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A colpi di Act: così l’Ue prova a limitare Big Tech

Tempo di lettura stimato: 6 min.

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Dagli anni Dieci degli anni duemila si è sviluppata la consapevolezza di essere entrati nell’era della quarta rivoluzione industriale. Per rinfrescarvi la memoria, la prima rivoluzione industriale, risalente alla seconda metà del ‘700, è stata sancita dall’avvento della macchina a vapore, mentre la seconda, avvenuta nel 1870 circa, dall’’introduzione dell’elettricità, dei prodotti chimici, e dall’avvento del motore a scoppio. La terza poi, alla quale alcuni di noi hanno assistito, è stata definita tale grazie all’avvento dei sistemi elettronici ed informatici (1970 circa).

Questi sistemi rappresentano tuttora il motore delle nostre economie; ma qualcosa di ancora più avanzato sta rivoluzionando i nostri sistemi di produzione. Questa trasformazione è talmente radicale da essere descritta da alcuni come quarta rivoluzione industriale appunto. Essa corrisponde all’avvento dell’“Internet of things” (IoT), della robotica, dell’intelligenza artificiale e dei dispositivi connessi. In un articolo seminale sul tema, Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum, spiega che rispetto alle precedenti rivoluzioni, descritte come lineari e prettamente uni-settoriali, questa rivoluzione è esponenziale e multi-settoriale. Le nuove tecnologie infatti sono così pervadenti da coinvolgere tutti i sistemi di produzione, con una capacità tale da rendere le economie dei paesi occidentali, delle economie digitali, principalmente fondate sull’uso e l’offerta di servizi digitali.

Sfide ed opportunità

I servizi digitali comprendono una vasta categoria di servizi sul web, come gli eCommerce, i social network, le piattaforme per la condivisione di contenuti, gli app store e le piattaforme di viaggio e alloggio online. Questi servizi hanno portato enormi benefici al consumatore, le cui esigenze hanno ispirato ed alimentato i più grandi miglioramenti tecnologici. Alcuni di questi hanno letteralmente rivoluzionato la nostra vita. Basti pensare alla possibilità di ordinare un prodotto su internet e riceverlo il giorno dopo. Ma anche potersi connettere con i propri amici tramite una piattaforma, fare un pagamento online, chiamare un taxi tramite un app. 

Però se da una parte c’è un ampio consenso sui benefici di questa trasformazione, i problemi che sorgono, meno chiari e dibattuti, hanno numerose conseguenze per le nostre società ed economie.

L’impatto sulla società

Uno problema dall’ampia portata sociale è quello della disinformazione online. I servizi digitali infatti vengono spesso abusati da sistemi algoritmici manipolativi per amplificare la diffusione della disinformazione e per altri scopi dannosi. Nei social network in particolare, ognuno è potenzialmente produttore e consumatore di contenuti. Per favorire l’utilizzo della piattaforma da parte dei consumatori, gli algoritmi tendono a far emergere gli argomenti più popolari, quelli con più “mi piace”. La qualità o la ricercata verità non sono più quindi requisiti fondamentali per la diffusione di una notizia, ma bensì quante persone si rivedono in essa. Gli utilizzatori della piattaforma sono infatti esposti a informazioni, anche se false o poco veritiere, che più soddisfano la propria percezione della realtà. Questi processi, che prendono il nome di “echo-chambers”, dall’inglese, cassa di risonanza, sono in grado di polarizzare a tal punto l’opinione pubblica da influenzare anche le scelte elettorali.

L’impatto sull’economia

I mercati digitali si comportano diversamente rispetto ai mercati tradizionali. Essi, infatti, hanno elevati costi fissi e bassi costi variabili. In altre parole, mettere in piedi un’azienda che offre servizi digitali comporta elevati costi di ricerca e sviluppo, ma il suo ampliamento, che corrisponde all’aumento dell’offerta di beni e servizi, ha un costo marginale vicino allo zero. Per esempio, la creazione di Amazon, come lo conosciamo oggi, ha richiesto anni di studi, prototipi e aggiornamenti di piani aziendali. Una volta la piattaforma creata però, la quantità di prodotti offerta è incrementa molto velocemente senza comportare costi associati a seguito dell’aggiunta nuovi prodotti.

Oltre a ciò, i mercati digitali sono caratterizzati da un’importante effetto di rete. Ovvero, il valore del servizio digitale per un consumatore aumenta con il numero di altri consumatori che lo utilizzano. Questo fa sì che “chi vince prende tutto”. Ovvero chi è riuscito ad emergere nel mercato tende ad accaparrarsi tutti i consumatori, lasciando alla concorrenza solo le briciole. Questo è il caso di Google, tra i sistemi di ricerca online, di Meta, tra i social media, di Apple e Samsung tra i produttori di smartphones, di Amazon, tra le piattaforme di eCommerce e di AirBnB e Booking tra le piattaforme di intermediazione . Una posizione dominante nel mercato può avere conseguenze nefaste laddove chi detiene il monopolio abusi di essa. Per esempio, potrebbe imporre barriere all’entrata del mercato verso altri produttori o obblighi nei confronti dei consumatori che non saprebbero a chi altro rivolgersi.

La strategia dell’Ue di fronte alle Big Tech

Data la portata sovranazionale del fenomeno e soprattutto la competenza esclusiva in materia di mercato unico, è l’Ue che ambisce a regolamentare i mercati digitali. Dopo anni di studi, consultazioni, e confronti in materia, ma anche battaglie legali verso i giganti Tech,  la Commissione Europea ha adottato il pacchetto di legge sui servizi digitali. Si tratta di due leggi, una sui servizi digitali (DSA) adottata nel 2020, e una sui mercati digitali (DMA), adottata nel 2022, volte a creare uno spazio digitale più sicuro ed affidabile e a ricreare condizioni di libera concorrenza e promozione dell’innovazione.

Il pacchetto di leggi

Il Digital Service Act (DSA) mira a combattere la diffusione di contenuti illegali, la manipolazione delle informazioni e la disinformazione online. La normativa cerca anche di garantire un maggiore controllo democratico obbligando le grandi piattaforme ad essere vigili su ciò che viene pubblicato online. A quest’ultime, definite per aver almeno 45 milioni di utenti finali attivi su base mensile situati nell’Ue, impone specifici obblighi. Per annoverarne alcuni: la condivisione dei propri algoritmi con le autorità e l’abilitazione degli utenti a bloccare le “raccomandazioni” basate sulla profilazione. Oltre a ciò, si chiede anche la prevenzione di ingerenze terze capaci di influire i processi elettorali.

Il Digital Market Act (DMA) dal canto suo intende garantire la concorrenza e l’innovazione nel mercato digitale, nonostante la presenza di colossi dominanti. Questi colossi sono identificati dalla normativa europea come “gatekeepers”, ovvero “guardiani” del mercato, perché aventi la facoltà di dettare legge al suo interno. Come già deciso nel DSA, essi devono avere almeno 45 milioni di utenti, oltre ad avere un determinato fatturato annuo nello spazio economico Ue. Infine questi criteri devono essersi verificati assieme da almeno tre anni. In particolare, secondo il DMA, i gatekepeers devono rendere i propri servizi interoperabili per i terzi in situazioni specifiche, consentire agli utenti commerciali di accedere ai dati che generano utilizzando la piattaforma e consentire agli utenti commerciali di concludere contratti con clienti al di fuori della piattaforma.

Pregi e difetti delle proposte

Con queste normativa l’Unione Europea tenta per la prima volta nella sua storia, di utilizzare una legge sulla concorrenza, definita anche legge antitrust, per prevenire l’abuso di una posizione dominante nel mercato pittosto che sanzionarla ex-post, come ha sempre fatto prima d’ora. Portare le Big Tech davanti alla Corte di giustizia europea si è infatti rivelato uno strumento inefficace per contrastare il loro abuso di potere. La giustizia europea, come quella nostrana, è infatti molto lenta, incapace di stare dietro alla rapida evoluzione dei mercati digitali. Il cambiamento di paradigma potrebbe dunque meglio regolamentare un settore i cui attori hanno operato in totale libertà, spesso incuranti degli effetti nocivi sulla società.

I rischi di regolamentare un settore come quello del digitale è quello di scrivere una normativa che sarebbe già antiquata al momento della sua adozione. I mercati digitali si muovono ad una tale rapidità che i rigidi criteri associati ai “gatekeepers” e le ambiziose richieste fatte alle Big Tech potrebbero avere un effetto distorsivo. In altre parole, si otterrebbe il contrario di quanto sperato, una libera concorrenza falsata. 

Come ricorda Klaus Schwab, nel suo articolo per il  World Economic Forum, i regolatori dovrebbero diventare agili e flessibili come lo sono gli operatori privati che hanno sempre cercato di adattarsi e sfruttare le nuove tecnologie che hanno prodotto la quarta rivoluzione industriale.

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