Chi è il mafioso battezzato da Totò Riina
Figlio del boss Bernardo, Giovanni Brusca è stato esponente di spicco dei Corleonesi, nonché capo del mandamento di San Giuseppe Jato, famiglia mafiosa interna a Cosa Nostra. Membro di rilievo di quest’ultima, fu proprio Riina a guidarlo nella cosiddetta punciuta, la caratteristica cerimonia d’iniziazione. È responsabile di numerosi omicidi – ha dichiarato di aver ucciso o ordinato di uccidere oltre 150 persone –, tra cui purtroppo quello ampiamente noto del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido a soli quindici anni in quanto figlio del pentito Santino. A lui spetta anche la responsabilità derivante dalla strage di Capaci, dove morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Fu Brusca, infatti, a premere il tasto del radiocomando che fece esplodere il tritolo presente in un canale di scolo sotto l’autostrada. Con riferimento a tale accaduto, Brusca si è occupato anche di dirigere la fase esecutiva del delitto, reperendo l’esplosivo oltreché organizzando in maniera capillare l’appostamento funzionale all’attentato e la fuga.
Arrestato nel maggio 1996, ha cominciato a rilasciare dichiarazioni in merito all’operato di Cosa Nostra e dei suoi componenti. Solo nel 2000, però, gli viene riconosciuto lo status di collaboratore di giustizia, con godimento dei relativi benefici, tra cui soprattutto la fine del regime carcerario previsto dall’art. 41-bis. Il 31 maggio 2021, dopo aver trascorso 25 anni nel penitenziario di Rebibbia, Brusca è stato liberato per fine pena – con 45 giorni di anticipo –, rimanendo sottoposto al regime di libertà vigilata per ulteriori 4 anni.
Il collaboratore di giustizia
Proprio dei tempi relativi alla pena da scontare per i collaboratori di giustizia si è ampiamente discussa nella politica e nella giurisdizione italiana. Ha infatti subito diverse variazioni nel diritto nostrano, ed è caratterizzata da discipline diverse a seconda dell’area geografica di riferimento. In comune si ha la natura del collaboratore di giustizia, inteso come un soggetto che, dinanzi a particolari conoscenze relative ad un fenomeno criminale, decide di collaborare con l’autorità giudiziaria, rilasciando dichiarazioni e confessioni. In cambio i pentiti ottengono benefici giuridicamente previsti, come riduzioni di pena e protezione dello Stato. La disciplina normativa italiana trova il suo primo riferimento normativo nella Legge Cossiga, applicabile solo tuttavia a individui giudicati terroristi. Questa è stata spesso oggetto di critiche in quanto concedeva privilegi ai criminali principali, ovviamente in possesso di informazioni importanti, mentre chi commetteva crimini secondari spesso non disponeva di informazioni utili alla Giustizia, quindi doveva rinunciare agli sconti di pena – di conseguenza, alla collaborazione. Di qui l’intuizione del giudice Giovanni Falcone di porre in essere una legge che esaltasse il contributo dei pentiti alla risoluzione delle fattispecie legate alla lotta contro la mafia. Così arriva l’emanazione della legge 82/1991, che per la prima volta ha normato il ruolo del collaboratore di giustizia. A questa ha seguito la legge 45/2001, che ha introdotto, tra le altre novità, la figura del testimone di giustizia, che si differenzia dal collaboratore in quanto il primo non ha commesso alcun crimine: la sua collaborazione nasce infatti da ragioni non legate ai benefici derivanti dallo status di collaboratore – tra cui, a titolo d’esempio, gli sconti di pena.
Collaboratori di giustizia nella Storia
Come precedentemente accennato, quello di Giovanni Brusca è solo uno dei tanti casi che fanno riferimento al ruolo del collaboratore di giustizia. In passato, infatti, altri hanno rilasciato dichiarazioni alle autorità giudiziarie col fine di aiutare lo Stato nella lotta contro la mafia. Fra questi figura Tommaso Buscetta, chiamato dalla malavita “Il boss dei due mondi”. Buscetta è stato infatti uno dei primi pentiti della storia in assoluto – il secondo dopo il mafioso Leonardo Vitale. Le sue confessioni rivelarono informazioni importanti circa la struttura gerarchica di Cosa Nostra, che fino a prima del contributo di Buscetta risultavano sconosciute a causa della notevole omertà caratterizzante gli ambienti mafiosi. Seguirono anche altri, tra cui i più noti Felice Maniero e Santino di Matteo.
Il primo, ex capo della Mala del brenta – organizzazione mafiosa veneta – ha commesso rapine, furti e assalti in banche e in uffici postali. È stato inoltre accusato di omicidi, traffico di armi, droga e associazione mafiosa. Divenne collaboratore di giustizia nel 1995: le sue dichiarazioni hanno svolto un ruolo cruciale nello smantellamento della banda che egli stesso comandava.
Il secondo, già precedentemente citato, è stato tra i primi a lasciare Cosa Nostra. Venne accusato di dieci omicidi di matrice mafiosa, e le sue rivelazioni come collaboratore di giustizia gli sono costate l’omicidio di suo figlio Giuseppe. Essendo stato uno degli artefici della strage di Capaci – nonostante non partecipò attivamente all’esecuzione dell’attentato – è stato testimone al processo incentrato sui mandanti della strage.
Le opinioni di esperti sulla legge
Tornando alla normativa in merito ai collaboratori di giustizia, non solo di recente sono state espresse opinioni quanto alla sua valenza o meno in ottica di contrasto al fenomeno mafioso in Italia. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, intervenuta recentemente in commissione Antimafia, ha dichiarato come tale norma sia “da preservare”, in quanto rappresentazione “dell’importanza del contributo, storicamente assai rilevante, fornito dai collaboratori di giustizia”. La medesima posizione è stata assunta anche da importanti magistrati antimafia, tra cui figurano Piero Grasso, Gian Carlo Caselli, oltre alla stessa Maria Falcone, sorella di Giovanni.
Nel 2015 espresse opinione differente l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano. Infatti il suo viceministro, Filippo Bubbico, istituì un team di lavoro volto a stilare un rapporto finalizzato a rivedere la disciplina normativa a tutela dei collaboratori di giustizia. Il tentativo, andato vano, era di “rafforzare l’assistenza personale e psicologica di quanti si motivano ad una scelta di legalità così rilevante e una maggiore efficienza nell’uso delle risorse dedicate attraverso il sostegno mirato al reinserimento sociale e lavorativo delle persone protette”.
Cosa aspettarsi?
La disciplina normativa sottostante la collaborazione dei pentiti di mafia è un insieme di presupposti volti a tutelare anni di storia di lotta contro la mafia. Per questa ragione, ancora oggi è oggetto di controversie e potenziali revisioni: la società è dinamica, e con essa si evolve anche il ruolo ricoperto dalle autorità giudiziarie in ottica di protezione dei soggetti coinvolti nel ruolo di collaboratori e testimoni di giustizia. Da un lato, infatti, emerge la necessità di preservare il contributo storico e sociale della legge, vista la notevole chiave di lettura fornita da questa nel corso degli anni. Dall’altro, è altresì vero che non va intaccato il lavoro che intercorre tra le autorità giudiziarie e il pentito, anche in segno di rispetto delle famiglie dei morti, innocenti, di mafia. Quella di Giovanni Brusca è solo una delle tante occasioni di discussione di una legge che, oggi più che mai, è al centro anche del dibattito nella classe politica italiana.
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