Ritorno alle origini: l’anticlericalismo comunista
Le tensioni tra Cina e Chiesa cattolica hanno le proprie radici nel più ampio antagonismo fra religione e dottrina comunista. “La religione è l’oppio dei popoli”, famosa frase tratta da Per la critica della filosofia del diritto di Hegel di Karl Marx, ha dato vita a una narrazione che dichiara incompatibile il progetto comunista con ogni forma di religione, vista come strumento di controllo nelle mani dell’élite capitalista.
Ma le cause della rottura fra il gigante asiatico e la Santa Sede non sono solo di natura ideologica. Nella Cina comunista la guerra alla religione divenne presto un potente mezzo di controllo politico e sociale, volto ad eliminare ogni forma di opposizione interna. Se da un lato l’anticlericalismo di matrice comunista si scontrava con l’idealismo religioso del cattolicesimo, dall’altro i vertici cinesi temevano che l’espansione della religione avrebbe costituito una grave minaccia per il controllo statale della vita pubblica e dell’associazionismo.
1951-2018: il gelo diplomatico
Il primo strappo diplomatico fra la Santa Sede e la Cina risale al 1942, quando vennero formalizzati i rapporti diplomatici fra Chiesa e Taiwan, rifugio dei liberali del Kuomintang (Kmt) in lotta con il Partito comunista cinese (Pcc). Con la nascita della Repubblica Popolare Cinese (RPC) di Mao Zedong nel 1949 e l’espulsione del nunzio papale dal Paese nel 1951, i rapporti diplomatici con la Santa Sede furono del tutto interrotti. Complici le persecuzioni dei cristiani durante la rivoluzione culturale e l’intensa attività della diplomazia papale in antagonismo al blocco comunista, il periodo della guerra fredda deteriorò ulteriormente le relazioni.
Il ruolo giocato da Papa Giovanni Paolo II nell’abbattimento del comunismo europeo inasprì ulteriormente la tensione con Pechino, che temeva un’infiltrazione della Chiesa fra le fila dell’opposizione politica del Paese. Papa Wojtyla fece infatti un uso strategico della diplomazia per facilitare la caduta dell’Unione Sovietica (Urss) e la fine del comunismo nel vecchio continente. La sua collaborazione con gli Stati Uniti è stata fondamentale per la caduta della cortina di ferro.
2018: le controversie dell’accordo sino-cattolico
Con la morte di Mao Zedong nel 1976, la Cina si aprì gradualmente al mondo esterno e inaugurò una stagione di riforme che introdusse maggiori libertà religiose. Dopo un periodo di negoziati altalenanti tra 1978 e 2018, Santa Sede e RPC hanno firmato un controverso accordo per la nomina dei vescovi nella Chiesa cinese. Prima di allora, i fedeli cattolici del Paese asiatico si dividevano tra “Chiesa sotterranea”, clandestina e fedele al Vaticano, e “l’Associazione patriottica cattolica” (Apc), controllata dallo Stato, che nominava i vescovi senza l’approvazione papale. L’accordo provvisorio, il cui contenuto è rimasto segreto, ha ripristinato l’indipendenza della Chiesa cinese, commissionando al governo comunista la nomina dei vescovi ma conferendo al Papa il potere di veto. Per la prima volta dal 1951 la Chiesa ha qualche forma di controllo, anche se debole, sulla nomina dei suoi rappresentanti.
L’accordo, definito “storico” da entrambe le parti, è stato raggiunto in un momento particolarmente critico per i cattolici cinesi. All’interno del progetto di “sinizzazione” delle pratiche religiose voluta dal presidente Xi Jinping, negli anni scorsi il regime ha demolito chiese, rimosso simboli sacri e chiuso siti di divulgazione religiosa . Queste limitazioni delle libertà di culto, insieme a svariate denunce di violazioni dei diritti umani nella RPC, hanno portato diversi esponenti della Chiesa e del panorama politico internazionale a condannare con veemenza l’accordo. Nonostante le critiche di chi teme il rafforzamento del potere di Pechino sui fedeli, la Santa Sede ha ripetutamente difeso l’accordo in quanto guidato da “un obiettivo non politico ma pastorale”.
Le ragioni dell’accordo: la Realpolitik francescana per l’evangelizzazione dell’Asia
La ripresa dei negoziati diplomatici con Pechino ha per la Santa Sede un valore strategico non indifferente, che rientra nel più ampio progetto di evangelizzazione dell’Asia promosso da Papa Francesco. Campione della Realpolitik nei suoi disegni diplomatici, Bergoglio ha fatto dell’evangelizzazione dell’Asia, dove l’Islam rimane la religione più professata, la priorità assoluta della diplomazia della Santa Sede. Tra il 2013 e il 2015, nei primi due anni del suo mandato, il Pontefice aveva già visitato le Filippine, la Corea del Sud e lo Sri Lanka, mentre poco dopo sono stati nominati tre nuovi cardinali in Vietnam, Myanmar e Thailandia. Non sorprende quindi che Papa Francesco stia usando la diplomazia della Santa Sede per aprire un dialogo con i regimi comunisti del continente.
Un anno dopo la sua elezione nel 2013, Papa Francesco a Seoul si è rivolto a circa 70 vescovi di 35 Paesi asiatici. Rivolgendosi indirettamente ai Paesi comunisti come la Cina, il Vietnam e la Corea del Nord, il Papa ha espresso il suo impegno a dialogare con tutti in uno “spirito di apertura verso gli altri, con la speranza che i Paesi asiatici con i quali la Santa Sede non gode ancora di un rapporto completo, non esitino a promuovere un dialogo a beneficio di tutti.”
In Cina si stima che il numero di Cattolici sia oggi pari a 10-12 milioni, equivalente a meno dell’ 1% della composizione religiosa del Paese. Tuttavia, la presenza di numerose chiese “clandestine” rende difficile identificare con precisione i fedeli cattolici, potenzialmente elusi dalle indagini numeriche. Sicuramente però la pace diplomatica con la RPC, potenza economica e fulcro del mondo asiatico, potrebbe rafforzare la presenza cattolica in Cina e nel resto dell’Asia.
Hong Kong e Taiwan: i veri sconfitti della pace diplomatica?
L’accordo con Pechino, che verrà rinnovato poche settimane dopo l’entrata in vigore della legge sulla sicurezza, mina inevitabilmente il rapporto instaurato dalla Chiesa con Hong Kong.
Già nel 2018 l’accordo era stato molto criticato dal cardinale Zen, ex arcivescovo della ex colonia britannica, come un tradimento spirituale e politico della Chiesa di Roma. Con il rinnovo del patto previsto per il 22 ottobre, la situazione politica di Hong Kong risulta ulteriormente compromessa. Da sempre vocale sulla protezione di minoranze e diritti umani, il silenzio di Papa Francesco sulle numerose incarcerazioni, violenze e censure operate dalla Cina per ottenere il controllo di Hong Kong non è passato inosservato. Il Pontefice ha inoltre rifiutato di incontrare il cardinale Zen per non compromettere l’accordo con la RPC. L’abbandono della Chiesa cattolica, in un contesto di sostanziale abbattimento dell’indipendenza della città più democratica della Cina, costituisce un duro colpo per il movimento indipendentista.
Analogo, ma sicuramente meno grave, l’impatto dell’accordo su Taiwan. La Santa Sede è infatti uno dei soli 17 corpi diplomatici ad avere piene relazioni con la Repubblica di Cina, per anni riconosciuta come unica rappresentante della regione cinese. Nonostante le rassicurazioni del Vaticano, l’ipotesi che l’ambasciata cattolica venga spostata nella Cina continentale non pare irrealistica. La RPC infatti, non ha mai riconosciuto l’indipendenza dell’isola e ha già fatto pressione perché la Santa Sede ponga fine alle relazioni con Taiwan. Se così fosse, Taiwan si troverebbe priva dell’appoggio di un importantissimo attore diplomatico e geopolitico e in una condizione di rinsaldata debolezza nei confronti del vicino gigante asiatico.
Stati Uniti, Cina e Vaticano: una nuova guerra fredda?
Ma Hong Kong e Taiwan non sono gli unici a temere l’accordo con Pechino. Il Segretario di Stato statunitense Mike Pompeo ha condannato a gran voce il rinnovo del patto, volando a Roma per chiedere al Vaticano di interrompere le negoziazioni. Il tentativo statunitense, subito bloccato da Papa Francesco che si è rifiutato di incontrare Pompeo, mette in luce l’enorme peso politico della Chiesa nelle relazioni fra Cina e Usa. Se pubblicamente i vertici della Casa Bianca hanno descritto l’accordo come “amorale”, indifferente alle violazioni dei diritti civili e complice del peggioramento della situazione a Hong Kong, le preoccupazioni statunitensi trovano ben più ampio respiro. In un momento di estrema tensione e competizione commerciale tra la Cina di Xi Jinping e l’amministrazione Trump, aggravate dall’etichettatura del Coronavirus come “l’influenza cinese” da parte del Presidente Usa, l’accordo mina la solidità della decennale alleanza fra Stati Uniti e Vaticano. Cina e Chiesa si trovano ora in stretto contatto in un momento storico che sembra riprodurre le dinamiche della guerra fredda, sovvertendone però il sistema di alleanze.
Quale impatto avrà la diplomazia cattolica sugli equilibri geopolitici della regione cinese nel lungo termine, è ancora tutto da vedere.