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Un annuncio non fa solidarietà, sull’immigrazione l’Ue resta divisa

Tempo di lettura stimato: 6 min.

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Una data e un’immagine segnano l’irrompere della questione migratoria in Europa: l’8 agosto del 1991, con l’approdo della nave Vlora con a bordo circa 20mila persone di origine albanese nel porto di Bari. È quel grande mercantile di ritorno da Cuba e costretto a salpare dall’Albania in direzione Italia dopo l’assalto di una folla oceanica a Durazzo a traghettare l’Europa nella modernità. E a restituire da un lato l’emblema dell’implosione della dittatura claustrofobica generata da Enver Hoxha ed ereditata da Ramiz Alia in Albania; dall’altro l’ingresso dell’esodo nell’immaginario collettivo europeo, con tutti i corollari che ne derivano: la frontiera, i profughi, le richieste d’asilo, le guerre, la fuga da violenze e privazioni. 

A quasi un trentennio da quella data spartiacque, la frontiera si è evoluta. Dalla caduta del muro di Berlino, il mondo prima diviso in due dalla cortina di ferro si è risvegliato maggiormente articolato. All’esodo inaugurato dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica è seguito infatti quello ingenerato dallo scoppio delle primavere arabe del 2011, dalla cui onda lunga sono poi nati il conflitto siriano del 2015 e i flussi migratori in risposta alle emergenze specifiche dei territori coinvolti.

Il risultato è stato un moltiplicarsi delle rotte: quella del Mediterraneo centrale, in partenza dalla Libia; quella del Mediterraneo orientale, con gli arrivi in Grecia, Cipro e Bulgaria; quella del Mediterraneo Occidentale, con gli arrivi in Spagna; e quella dei Balcani, con lo sbarco nelle isole greche. Rotte tradizionali, alcune. Rotte sorte per aggirare i nuovi muri, di fili spinato o ideologici, altre. Testimonianze di un fenomeno strutturale, tale da necessitare lo studio di un sistema d’accoglienza coordinato sul suolo europeo.  

Ma in questi trent’anni sul tema immigrazione l’Ue ha spesso adottato soluzioni di compromesso inserite in una cornice emergenziale. Il risultato è un sistema considerato generalmente datato e inefficiente. Da modificare, quindi, ammesso che si trovi una quadra per sopperire ai cortocircuiti legislativi prodotti. 

Persone in fuga dalla guerra. Crediti: janeb13 da Pixabay

La legislazione Ue sull’immigrazione: il regolamento di Dublino

La regolamentazione europea in materia di immigrazione affonda le radici nel 1997, nella convenzione di Dublino – oggi divenuta regolamento, valido quindi per tutti i Paesi Ue – elaborata per gestire i flussi derivanti dall’ex blocco sovietico. Al centro del Trattato di Dublino c’è il processo d’individuazione del Paese che deve farsi carico della richiesta d’asilo. Secondo la legislazione europea, il richiedente asilo è una persona che rivendica lo status di rifugiato o altre forme di protezione internazionale. E dunque che ha lasciato il proprio Paese perché potenzialmente vittima di persecuzioni. Stando al regolamento, a farsi carico della richiesta d’asilo deve essere il Paese di primo approdo, quello cioè in cui i migranti mettono piede una volta arrivati in Europa. È proprio qui che si annidano i primi malfunzionamenti.

I Paesi di frontiera – Italia, Grecia e Spagna in particolare – sono giocoforza soggetti a un sovraccarico, tanto più evidente nei periodi di maggiore pressione. È quanto accaduto nel 2015, quando si raggiunse la cifra record di un milione di persone in arrivo in Europa. Metà in fuga dalla Siria; la restante parte principalmente da Afghanistan e Iraq. La gestione del sistema in capo a pochi Paesi ha prodotto così l’allungamento delle procedure burocratiche di valutazione dei casi, spalancando le porte alle storture degli hotspot, le strutture allestite per identificare i migranti con cui spesso gli Stati di frontiera hanno prestato il fianco alle violazioni dei diritti. Quelle pensate come soluzioni temporanee per l’identificazione e la prima accoglienza sono divenute infatti abitazioni in pianta stabile. È il caso di Moria, nell’isola di Lesbo: campo profughi pensato per 3mila persone e arrivato ad accoglierne sino a 13mila anche nel periodo pandemico, prima che un incendio nel settembre scorso ne devastasse il labirinto di tende.

Baraccopoli. Crediti: Gerd Altmann da Pixabay

Negli ultimi cinque anni la curva degli ingressi in Europa si è piegata notevolmente. Rispetto al 2015 si è registrato infatti un calo del 92%. Anche in Italia dal 2017 al 2020 gli sbarchi sono diminuiti drasticamente, specie a causa dei criticati accordi transfrontalieri siglati con le milizie libiche. Nonostante questo, gli Stati membri non sono riusciti a rimodellare il sistema d’accoglienza interno, ancorato tuttora al problematico Dublino III per come riformato nel 2014. 

Le riforme di Dublino: così l’Ue non trova l’accordo sui ricollocamenti

Dal suo ingresso nell’ordinamento europeo, il regolamento di Dublino è stato soggetto solo a modifiche parziali. Proprio a seguito della crisi dei migranti provocata dal conflitto siriano, però, l’evidente pressione sui Paesi di frontiera ha riproposto il tema della sua riforma, che l’Ue ha perseguito mediante l’approvazione in Parlamento di una proposta di modifica nel 2017. Non più il criterio del Paese d’approdo, ma il ricollocamento dei richiedenti asilo secondo un meccanismo di quote, il nocciolo della proposta elaborata dopo due anni di trattative. Ma i negoziati si sono presto arenati in Consiglio europeo per il rifiuto opposto dai Paesi dell’Est, Bulgaria e Ungheria in primis. Stati, questi, che insieme alla Grecia, all’intensificarsi dei flussi sulla rotta balcanica, hanno inaugurato una nuova stagione di muri: al confine con la Serbia l’Ungheria; a quello con la Turchia sia la Bulgaria che la Grecia. 

Per questo, in assenza di soluzioni condivise e con gli attriti tra i Paesi dell’ex blocco orientale e quelli dell’Europa occidentale, la soluzione elaborata dall’Europa è stata l’esternalizzazione della frontiera. Le politiche di contenimento dei flussi sono state così conseguite appaltando il controllo dei confini a Stati terzi: la Turchia di Erdogan dal 2016, con cui l’Ue ha apposto un tappo al passaggio con la Grecia e con il memorandum d’intesa siglato dal governo Gentiloni con l’omologo libico al Sarraj nel 2017. In mezzo, le denunce sulle torture nelle carceri libiche, le minacce sulla ‘bomba di migranti’ che Erdogan utilizza all’occasione come arma di pressione nei confronti dell’Europa e i respingimenti illegali dalla Grecia in Turchia. Ma anche al confine italiano con la Slovenia, dove i migranti respinti percorrono a ritroso la rotta Balcanica, sottoposti alle documentate violenze della polizia croata – che riceve 7 milioni annui dall’Ue per la sicurezza frontaliera –  prima di essere spediti fuori dall’Ue, in Bosnia o in Serbia. 

L’ultimo tentativo di riforma: il rimpatrio come diaframma tra Ue e immigrazione

L’ultimo tentativo di sbloccare l’impasse degli ultimi anni risale allo scorso settembre, quando la Commissione ha presentato il meccanismo del palazzo a tre piani. La proposta prevede che gli Stati membri abbiano la possibilità di scegliere che linea adottare. La prima è l’accoglienza dei richiedenti asilo sul proprio territorio; la seconda – definita sponsorizzazione dei rimpatri – è un aiuto economico elargito ad altri Stati membri per gli oneri derivanti dai rimpatri dei migranti irregolari: così uno Stato membro s’impegna a rimpatriare i migranti irregolari per conto di un altro Stato membro, secondo un meccanismo di quote; la terza, infine, il finanziamento dei centri d’accoglienza nei paesi di frontiera o programmi di sviluppo nei Paesi d’origine dei richiedenti.

Il nodo centrale della riforma resta dunque quello dei rimpatri, perché – come affermato dalla Commissaria agli affari interni Ylva Johansson – “la maggior parte dei migranti giunti in Europa non ha diritto di restare”. È questo, però, un risultato dovuto anche a provvedimenti interni agli Stati, come i decreti sicurezza approvati in Italia dal governo Conte I, con cui sono state strette le maglie dell’accoglienza: l’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari ha infatti prodotto un consistente aumento degli irregolari sul territorio, che secondo le norme Ue dovrebbero essere rimpatriati. Anche su questa nuova potenziale riforma sono piovute le critiche. Anzitutto delle Ong tra cui l’Oxfam, secondo cui “queste nuove proposte rischiano di ripresentare situazioni abominevoli di cui siamo stati testimoni per anni come gli hotspot in Grecia”. Poi anche di rappresentanti parlamentari, che vedono nella sponsorizzazione dei rimpatri tutto fuorché un meccanismo di solidarietà: ad oggi ancora una chimera nella gestione del fenomeno immigrazione da parte dell’Ue.

*Immagine in evidenza: Foto di Burak Aslan da Pixabay

Questo articolo è parte di una raccolta su flussi migratori e sistemi di accoglienza nel mondo. Articolo precedente: “Il muro di gomma dell’Australia respinge l’immigrazione“.

Pierfrancesco Albanesehttps://orizzontipolitici.it
Nato a Galatina (Le) nel 1998. Dalla prima caduta le testate fanno parte della mia vita: soprattutto quelle giornalistiche. Collaboratore di Leccenews24 e Piazzasalento, studio Giurisprudenza presso l'Unisalento.

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