Che la strada verso la democratizzazione e l’autodeterminazione di Hong Kong dalla Cina fosse ardua, specie alla luce dei fatti del 2019, era facile da prevedere. Che nel 2020 una pandemia globale avrebbe definitivamente sabotato ogni tentativo hongkonghese di indipendenza, decisamente meno. Infatti, a Hong Kong non basta la crisi economica innescata dal COVID-19, che secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale comporterà una recessione del 4,8% – tasso tra i più critici del continente asiatico. Ma pare anche che il virus abbia spianato la strada a Pechino per affermare la propria autorità sul Porto Profumato.
Il contesto
Storicamente, il desiderio di Hong Kong sarebbe quello di svincolarsi dal controllo cinese entro il 2047, ossia l’anno a partire dal quale – come stabilito dalla Dichiarazione congiunta sino-britannica del 1997 – la Hksar non godrà più dello status di regione amministrativa speciale, e inizierà a essere governata secondo l’ordinamento giuridico del “Regno di Mezzo”.
Chiaramente tale incombenza non gioca a favore del partito hongkonghese pro-autonomia, anche considerando che la Repubblica Popolare Cinese non intende fare concessioni sostanziali, per evitare che queste legittimino ulteriori pretese indipendentiste da parte di altre regioni continentali come Tibet o Xinjiang.
D’altro canto, rimane nell’interesse di Pechino evitare lo scontro aperto, poiché trovare quell’equilibrio che manca all’interno del concetto di “uno stato, due sistemi”, sarebbe senza dubbio la miglior soluzione in ottica di tutela della stabilità interna e di preservazione dell’immagine internazionale di Pechino.
E’ all’interno di questo quadro che vanno collocati i disordini che da ormai quindici mesi turbano la quiete di Hong Kong. Nel luglio 2019, la cancellazione del progetto di legge sull’estradizione proposto dal capo esecutivo Carrie Lam quattro mesi prima fu a tutti gli effetti una vittoria per la componente moderata degli indipendentisti. Ciononostante, l’onda lunga delle proteste ha continuato e continua tuttora a caratterizzare il contesto sociale della Hksar. Ma se fino a poche settimane fa tali proteste erano ufficialmente motivate dal dissenso per i metodi violenti e aggressivi con cui la polizia avrebbe gestito le rimostranze, negli ultimi due mesi in particolare i rapporti tra governo e popolo hongkonghese si sono ulteriormente deteriorati.
Aprile 2020: la frattura invisibile
Ad aprile, secondo quanto riportato dal Guardian, il Liaison Office – la più alta rappresentanza di Pechino a Hong Kong – ha colto l’occasione per ribadire la propria posizione di dominio sul territorio dell’ex colonia britannica.
Si è dichiarato infatti svincolato dall’Articolo 23 della Basic Law hongkonghese, il quale affermava come nessun ente controllato da Pechino avrebbe avuto il diritto di esercitare ingerenze negli affari interni del Porto Profumato. Tale atto, effettuato con tempistiche non casuali, minerebbe il principio del “un paese, due sistemi”, perlomeno da una prospettiva filo-hongkonghese.
Eppure, ciò non ha destato reazioni da parte del movimento indipendentista, quantomeno in apparenza. La paura della diffusione del virus, unita ai provvedimenti eccezionali anti-assembramento, hanno implicato che il dissenso fosse espresso sui social anziché nelle strade, facendo passare maggiormente sottotraccia la mossa altamente strategica del governo cinese. Quest’ultimo, attraverso l’agenzia di stampa Xinhua si è difeso affermando come, nonostante la semi-autonomia, in nessun modo Hong Kong abbia il diritto di minacciare la stabilità interna del paese, in quanto finirebbe per violare il famoso principio “un paese, due sistemi”.
L’impressione è che tale principio sia ambiguo per natura, e che trovarvi un punto di equilibrio sia possibile, ma molto complicato, anche per via dei tentativi da parte di potenze straniere di destabilizzare la Repubblica Popolare facendo leva sulla causa hongkonghese. Pare che di “un paese, due sistemi”, Pechino legga solo “un paese”, Hong Kong solo “due sistemi”.
Maggio 2020: la legge sulla sicurezza nazionale è la goccia che fa traboccare il vaso
Ma non è tutto.
Lo scorso primo maggio ulteriori arresti sono stati effettuati in un centro commerciale, dopo un tafferuglio tra alcuni giovani manifestanti e la polizia, che ha fatto ricorso a spray lacrimogeni. Il pericolo che nuove incarcerazioni e pene più severe per i dimostranti siano in futuro giustificate anche dalla violazione dei provvedimenti di contenimento del coronavirus, è un ulteriore fattore che gioca a sfavore della causa indipendentista di Hong Kong.
Ad ogni modo, la goccia che rischia di far traboccare il vaso è la nuova legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong che Pechino vorrebbe implementare in questi giorni. Già lo scorso 24 maggio, quando questo provvedimento era ancora soltanto una proposta, nel Porto Profumato migliaia di persone sono scese in piazza, dando vita a una manifestazione a tratti molto violenta caratterizzata dall’impiego di lacrimogeni, getti d’acqua, cariche della polizia e arresti, 180 secondo la BBC, 240 secondo altre fonti.
Nelle stesse ore le parole del Segretario di Stato americano Mike Pompeo hanno fatto eco al grido dei manifestanti, esprimendo la preoccupazione da parte degli Stati Uniti che Hong Kong “non mantenga più il suo alto grado di autonomia”. Timore ribadito da una nota congiunta dei ministeri degli Esteri di Gran Bretagna, Canada e Australia pochi giorni dopo.
Ma cos’è di preciso questa legge?
Non c’è ancora chiarezza sul contenuto della legge sulla sicurezza nazionale in questione, e anzi l’iter che porta alla sua ufficiale emanazione è ancora molto lungo.
Proposto dal governo all’apertura delle “Due sessioni” (Liang hui) il 21 maggio, il provvedimento sotto forma di bozza è stato accettato dall’Assemblea Nazionale del Popolo – costituita da 2957 membri eletti a livello provinciale – e dalla Conferenza Consultiva Politica Del Popolo Cinese – composta da 2200 rappresentanti di vari partiti politici e interessi economici – solo il 28 maggio.
I due organi hanno così accordato al Politburo – organo esecutivo presieduto da Xi Jinping – l’incarico di formulare una serie di provvedimenti che andranno a comporre la legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong.
Quest’ultima verrà però votata in maniera definitiva solamente giovedì 4 giugno, giorno in cui auspicabilmente si conoscerà anche il contenuto effettivo della norma.
D’altro canto, bisogna ricordare come le intenzioni cinesi siano tutt’altro che oscure: attraverso la legge sulla sicurezza, Pechino mira a rendere illegale e pertanto punibile ogni forma di tradimento, sedizione e secessione contro il governo centrale della Repubblica Popolare. In altre parole, tutti i provvedimenti ora adottati in Cina contro chi fomenta o partecipa a sommosse anti-regime, diverrebbero applicabili anche sul territorio hongkonghese.
A fare ulteriore scalpore è il precedente, risalente al 2003, quando un provvedimento simile fu proposto e rigettato all’interno del mini-parlamento di Hong Kong. Oggi invece, il governo centrale cinese sta provando a scavalcare tale istituzione locale, con un’azione corretta e possibile dal punto di vista legale, secondo alcune interpretazioni della Basic Law hongkonghese, ma che interrompe la prassi dei rapporti che dal 1997 a oggi erano intercorsi tra il “Regno di Mezzo” e l’ex protettorato britannico.
Il dibattito internazionale e la posizione delicata dell’Occidente
Fonti occidentali intravedono all’orizzonte la fine del modello “un paese, due sistemi”, per via del fatto che attraverso la legge sulla sicurezza, il sistema-Cina valicherà i confini del Porto Profumato molto in anticipo rispetto a quanto accordato ventitré anni fa. La facoltà di punire gli attivisti pro-democrazia e i critici verso Pechino implicherebbe la fine della libertà delle persone di scendere in piazza, sottolinea l’esperto Willy Lam in un’intervista alla BBC. Tale estensione del diritto penale cinese su Hong Kong decreterebbe dunque la fine dell’autonomia di cui ha goduto la Hksar finora.
D’altra parte, i quotidiani internazionali cinesi smentiscono. L’agenzia di stampa Xinhua afferma come la legge sulla sicurezza nazionale non intaccherà in nessun modo l’autonomia di Hong Kong, ma anzi rinforzerà il principio di “un paese, due sistemi”, salvaguardando la stabilità sociale e il contesto imprenditoriale. Segue a ruota il South China Morning Post, rassicurando che il provvedimento riguarderà solo i crimini più gravi che minano seriamente la stabilità della Cina, mentre le libertà e i diritti attualmente garantiti a cittadini e aziende continueranno a essere tutelati.
In quest’ottica di incertezza, a livello internazionale le potenze occidentali dovrebbero avere l’accortezza di non esporsi troppo in favore della causa hongkonghese, evitando di sfruttare in maniera troppo eclatante la leva dei manifestanti per effettuare pressioni su Pechino. Tali tentativi di ingerenza potrebbero infatti avere un effetto-boomerang, legittimando anche a livello legale una stretta cinese sulla Hksar.
La Cina post-coronavirus guarda al suo interno e Hong Kong ne farà le spese
In sintesi, è ancora presto per stabilire se la nuova legge sulla sicurezza nazionale davvero modificherà la formula “un paese due sistemi”. Da una parte, la Cina non ha interesse al muro contro muro, per via delle stesse questioni di stabilità interna che vorrebbe risolvere con la norma in discussione in questi giorni. Dall’altra, l’avvento del COVID-19 sembra aver fornito a Xi l’occasione per stringere la morsa sul Porto Profumato.
Ciò è anche certificato dal fatto che, circostanza più unica che rara, durante l’evento annuale delle “Due sessioni” il fulcro delle discussioni non siano stati gli obiettivi annuali di crescita dell’economia cinese, ma il tema della sicurezza. In un periodo di inevitabile recessione economica a livello globale, il “Governo del Popolo” ha spostato il focus sulla stabilità interna come base da cui ripartire nel mondo post-coronavirus. Meno attenzione alla crescita dell’export, maggiore stimolo della domanda interna. Minor riguardo per Belt and Road e politica estera, maggiore per il proprio cortile di casa. Il conto per Hong Kong si farà sempre più salato.