cosa si prevede in uno scenario post-emergenziale? La svolta autoritaria, in Paesi dove già esistevano fragili democrazie e dove i parlamenti avevano solo un ruolo di facciata e spesso erano anche ostaggio dei militari, rischierebbe di far rivivere anni bui della storia tanto che alcuni parlano di “democrazia in ritirata”. Tornerà una vita istituzionale normale? Tornerà un equilibrio tra i poteri? Quid per i diritti compressi? Il coronavirus potrebbe non essere solo una breve “parentesi”, come l’avrebbe intesa Benedetto Croce, della vita politica e sociale, ma concreto è il pericolo di aggravamento non solo della rigidità dei regimi autoritari, ma anche della crisi delle democrazie e dell’ideale di stato di diritto.
Analisi in collaborazione con Aware