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Come la Cina sta sfruttando il coronavirus per diventare leader globale

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Mentre cresce esponenzialmente l’impatto della pandemia COVID-19, che ha ormai raggiunto la quasi totalità dei paesi nel mondo, diventa fondamentale continuare a osservare il focolare della pandemia, la Cina.
L’importanza di questa zona del globo rimane altissima, non solo perché li si è verificato il primo caso di coronavirus, ma anche per le misure draconiane imposte da Pechino, ritenute inizialmente eccessive in occidente e poi prontamente copiate attesa l’esplosione dei contagi, hanno permesso di contenere e infine debellare l’avanzata della malattia: una lezione che l’Occidente dovrà tenere bene a mente prima di allentare le misure di contenimento in atto.
Inoltre, va considerato che Pechino si è attivata con solerzia per trasformare quello che sembrava un grave danno alla propria reputazione in un’opportunità. La Cina sta sfruttando il coronavirus per strappare definitivamente agli Stati Uniti il ruolo di leadership mondiale. Quella che poteva rappresentare una tremenda colpa storica è ora un’opportunità di redenzione e aumento del prestigio internazionale.

L’insabbiamento e il mancato contenimento iniziale

Per come ci ha abituato la storia dei regimi autoritari, quando il governo ammette una colpa significa che il peccato è avvenuto mesi prima. Non fa eccezione lo scandalo relativo alla scoperta dell’agente virale, avvenuta in Cina due mesi prima dello scoppio “ufficiale” della pandemia a Wuhan, cioè dicembre 2019. Pechino ha ammesso ritardi nei controlli e anche di aver tentato di contenere la notizia dell’esistenza del virus, come testimonia la vicenda dell’insabbiamento della ricerca dell’oftalmologo Li Wenliang, il primo a pubblicare su WeChat la scoperta di “un nuovo coronavirus”.

Gli aiuti di Pechino

In una controversa lettera data 3 marzo, l’ambasciatore cinese presso le Nazioni Unite (Onu), Zhang Jun, ha ricordato come la Cina e il suo leader Xi Jinping stiano lottando per tutti i popoli del mondo, senza discriminare. Tra le righe, il riferimento alla non discriminazione è da leggere come un’evidente critica al comportamento degli Stati Uniti, per aver questi ostacolato lo spostamento di beni e persone provenienti da alcune zone della Cina.
Effettivamente nessuno si sorprende che la pandemia non interrompa la lotta per la supremazia mondiale tra i due giganti: il presidente Trump continua a riferirsi al virus chiamandolo “cinese”, e non sono mancate le critiche da parte della Casa Bianca ai programmi di aiuto internazionale gestiti da organizzazioni cinesi.
Nonostante le critiche da Washington, però, la Cina ha effettivamente impostato un enorme sistema di aiuti internazionali, che rischiano di destabilizzare non poco il blocco occidentale, centrato sulla leadership statunitense.

In particolare la fondazione Jack Ma, presieduta dal cofondatore del colosso e-commerce Alibaba, si è distinta per lo straordinario impegno nell’invio di materiali sanitari e personale medico. Tra i paesi beneficiati dagli aiuti cinesi si annoverano Italia, Iran, Filippine, Francia, Spagna, Belgio, Iraq e Stati Uniti. La fondazione ha anche promesso l’invio di un pacchetto di aiuti a ogni paese africano, affidando la logistica della distribuzione al primo ministro etiope Abiy Ahmed.
Non mancano poi programmi di aiuto sanitario direttamente finanziati dal governo cinese, anche diretti ai rivali statunitensi, in una mossa vista da molti come una dimostrazione di forza e superiorità morale. Come ha commentato Yangyang Cheng della Cornell University in una colonna della rivista SupChina, l’emergenza coronavirus sta permettendo alla Cina di acquisire quel ruolo di leadership globale esercitato dagli Stati Uniti per buona parte degli ultimi cento anni.

Gli effetti di queste politiche si stanno traducendo in una sempre maggiore gratitudine internazionale verso Pechino. In particolare, sta diventando sempre più forte l’impressione che i paesi occidentali non siano in grado, o non siano intenzionati, di implementare politiche che concretizzino quell’immagine di coesione proposta dall’occidente, soprattutto a livello europeo.

Le mancanze della risposta occidentale

In questa cornice, l’evidente divisione tra i paesi europei è visibile a tutto il mondo, con terribili effetti sui progetti di maggiore integrazione tra i paesi del Vecchio Continente, che si affaccia al nuovo decennio separato come poche volte dagli anni ’40. Oltre alle eterne questioni sulla solvibilità del debito sovrano di alcuni paesi (tra cui l’Italia), emerge ora la difficoltà di trovare una risposta solida da parte dell’Unione di fronte all’emergenza, che annovera sia paesi in ginocchio socialmente ed economicamente come Spagna e Italia, in forte necessità di aiuto, sia paesi solo marginalmente colpiti dall’epidemia come Olanda, Svezia o Finlandia e meno disponibili a indebitarsi per sollecitare la ripresa economica alla fine dell’emergenza.

Anche la nuova Commissione si è dimostrata piuttosto incerta nell’affrontare l’emergenza, con le dichiarazioni contrastanti della presidentessa Von der Leyen sulle intenzioni dell’Unione sulle misure da adottare a supporto economico degli stati in difficoltà, consegnando le borse nazionali al panico dei mercati finanziari.
La percezione della scarsa qualità e prontezza della risposta dell’Unione è rappresentata dalle dichiarazioni del primo ministro serbo, Aleksandar Vucic, che ha dichiarato: l’Unione ci impedisce di importare materiale sanitario europeo, poiché non ne hanno abbastanza per loro. L’unico paese in grado di aiutarci ora è la Repubblica Popolare Cinese. Per questo motivo mi sono rivolto a Xi Jinping come amico, e come fratello, in richiesta di aiuto. Parole che hanno fatto il giro del mondo e che dimostrano come l’attitudine verso Bruxelles stia cambiando anche in un Paese che da anni chiede di entrare a far parte dell’Ue.

L’incertezza europea è anche alimentata da quella statunitense.
Invece che affrontare l’emergenza energicamente per rimarcare il ruolo di guida mondiale della Casa Bianca, la risposta da Washington è stata quantomeno claudicante. Come da copione, il presidente Trump ha inizialmente sminuito il problema, salvo poi creare una task force federale con scarsissimi poteri effettivi, ponendovi alla guida un politico sicuramente scaltro come il Vice Presidente Mike Pence, ma che certamente non è un affermato epidemiologo in grado di prendere decisioni velocemente e in piena autonomia. Nonostante le rassicurazioni di Washington, gli USA non sembrano pronti ad affrontare la portata dell’epidemia che monta all’orizzonte.
Il governo è stato costretto ad accettare le 500.000 mascherine inviate dalla fondazione di Jack Ma a inizio marzo, e il Segretario per la Salute Alex Azar ha dichiarato di non poter confermare il numero di respiratori a disposizione del sistema sanitario per motivi di sicurezza.

Molti però sono gli indizi che il numero di questi respiratori non sia sufficiente, tanto che Trump è stato costretto a chiedere ai governatori di “procurarsene da soli il più possibile“, scatenando una battaglia su Twitter con l’ennesima nuova stella del partito democratico, il Governatore di New York Andrew Cuomo.
Gli Stati Uniti, divenuti rapidamente primi nel mondo per contagi, e con un sistema sanitario quantomeno sospetto per inclusività (un tampone è arrivato a costare migliaia di dollari a inizio marzo, secondo Agi), potrebbero veder diventare quella del coronavirus un’emergenza sociale senza precedenti, senza le possibilità né tantomeno le intenzioni di gareggiare con la Cina nel campo dell’aiuto internazionale.
Quest’ultimo è quindi diventato un sostanziale monopolio di Pechino, che ha poco da temere dagli sporadici tentativi russi di fornire assistenza internazionale (con la malcelata intenzione di ottenere una revisione dei dazi Ue che gravano sull’economia Russa dal 2014).

Mentre l’attuabilità delle elezioni presidenziali USA 2020 è sempre più in dubbio e la Federal Reserve (Fed) attua il più grande stimolo economico di sempre, a Pechino non basta che seguire il proverbio e sedersi pazientemente sulla riva del fiume, aspettando che passi il cadavere del suo nemico. L’impressione è che non manchi molto tempo.

 

 

Ludovico Bianchihttps://orizzontipolitici.it
Genovese, ligure, europeo. Laureato in International Politics all’università Bocconi, ora sono uno studente Double Degree con Sciences Po e mi occupo attivamente di Africa Centrale per non farmi mancare niente. Sempre però con con il mare negli occhi, il Milan nel cuore e soprattutto storia e politica nei pensieri.

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