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Da Banat all’Olp, così la Palestina è entrata in crisi

Tempo di lettura stimato: 6 min.

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La crisi della leadership in Palestina sembra essere arrivata a un punto di non ritorno, stritolata dal rapporto di cooperazione con Israele e la rivalità con Hamas. Fatale è stata l’uccisione di Nizar Banat, attivista palestinese e candidato alle elezioni che si sarebbero dovute tenere nel maggio scorso, perpetrata dalle forze di polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), il 24 giugno 2021. La sua morte si è ben presto trasformata in una miccia esplosiva, scatenando proteste e forti scontri tra la popolazione e le forze di polizia, supportate da squadroni di sostenitori di Al-Fatah, la fazione maggioritaria dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) per anni appannaggio di Yasser Arafat e ora sotto il controllo del suo vice, Mahmoud Abbas.

Un omicidio politico

Arrestato alle prime ore dell’alba nella sua casa di Hebron, in Cisgiordania, Nizar Banat è morto mentre si trovava sotto custodia, a causa delle percosse ricevute. Fortemente critico nei confronti della leadership di Abbas, Banat è subito diventato un simbolo della repressione dell’Anp, il governo dei territori palestinesi, nei confronti di ogni forma di dissenso. Come evidenziano studiosi e esperti, il caso Banat è infatti solo l’ultimo di una lunghissima serie, a testimonianza di come il sistema politico nei territori palestinesi sia fondato sulla repressione e la violenza. Decenni di torture e abusi attuati dalle forze di sicurezza hanno portato all’instaurazione di quello che molti definiscono un «regime quasi-autoritario». Il governo di Mahmoud Abbas, in carica da ormai quindici anni senza essersi mai sottoposto alle elezioni, vive in uno stato di completa disconnessione rispetto alla popolazione. Supportato quasi esclusivamente all’estero, in primis dagli Stati Uniti, è a capo di un organismo vitale per il mantenimento della sicurezza israeliana nel West-Bank, divenuto ormai un lontano parente rispetto all’aurea di invincibilità che circondava Arafat. Diversi osservatori avevano vaticinato con anticipo la decisione di Abbas di sospendere la triplice tornata elettorale che avrebbe dovuto eleggere nell’ordine il Parlamento palestinese, il presidente dell’Autorità palestinese e il Parlamento dell’Olp. E così è stato.

La crisi senza fine dell’Autorità Nazionale Palestinese

Il caso Banat è dunque la goccia che rischia di far traboccare un vaso piuttosto precario. I violenti scontri che hanno attraversato le città palestinesi sono il sintomo di profonde tensioni interne che nascono proprio dalla decisione di rinviare le tanto agognate elezioni. Un appuntamento cruciale per la stabilità della regione mediorientale, uno spartiacque storico in una delle aree più bollenti del pianeta. Questo perché, a partire dallo scontro che nel 2006 ha incendiato Gaza, i territori sono sostanzialmente divisi in due: da una parte la Cisgiordania a guida Al-Fatah, dall’altra Gaza, governata da Hamas. Proprio a seguito della presa del potere di Hamas nella Striscia (2007), il presidente dell’Anp Abbas aveva deciso di far decadere il governo di Ismail Haniyeh, leader del movimento e vincitore delle ultime elezioni. Da allora, si è assistito a un costante declino della fazione di Abbas, mentre Hamas ha visto crescere i suoi consensi e la sua influenza nel frastagliato panorama politico palestinese. Su tutti, l’ultimo conflitto tra il gruppo della Striscia e Israele, scoppiato nel maggio 2021, ha sicuramente favorito Hamas sotto molti punti di vista: dall’impatto mediatico dei bombardamenti sulla popolazione di Gaza da parte dell’aviazione israeliana al rafforzamento del proprio ruolo in Cisgiordania, fino ad arrivare all’esplosione delle tensioni tra cittadini arabi e ebrei in Israele, rompendo una convivenza che rischia di minare le fondamenta su cui si basa lo Stato ebraico. Tutto questo è avvenuto proprio a discapito di Abbas. La sua completa irrilevanza politica e istituzionale nel corso degli scontri è stata uno dei più interessanti temi di analisi, dal momento che né Hamas né Israele ha pensato di coinvolgere il presidente nei tentativi di arrivare a un cessate-al-fuoco.

Una leadership senza popolo 

L’Anp sconta il costo di un destino fatale. Pensata come organizzazione governativa per raccogliere le varie anime politiche palestinesi e traghettare i territori verso la creazione di uno Stato indipendente, come sottoscritto negli storici accordi di Oslo del 1994, è diventata oggi uno strumento nelle mani del governo israeliano, completamente sconnessa dalla popolazione che dovrebbe amministrare. La collaborazione con le forze di sicurezza di Gerusalemme, uno dei capisaldi degli accordi stipulati in Norvegia, si è trasformata nell’accusa di collaborazionismo con il nemico, visto il naufragio di quello che doveva essere «l’accordo del secolo». Se per Arafat dunque l’Anp si trattava di un mezzo per arrivare a un fine preciso, la creazione di uno Stato indipendente, sotto Abbas l’Anp non ha fatto altro che trasformarsi in una allegoria di sé stessa. Legittimato all’estero ma senza appoggio interno, affrontato da Hamas sul tema della «questione palestinese», Abbas è ormai una figura completamente priva di capitale politico. Un’erosione che tuttavia rischia di costare moltissimo in termini di stabilità regionale.

La preoccupazione americana

La debolezza cronica della leadership palestinese dell’Anp, accompagnata dall’ostracismo internazionale nei confronti di Hamas, ha permesso a Israele di portare al limite la sua politica di «massima pressione», creando allo stesso tempo i presupposti per il fallimento di ogni sforzo di pacificazione. Tuttavia, una situazione così instabile ha portato alla condizione in cui, se anche si dovessero creare i presupposti, in Israele, per cercare di trovare un accordo con i palestinesi, è altamente probabile che non ci sarà nessuno in Palestina abbastanza legittimato politicamente da poter firmare un accordo significativo e duraturo.

Una situazione che comincia a preoccupare anche le grandi potenze, su tutti gli Stati Uniti. Se per anni infatti né gli Usa, né tantomeno l’Unione europea, hanno mai imposto a Mahmoud Abbas di rispettare lo stato di diritto, favorendo nuove elezioni, perché preoccupati dal fatto che Hamas potesse rafforzare la propria posizione anche in Cisgiordania, sembra che si sia giunti a un punto di svolta. Il vicesegretario di Stato americano per Israele e gli affari palestinesi, Hady Amr, lo scorso 17 luglio ha avvertito le autorità israeliane che l’Anp si trova in una situazione “difficile e pericolosa”, sia economicamente che politicamente. Amr ha inoltre esortato Israele a prendere misure per migliorare la situazione economica e politica dell’amministrazione palestinese, a causa dei potenziali rischi che comporterebbe il collasso dell’organo di governo dell’Anp.

Palestina: stallo alla messicana

Per molti infatti le elezioni sono un passaggio fondamentale, alla base di ogni tentativo che possa sviluppare una nuova strategia nazionale palestinese che possa confrontarsi con Gerusalemme e favorire uno sviluppo del dialogo. Tuttavia, nessuno degli attori in gioco vuole davvero queste elezioni. Né l’Anp, né tantomeno Israele e gli Stati Uniti. Le consultazioni non sono paradossalmente desiderate neanche da Hamas, ancora non pronto alla scalata al potere in Cisgiordania, stabile nella sua roccaforte di Gaza e sostenuto dai petrodollari del Qatar.

Abbas rimane dunque per Israele un interlocutore accondiscendente, con cui esistono accordi e varie forme di cooperazione. Discorso diverso quello che riguarda Hamas. Il movimento islamista è un’arma a doppio taglio per Israele. Se da un lato rappresenta la minaccia più concreta, assieme ad Hezbollah, alla sicurezza nazionale israeliana, la sua presenza ed esistenza è una preziosa risorsa nelle mani della destra israeliana. La minaccia di un eventuale arrivo del partito islamista a capo del governo palestinese, sia a Gaza che nel West Bank, rappresenta infatti un jolly da utilizzare ogni qualvolta sia necessario per ragioni di politica interna. Non a caso, la retorica politica costruita attorno all’occupazione della Cisgiordania negli ultimi quindici anni ha girato attorno a questo tema. Allo stesso tempo però, come dimostrato anche dall’ultimo conflitto del maggio scorso, Israele non ha difficoltà nel breve termine a gestire la situazione nella Striscia, forte della sua spropositata superiorità militare e di intelligence.

Per questo motivo, appare impossibile che nell’immediato futuro, l’Anp, e Israele sullo sfondo, permettano che si voti davvero in Palestina. Nel 2006, Hamas vinse, ottenendo 74 dei 132 seggi disponibili. Le ultime elezioni sono state cancellate perché, secondo Abbas, Israele non avrebbe permesso di votare agli abitanti Gerusalemme Est. Una possibilità che non è mai stata smentita o confermata dal governo israeliano, così come è sempre avvenuto dal 2006 a oggi. È dunque evidente come le elezioni restino un tabù per tutti, un evento da posticipare il più possibile.

*[Justin McIntosh via Wikimedia, CC-BY 2.0]

Stefano Mazzola
Milanese, nato nel 1998. Appassionato di politica e Medio-Oriente, studio Relazioni Internazionali all’Università Bocconi di Milano. Il primo libro che mi hanno regalato a cinque anni era una raccolta delle bandiere del mondo e, dopo averle imparate tutte, ho capito che per essere felice ho bisogno di esplorare. Nutro una passione sfrenata per le rivoluzioni e amo raccontarle.

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