Donne combattenti: il modello del Rojava
L’impetuoso Tigri ad est, ampie pianure, qualche montagna dal clima arido: è questo il panorama della regione autonoma del Rojava, nel nord della Siria. Questa striscia di terra, dal confine orientale della Turchia, si addentra nel territorio siriano per qualche chilometro. La popolazione è composta principalmente da curdi, parte di uno dei più grandi gruppi etnici privi di un territorio nazionale. Il Rojava si è dichiarato indipendente durante la guerra civile siriana del 2012, a seguito della ritirata del governo siriano da tre zone a popolazione prevalentemente curda: Ğazīra, Kobani e ‘Afrīn.
È salito quindi al potere il PYD, Partito dell’unione democratica, che ha costituito nel 2013 l’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est, il cui sistema politico è quello del confederalismo democratico. Da allora il suo governo ha sempre promosso tre grandi temi: ecologia, eguaglianza tra i sessi, e democrazia diretta. Nel 2014, infatti, ha pubblicato la Carta del Rojava: un documento giuridico che rifiuta l’autoritarismo, il militarismo, il centralismo e promuove una netta divisione tra Stato e religione.
L’autodifesa è uno dei principi cardine della società del Rojava, sia a livello individuale che nazionale. Sono presenti infatti milizie, come il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) e il YPG (Unità di protezione popolare), la maggioranza dei quali comprendono sia uomini che donne. L’eccezione è il YPJ, acronimo che significa Unità di protezione delle donne, composto da sole combattenti femminili. Nato nel 2013, il gruppo è stato fondamentale per molte vittorie militari.
La reazione dell’occidente non ha tardato ad arrivare
Il modello sociale del Rojava, di ispirazione occidentale, è da considerare rivoluzionario nel contesto mediorientale. Le testimonianze delle donne soldato hanno catturato l’immaginario collettivo, talvolta con toni decisamente filo-occidentali. Ne è un esempio la combattente definita “l’Angelina Jolie curda”, morta in battaglia nel 2016, il cui appellativo ha suscitato malcontento tra le fila curde, che lo hanno considerato sessista e oggettificante.
Donne membri dello YPJ sono state oggetto di diverse interviste e reportage nel corso degli anni, da parte di importanti testate giornalistiche come Al-Jazeera, The New Yorker, e Marie Claire. Un articolo di Vice del 2017 definisce la rivolta del Rojava la “rivoluzione più esplicitamente femminista che il mondo abbia mai visto, almeno nella storia recente”.
Effettivamente, il Rojava non ha mai nascosto l’intenzione di superare le disparità di genere: lo stesso Abdullah Öcalan, uno dei padri fondatori del PKK e figura importantissima per i combattenti curdi, è autore di un manifesto in cui cita la liberazione della figura femminile come unico strumento per la risoluzione dei problemi sociali che affliggono la società moderna.
Nel Rojava le donne non sono relegate all’interno dello YPJ
La salvaguardia e la crescita individuale sia delle proprie concittadine che del genere femminile rimangono una priorità per i politici e le politiche del Rojava. Per garantire questo processo, ogni ufficio pubblico deve essere presieduto contemporaneamente sia da una donna che da un uomo, allo stesso momento. Asya Abdullah, co-presidente del PYD, nel 2016 ha affermato che “una donna libera è una caratteristica fondamentale di una vita libera e democratica. L’Isis vorrebbe ridurre le donne a schiave e corpi. Dimostriamo loro che hanno torto.”
Infatti, le donne curde non rischiano soltanto la morte: l’Isis spesso istituisce veri e propri mercati di schiave (quello nella città di Raqqa è stato addirittura ripreso in un video), in cui vengono vendute le donne catturate.
Nella lotta contro l’Isis, però, le donne hanno un “vantaggio” strategico: i soldati del Califfato hanno paura di essere uccisi da una di esse, in quanto proibirebbe loro l’ingresso in paradiso.
In un’intervista rilasciata ad Al-Monitor, Rojda Felat, considerata una dei più importanti leader militari delle milizie curde, afferma che “la ragione principale per cui sono stata selezionata [come leader della missione militare Rabbia dell’Eufrate, ndr] è che i membri dello Stato islamico hanno detto di essere impauriti dalla possibilità di essere uccisi da una donna. Mi hanno scelto per dimostrare loro che una donna può guidare una coalizione armata”.
L’importanza del modello Rojava in occidente
In un articolo del 2018, dal titolo Il modello del Rojava che va difeso, Repubblica si fa portavoce di una petizione firmata da accademici e attivisti come Noam Chomsky e Debbie Bookchin, i quali affermano che “il popolo curdo ha sopportato la perdita di migliaia di giovani uomini e donne arruolati nelle YPG e nelle unità femminili YPJ per liberare il mondo dall’Isis”. La petizione chiede che i leader mondiali “garantiscano che la sovranità delle frontiere siriane non sia violata dalla Turchia e che il popolo di Afrin (Siria) possa vivere in pace”.
La Turchia ha infatti una lunga storia di repressione della cultura curda, fin dal 1924, con la politica di proibire scuole, associazioni, e pubblicazioni curde. È proprio in questo clima che è nato il PKK nel 1978, protagonista di una sanguinosa guerriglia urbana contro il governo turco non ancora sopita, tanto che è ormai considerata un’organizzazione terroristica da gran parte dei governi occidentali. Alcuni però ritengono che ciò sia un errore – nel 2008 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha decretato che il PKK dovesse essere eliminato dalla lista europea delle organizzazioni terroristiche.
Nonostante la guerra all’Isis abbia impiegato principalmente milizie curde, e in particolare il YPG, durante le offensive contro il Califfato nel 2016 la Turchia ha deliberatamente bombardato anche postazioni curde. Non è stata né la prima né l’ultima volta, e la Turchia ha sempre dichiarato di averlo fatto in risposta a provocazioni dello stesso YPG, affermazioni però rifiutate dalla milizia.
Afrin, oggetto della petizione, è stata poi addirittura conquistata dalle forze turche nella primavera del 2018.
La situazione attuale
Gli Stati Uniti, da tempo alleati delle SDF (le Forze democratiche siriane, coalizione di milizie di cui YPG e YPJ fanno parte), si sono ritirati dal nord della Siria nell’autunno del 2019, in seguito all’invasione della regione da parte della Turchia. L’intento ufficiale di Ankara era quello di espandere la “zona cuscinetto” oggetto di un accordo tra Turchia e SDF con gli Stati Uniti come garante, per poi creare un “corridoio di pace” dove stanziare i rifugiati siriani.
La Turchia si è avvalsa anche di forze esterne, alcune tra le quali sono state accusate di aver giustiziato Hevrin Khalaf, politica curdo-siriana del Partito della Siria del futuro e attivista per i diritti delle donne, vicino al “fronte”, proprio durante l’avanzata turca del 2019. A seguito di questi eventi, le SDF hanno stretto un accordo con Damasco, garantendo all’esercito siriano libero passaggio nei propri territori, e che individua come nemico comune la Turchia.
A fine ottobre 2019, il governo russo, che da sempre intrattiene relazioni con la Siria, si è fatto garante di un accordo di pace tra Turchia e SDF: la Turchia ha cessato l’offensiva in cambio di concessioni territoriali dai curdi. In realtà, le incursioni turche avvengono ancora, tanto che quelle più recenti hanno causato ingenti danni alle infrastrutture sanitarie della regione e aumentato il numero degli sfollati.
L’assenza di un fronte unito contro l’Isis potrebbe portare inoltre a un ritorno delle forze del Califfato. Durante l’avanzata dell’esercito turco nel 2019, sono riusciti a fuggire migliaia di prigionieri sostenitori dello Stato islamico, rinchiusi fino a quel momento in un campo profughi. L’Isis stesso ha incrementato gli attacchi in Siria e in Iraq nel corso del 2020, e ha rivendicato azioni terroristiche individuali.
Le milizie curde continuano però a combattere, come testimoniato da Meryem Kobane, una delle comandanti dello YPJ, in occasione dell’ottavo anniversario dell’inizio della rivoluzione del Rojava: “la possibilità di ottenere uno status riconosciuto dallo scenario internazionale è sotto attacco. Questo è inaccettabile. Stanno cercando di imporre una società di schiavi e schiave. La guerra continua nel Rojava contro queste politiche e mentalità.”
*Murales di una combattente dello YPJ [crediti foto: Roja Ciwan CC by 2.0]
Testo a cura di Anna Credendino