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Tre cancellieri per trent’anni: l’alternanza dei governi in Germania

Tempo di lettura stimato: 6 min.

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Con la fine di quella che può essere definita a tutti gli effeti “Era Merkel”, la politica tedesca si appresta ad affrontare nuovi cambiamenti nel proprio sistema partitico e non solo. Se nell’ articolo di luglio abbiamo provato ad offrire una riflessione su quali sono le possibili configurazioni del prossimo governo, e successivamente ci siamo soffermati sulle relazioni internazionali della cancelliera e sulla sua politica economica, sembrerebbe ora opportuno provare a riepilogare quale sia stata la storia dei governi della Germania unificata, in modo da verificare quali importanti cambiamenti sono avvenuti nei trent’anni alle nostre spalle. 

Come dimostra il bassissimo numero di cancellieri (3 in 30 anni) e di esecutivi (9 nello stesso arco) una costante del governo federale è stata la stabilità. Per fare un paragone con una repubblica parlamentare che conosciamo meglio, il nostro paese nello stesso arco di tempo ha avuto ben 14 presidenti del consiglio e 21 esecutivi. Questo risultato deriva sicuramente da una cultura politica diversa, ma è innegabile che la differenza abissale tra i due sistemi elettorali (e partitici) sia la principale responsabile. La stabilità non è stata una qualità dei soli governi: la definizione di pentapartito fluido (definizione riportata in Sistemi politici comparati, S.Vassallo, il Mulino, Bologna 2016) ben spiega come cinque sole formazioni, tra loro non troppo opposte ideologicamente, abbiano caratterizzato la politica tedesca per gran parte della sua storia. Tutto questo però sembra essere ormai nel passato. 

I governi della Germania neo-unitaria: Helmut Kohl e Gerhard Schroeder

Il primo governo della Germania unificata venne affidato nel 1990 al cancelliere della BRD Helmut Kohl, incaricato del difficile compito di guidare la trasformazione del Paese. All’epoca, la condizione dell’economia tedesca era molto diversa da quella odierna: il paese usciva da diversi anni di recessione che gli erano valsi il titolo di malato d’Europa. L’obiettivo che il governo si era posto era quello di sollevare quanto più rapidamente possibile l’economia dell’ex DDR per garantire all’est del paese uno slancio vigoroso per il passaggio all’economia di mercato.

Questo obiettivo però non venne raggiunto durante il governo Kohl. Diversi studiosi (ibidem) constatano infatti che gli investimenti infrastrutturali nei lander orientali non sono stati sufficienti per stimolare l’economia in assenza di una politica mirata allo sviluppo industriale. Con l’aumento della disoccupazione al 9,4% la popolarità del cancelliere è andata calando. Come dimostrato dal risultato delle elezioni generali del 1998, che consegnarono il Paese nelle mani dell’SPD di Gerhard Schroeder. Per la prima volta l’SPD salì al governo in coalizione con i verdi (un precedente interessante, se guardiamo alle elezioni imminenti). Schroeder avviò così un programma di riforme che tentavano di colmare gli insuccessi precedenti. Propose  un nuovo modello di sinistra assieme al primo ministro britannico Tony Blair, realizzando un manifesto comune denominato “Europe, The third way/die neue mitte”. I due tentarono di separarsi dal tradizionale modello di sinistra statalista per aprire al neoliberismo.

Proprio su questo principio si è basata la politica del suo governo, riassunta nell’Agenda 2010, un programma di riforme incentrato soprattutto sul taglio del welfare. Per un partito che storicamente aveva fatto dell’assistenzialismo un punto centrale della propria militanza, questo è stato un drastico cambio di sponda, mal recepito da elettori e iscritti (come afferma D.P. Conradt,). Sebbene la frammentazione interna dei partiti in correnti fosse stata una costante di lungo corso per la politica tedesca, nel caso di Schroeder rischiò davvero di costar caro al cancelliere. Tuttavia, all’indomani delle elezioni, lo scandalo dei finanziamenti della CDU giunse in suo soccorso, affossando la popolarità dei cristiano-democratici e garantendogli un secondo mandato. I problemi interni però, non saranno risolti, e porteranno al deludente risultato SPD delle elezioni del 2005. 

Il lungo regno di Angela Merkel

Se il numero di anni di governo di un leader venisse utilizzato come principale indice del suo successo, Angela Merkel sarebbe una vincitrice impareggiabile. Mentre i capi di governo intorno a lei hanno continuato a cambiare, lei è rimasta salda in sella, aggiornando di volta in volta i propri programmi (e i propri alleati in parlamento). La sua ascesa non avrebbe di certo suggerito un simile risultato: nelle sopracitate elezioni del 2005, la sua CDU crollò al minimo storico, riuscendo ad ottenere il cancellierato solo grazie alla débâcle del proprio principale concorrente socialista. L’aritmetica (e la mancata entrata dell’FDP in parlamento) costrinse i cristiano democratici ad allearsi proprio con i loro competitor nella prima Großkoalition della Germania unita.

Pur dovendo ovviamente scendere a compromessi sul proprio programma, Angela Merkel ha mantenuto le promesse del proprio discorso inaugurale all’indomani della propria elezione, abbassando il tasso di disoccupazione senza ricorrere a riforme strutturali (a differenza dei precedenti governi). Nel 2009, forte della sua popolarità  estremamente alta tra gli elettori, si accontentò di una campagna elettorale sobria, cercando poco scontro con l’SPD preferendo valorizzare i risultati ottenuti dalla Großkoalition. Questa campagna elettorale “noiosa” è sfociata nell’astensionismo più alto mai registrato: “solo” il 70% degli elettori ha espresso una preferenza (da una prospettiva estera può sembrare ironico, ma l’elettorato tedesco si è sempre distinto per una grande partecipazione). Al netto di ciò, la CDU mantenne la maggioranza relativa, coronando l’obiettivo di creare una coalizione di centro-destra accanto ai liberali dell’FDP.

E’ proprio sotto questo governo, il secondo presieduto dalla cancelliera, che venne affrontata la crisi economica dell’eurozona. La resilienza tedesca, oltre alla sua influenza nel prendere alcune delle decisioni più difficili a livello europeo, è stata percepita dagli elettori come un merito della CDU. Il risultato è arrivato puntuale al successivo appuntamento elettorale, con una vittoria netta della CDU nelle elezioni del 2013 e una nuova coalizione con la SPD. L’assetto del parlamento però venne stravolto dalla “scomparsa” dei liberali, che non riuscirono a superare la soglia di sbarramento al 5%. La regola dei 5 partiti venne  infranta, e la stabilità politica della repubblica federale sembrò vacillare. Sarà il 2017 a far crollare definitivamente questo modello: crisi migratoria e terrorismo daranno carburante per una forza di destra estrema, AfD, che diventerà il 3° partito del paese. Con il rientro dei liberali nell’arena parlamentare, il numero totale dei partiti passò a 6. In questo clima avvennero le difficili trattative per la formazione del governo Merkel IV, durate quasi 5 mesi e sbloccate solo grazie all’intervento del presidente Federale Steinmeier. Una situazione inedita e imbarazzante per la Bundesrepublik.

2021, instabilità di transizione o cambio di passo?

Alla luce di quanto sopra, possiamo facilmente capire come il paese che Angela Merkel ha preso in consegna nel 2005 sia profondamente mutato nel corso del suo lungo periodo al governo. In particolare, il sistema dei partiti sembra essere finalmente giunto ad un’evoluzione dopo decenni di stabilità. Questo, messo in prospettiva per le elezioni che ci attendono a breve, suggerisce come il paese potrebbe trovarsi in seria difficoltà per determinare una coalizione vincente. 

La stabilità di questi anni non è stata semplicemente frutto di una convergenza di intenti: è il risultato della combinazione di una cultura politica e di un sistema elettorale che garantisce governabilità. Le regole non sono cambiate (e probabilmente non cambieranno nell’immediato futuro). Ad essere cambiata è la stagione politica, che vede alcuni partiti di massa tradizionali in lotta per mantenere la propria posizione contro sfidanti “nuovi”, in particolare i verdi (analizzati precedentemente) e attaccati da forze anti-establishment che riescono a incanalare il malcontento, come nel caso di AfD.

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